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Autore: Flying_lotus95    23/01/2022    0 recensioni
[Capitoli dal 1° al 9° revisionati]
Giappone, inizio anni'60. Un gruppo di sei ragazzi affronta le proprie vicende quotidiane, combattendo con un passato che non vuole lasciarli liberi. Mario Minakami è intenzionato a scoprire chi si cela dietro l'omicidio di Rokurota Sakuragi, l'uomo che sei anni prima aveva preso lui e i suoi amici sotto la sua ala e li aveva reintrodotti nella società, affrontando non poche difficoltà; Joe Yokosuka, meticcio, è alle prese con un passato ingombrante, una sorella da salvare, e un amore da proteggere; Tadayoshi Tooyama è un soldato delle Forze Armate del Giappone, sposato con la dolce Mina. Tra sensi di colpa e paure, dovrà affrontare i suoi demoni una volta per tutte...
Assieme ai loro ex compagni di cella, Ryuji Noomoto, Noboru Maeda e Mansaku Matsuuda, i tre si ritroveranno faccia a faccia ad affrontare un pericolo comune, che minaccerà il loro futuro, la loro "terra promessa".
[Leggera presenza OOC]
Genere: Azione, Drammatico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Crack Pairing
Note: Lemon, Otherverse, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 2


  • Marzo, arcipelago delle isole Carolina, Oceano Pacifico, anno 20 dell’epoca Showa (1945)
 
«Com'è andata oggi?» chiese il giovane, sedendosi cauto a terra, porgendo uno spicchio di frutta alla giovane stesa sul futon.
«Come sempre» fu la sua risposta, piatta e sincera.
Di giorno faceva sempre un gran caldo atroce, la notte invece le temperature calavano drasticamente.
Molte donne nel campo si erano ammalate di tisi e sifilide, la stessa Mariya aveva contratto la prima già da alcuni mesi, sebbene in forma lieve.
Ma erano già diversi giorni che non sputava più sangue ad ogni colpo di tosse. 
Probabilmente il merito andava a quel giovane angelo che andava a trovarla di soppiatto, quando gli altri commilitoni non lo vedevano.
La sua vicinanza si era rivelata un balsamo per la sua anima martoriata. 
Quando sentivano passi avvicinarsi alla capanna, iniziavano a fingere gemiti ed urla, così da far desistere il soldato di turno che avrebbe avuto intenzione di entrare per spassarsela con lei. Quando il pericolo scampava, i due iniziavano a ridere come forsennati, cercando di non farsi sentire da nessuno, né dai soldati e né dalle altre donne.
In quei momenti, per Mariya era stato come tornare indietro nel tempo, quando entrambi dopo la scuola sfrecciavano insieme sulla stessa bici, respirando a pieni polmoni la libertà e la spensieratezza dei loro sedici anni.
«Desterai sospetti se vieni sempre qui a trovarmi» sentenziò lei, addentando l'ultimo spicchio di ananas.
L'altro la squadrò in silenzio, poi si stese di fianco a lei, l'uno perso nello sguardo dell'altra. Tavolozze di colore grigio che si mescolavano dolcemente ad iridi d'ebano.
«Mi sono mai fatto sgamare quando saltavo le lezioni per venirti a prendere?» esclamò, aprendosi in un sorriso radioso, nonostante il viso sporco di terra.
Mariya dissentì, accennando un sorriso.
«E vedrai che non succederà neanche stavolta» fu l'affermazione decisa del compagno. 
La ragazza volle credergli, volle credere di avere diritto ancora ad uno spiraglio di felicità, ad un piccolo miracolo.
«Qui però non siamo a casa» fu comunque la sua risposta.
«Qui siamo in guerra. Tu combatti al fronte ed io-»
«Tu cerca di resistere. Promettimi che alla fine di tutto, ce ne andremo insieme da quest'isola. Ricominceremo tutto daccapo, andrà tutto bene» la incoraggiò il giovane soldato, stringendole la mano.
Mariya accennò ad un sorrisino lieve, non sapeva se sarebbe riuscita davvero a mantenere quella promessa. Ma ci avrebbe sicuramente provato a tenere viva quella speranza, quel sogno effimero di futuro.
Si accoccolò maggiormente nel suo abbraccio. La sua divisa era pesante e grezza, gli faceva paura. Ma sotto di essa c'era lui, il suo primo amore. 
E quella consapevolezza sarebbe bastata a calmare ogni dubbio, ogni incertezza, ogni timore.


 
  • Marzo, Giappone, anno 35 dell’epoca Showa (1960)
 
Quel mattino, i rifornimenti al Rainbow arrivarono più che puntuali. 
Noboru stava aspettando sull'uscio con grande trepidazione, Ryuuji e Mansaku invece stavano preparando le casse che avrebbero racchiuso i liquori e le sigarette d'importazione. 
Il loro era da considerarsi un contrabbando vero e proprio, anche se fatto alla luce del sole; si poteva tranquillamente affermare che se tutto il quartiere dei locali notturni avesse avuto ragione di esistere, ciò lo si doveva all'intervento degli Americani e del suo piano di aiuto economico.
Nel giro di poco tempo, nel dopoguerra, il soldati americani avevano installato le loro basi e il loro commercio. 
Il Giappone aveva dovuto ingoiare quel rospo amaro dopo la perdita della guerra, aveva dovuto accettare i vincitori in casa sua senza battere ciglio, chiudere entrambi gli occhi a continue offese sottili e vilipendi. 
Il giusto prezzo da pagare per aver desiderato di essere sul tetto del mondo, e di possederlo a piene mani e di disporne a suo piacere.
Per i giapponesi era stata l’ennesima imposizione mascherata magistralmente da gentilezza imposta, quella di accettare e rivendere merce di marchio straniero, usando come scusa accreditata l’aiuto degli Americani per andare incontro all'incremento del commercio giapponese. E nonostante ormai fosse passata una quindicina d'anni dalla fine della guerra, la Nazione continuava a subire il giogo delle forze alleate, un po' per obbligo, un po' per salvaguardia personale.
Jeoffrey era arrivato con la sua jeep davanti al locale, in compagnia di altri due suoi commilitoni, Vince e Peter, il primo alto e muscoloso, il secondo leggermente più basso e magro, più o meno entrambi sulla ventina o su di lì. Si guardarono intorno come se stessero ammirando un panorama fantastico, esotico. 
Jeoffrey invece era abituato ormai a quel quartiere, a quella gente. Tutto il merito andava attribuito a Lily, alla sua amicizia che lo legava a lei a doppio filo. Era la donna del suo superiore, nonché colei che gestiva una sorta di bordello all'interno del campo base.
Il loro era molto un rapporto tra subordinato e superiore, l'americano aveva sempre riconosciuto le doti intellettive di Lily. Anche grazie all'aiuto di qualcun altro.
«Where is Joe?» chiese, con la sua solita aria beffarda. Noboru lo guardò storto, sentendosi velatamente preso in giro, anche se bonariamente. Conosceva abbastanza Jeoffrey da intuire quando fosse serio oppure no.
«Guarda che ti capisco, idiota! E poi Joe non ci sta, quindi vedi di parlare giapponese, non mi sembra che proprio tu abbia bisogno di un traduttore!» commentò stizzito Noboru, a braccia conserte.
L'uomo esplose in una fragorosa risata, coinvolgendo anche gli altri due soldati, dandosi pacche a vicenda.
«Volevo solo testare il tuo inglese, little boy!» affermò lui, col petto in fuori, dando un buffetto amichevole sulla guancia del più piccolo, che alzò un sopracciglio, irritato.
«Vai al dia-»
«Prego signori, da questa parte!»
Ryuuji s'intromise nella diatriba appena nata tra i due, facendo entrare i due ragazzi americani con le enormi casse di alcolici e sigarette. 
Ryuuji abbassò il capo in segno di riverenza, ricambiato prontamente da Jeoffrey.
«Devi scusarlo, oggi sta storto. E credo sia anche per colpa tua» rivelò il quattrocchi, grattandosi un sopracciglio.
Jeoffrey rimase di stucco nell'apprendere tale confessione.
«Problemi con la merce?» chiese, titubante.
«No, problemi con Mario, come al solito!» dichiarò Noboru, in tutto il suo disappunto.
Jeoffrey comprese immediatamente a cosa stessero alludendo.
«È per l'indirizzo, giusto?», intuì l'americano, umettandosi le labbra.
«Rischiava di finire di nuovo al gabbio! Tu non lo devi assecondare! Qua già lo stiamo trattenendo con le tenaglie pur di non fargli commettere sciocchezze! Da quando ha perso il lavoro poi, è più intrattabile del solito» sentenziò Noboru, schiaffandosi una mano in faccia. 
Jeoffrey lo sapeva, lo sapeva bene.
Quando aveva visto la sua agenda aperta sulla scrivania - l'aveva dimenticata lì mentre cercava qualcos'altro - proprio alla pagina dell'indirizzo di Atsumichi Sakuragi, aveva subito sospettato che Mario avesse in mente qualcosa contro di lui.
Sulle prime aveva riso, poi pensando a come Lily avrebbe reagito se avesse scoperto le vere intenzioni di quel moccioso, era tornato sui suoi passi,  augurandosi di non essere stato la causa involontaria e scatenante di una strage familiare.
«È andato sotto casa di Sakuragi a urlargli minacce ed improperi, ed era pure ubriaco» spiegò Ryuuji, appoggiatosi allo stipite della porta, di schiena.
«Pensa se lo avesse sentito e chiamato le guardie! Dovevamo solo ipotecarci il locale per pagargli la penale» scherzò poi, soffocando una risata in gola.
C’era ben poco da scherzare a riguardo, ma per Ryuuji era sempre stato quello il modo più giusto di affrontare i problemi. Non li sminuiva affatto, cercava solo di renderli più leggeri agli occhi degli altri, più sopportabili.
Per uno come lui che aveva perso tutto a causa della guerra, affrontare la vita con cipiglio allegro si era rivelata un’arma molto potente.
«Tanto, poco ci mancava che lo buttassero dentro per stato di ebbrezza e mancato documento di viaggio!» controbattè Noboru, piccato.
Jeoffrey seguì il discorso dei due ragazzi più giovani, non potendo fare a meno di trattenere le risate.
«Mario non si smentisce mai, it's true?». Fu Vince a commentare, si era tolto il berretto per asciugarsi la fronte dal sudore.
«E che ci possiamo fare! Ce lo dobbiamo tenere così» Ryuuji si sistemò gli occhiali sul ponte del naso, sbuffando una risata nasale, che Vince imitò per riflesso. Anche Peter si trovò abbastanza concorde col compagno. Dopotutto conoscevano abbastanza bene Mario da poter immaginare benissimo che potesse essere tutto vero quanto dichiarato.
«Volete che ci parli io? O che lo faccia Lily?» propose poi Jeoffrey, affabile.
Ryuuji e Noboru si scambiarono un'occhiata veloce, complice. 
«Grazie del pensiero, ma... com'è che si dice? "I panni sporchi si lavano in famiglia"!» decretò Noboru, altero.
«Ma in teoria, Jeoffrey è di famiglia per Mario! Non è ormai diventato suo zi- ahia!».
Le parole di Mansaku vennero prontamente bloccate da un pizzicotto che Ryuuji provvedette a dargli all'altezza del fianco, per zittirlo. 
«Ma sei scemo?!» sibilò tra i denti, indicando con lo sguardo i due soldati intenti a controllare che nella cassa vi fosse tutto ciò che era presente sulla lista.
Mansaku si schiaffò una mano sulla bocca, improvvisamente terrorizzato di aver detto troppo davanti ad orecchie indiscrete.
Nel frattempo, Jeoffrey annuì all'affermazione, alzando le mani in segno di resa. Non lasciò intendere se avesse ascoltato anche solo parzialmente ciò che Mansaku stava accidentalmente per rivelare.
«Capo, qui abbiamo finito» esclamò poi Vince in inglese, con le mani sui fianchi. La giacca nera esaltava quel suo sguardo smeraldino che il cappello a visiera tentava in ogni modo di occultare ai raggi del sole. 
«Okay, andiamo a rifornire gli altri allora» rispose l'uomo, sempre in inglese.
Una volta salito sulla jeep, salutò i due amici con un gesto veloce della mano.
«Tranquilli, che se lo becco si prende la ramanzina anche da parte mia!» disse poi ad alta voce, accendendo il motore.
Dopo che il veicolo sfrecciò via dalla strada, Ryuuji e Noboru rimasero a guardare la scia di polvere che la jeep si era lasciata alle spalle, raggiunti prontamente da Mansaku.
«Non sarebbe meglio se lo facessimo parlare effettivamente con Lily-san?» fu la timida domanda che Mansaku porse ai suoi amici di sempre, guadagnandosi occhiatacce contrariate da entrambi. 
«Hai davvero intenzione di far scoppiare un terzo conflitto mondiale? Si salvi chi può!» rispose Ryuuji, ridendo all’idea di cosa sarebbe potuto accadere, se davvero Mario e Lily si fossero ritrovati nella stessa stanza, a discutere sull’accaduto.
«Concordo. Già con Setsuko-chan non si è trattenuto, figuriamoci con lei!» diede man forte Noboru, dirigendosi verso le casse lasciate dai due giovanotti americani.
«Ma poi, come ti è venuto in mente di alludere a quella faccenda davanti a quei due?? Volevi forse metterlo in difficoltà?» sbraitò Noboru alla volta del povero Mansaku, ancora mortificato per quanto non era riuscito a trattenere.
«Scusate, però è vero che Jeoffrey per Mario è di famiglia, visto che lui e sua zia-»
«Se non lo vogliono far sapere in giro avranno i loro motivi, no? Se ci fosse stato Mario qui oggi ti avrebbe tagliato la lingua senza pensarci troppo!». Noboru interruppe bruscamente la pacata arringa che Mansaku aveva tentato di dichiarare, senza ottenere il successo sperato. 
Non sapeva effettivamente se di quei due soldati si sarebbero potuti fidare, e se si fossero lasciati scappare qualcosa, Mario non glielo avrebbe perdonato facilmente, dato il carattere turbolento che si ritrovava.
«Mi dispiace» mormorò Mansaku, mogio.
«Suvvia Noboru, non farne una tragedia!» dichiarò poi Ryuuji avvicinandosi all’altarino di Rokurota, con i pugni sui fianchi.
«Ah, Rokurota-san! Proteggici tu…» esclamò Ryuuji, accendendo una bacchetta d’incenso da posizionare sotto la foto di Rokurota Sakuragi. 
Avevano allestito quel piccolo altare tra la vetrina e la parete attrezzata dei liquori. Glielo dovevano, dopotutto il Rainbow era stato il suo ultimo regalo per loro.
Per tutti loro, quel locale non era solo fonte di guadagno, ma era anche casa, unione, famiglia. 
Noboru e Mansaku congiunsero le mani in preghiera, salutando il loro benefattore, che li osservava con quegli inconfondibili occhi screziati di grigio sorridenti, nella sua divisa militare, impeccabile.
«Forza ragazzi, mettiamoci all’opera!» ordinò Ryuuji, diretto verso il bancone. Gli altri due iniziarono a rovistare tra le casse a terra.
 
* * *
 
La sala d'attesa non era gremita di gente quella mattina.
Joe muoveva nervosamente un piede, mordicchiando l'unghia del pollice.
Avrebbe di gran lunga preferito fumare una sigaretta, ma non era consigliabile prima di una visita medica. Il dottor Tenko lo aveva più volte ripreso su questa sua abitudine poco salutare. 
Joe si sentiva tremendamente a disagio seduto in quel corridoio. Era l'unico uomo presente in attesa, le altre pazienti erano tutte donne, dai cinquanta fino a scendere ai sedici anni. 
Passò in rassegna tutti i loro volti, cercando di cogliere quante più emozioni possibili: paura, disorientamento, speranza, gioia, ansia.
Se avesse dovuto catalogarsi in una di esse, Joe non avrebbe saputo in quale identificarvisi maggiormente. 
Nonostante non fosse la prima volta per lui in quello studio, l'ansia lo divorava vivo sempre, proprio come il primo giorno, quando cinque anni prima Rokurota Sakuragi lo aveva portato lì febbricitante e con la vista annebbiata. 
La diagnosi era stata immediata. E terribile.
La possibilità di risultare ancora una volta infetto, di cominciare un nuovo ciclo di cure, lo spaventava da morire. 
Dalla sifilide non ne era uscito immune, la vista continuava a giocargli qualche brutto scherzo, ogni mal di gola o bruciore allo stomaco gli provocavano un'ansia terribile. 
Come se il nemico fosse sempre lì in agguato, pronto a colpirlo dietro le spalle, a tradimento.
Annebbiato da quei pensieri bui, in procinto di scoppiare da un momento all'altro, notò due ragazze sedute proprio davanti a lui.
Una delle due si teneva il ventre, mentre con l'altra mano stringeva quella della compagna, più fiduciosa.
Joe non andava mai da solo a quelle visite mediche, ma in quel frangente non aveva potuto fare altrimenti. Erano giorni che Mario non si faceva né vedere né sentire al locale, e Tadayoshi era stato impegnato in caserma. Mansaku lo avrebbe anche accompagnato, ma proprio quella mattina doveva aiutare Ryuuji e Noboru con i rifornimenti.
Si era vergognato poi di chiedere a Namie quel piccolo favore. 
Lei aveva il suo lavoro e non poteva pretendere che lasciasse tutto solo per aiutarlo a distrarsi dall'agonia infinita dell'attesa.
E poi c'era Daisy, che non si sarebbe fatta il minimo scrupolo ad accompagnarlo. Ma non avrebbe potuto avere libertà di circolare in certi posti, come un ospedale. Ricordarglielo per Joe sarebbe stato penoso, oltre che mortificante.
Fu proprio in quel momento che il giovane hāfu ricordò un episodio di qualche anno prima. Un aneddoto che si rivelò provvidenziale.
 
"A te piace cantare, vero?" se ne uscì Rokurota, così dal nulla.
Joe lo fissò con i suoi enormi occhi azzurri, le iridi tremavano appena.
"Uhm, perché?" chiese, vagamente stupito.
Rokurota gli mise una mano sul ginocchio che tremava, con l'intento di fermare quel tremolìo, lo guardò incoraggiante.
Erano in quella sala d'attesa da troppe ore, e Joe stava iniziando a smaltire velocemente tutta la calma di cui si era fatto carico quel pomeriggio.
"Cantiamo una canzone."
Joe buttò un'occhiata intorno, stupito.
"Ma ci cacceranno."
"E noi facciamolo a bassa voce."
"Ma non so cosa cantare..."
"La canzone di Elvis?"
"Quella? Perché proprio quella?"
"Perché quando la canti ti brillano gli occhi".
 
Senza rendersene conto, Joe iniziò a fischiettare il motivetto di Heartbreak Hotel, portando il tempo con entrambe le mani. 
Le due ragazze alzarono lo sguardo verso di lui, incuriosite.
Joe le guardò compiaciuto mentre fischiettava la canzone, sentiva i muscoli meno contriti, più rilassati, e la testa meno pesante.
Le due ragazze, a loro volta, cominciarono a portare il tempo muovendo il capo, divertite da quel fischiettare allegro, portatore di leggerezza.
La musica lo avrebbe salvato, ancora una volta.
Due minuti più tardi, un'infermiera di passaggio zittì Joe con un sonoro “SHH!”, regalando a lui e alle sue spettatrici uno sguardo contrito.
Joe fece spallucce alla volta delle due ragazze, che risposero con un'alzata di spalle a loro volta, costernate. L'atmosfera serena che si era propagata velocemente intorno venne risucchiata nel nulla nel giro di pochi secondi.
Al giovane biondino non rimase che poggiare la testa sul muro ruvido, e deglutire sommessamente.
Socchiuse gli occhi, cercando di immaginarsi altrove, lontano da quel posto.
Immaginò allora la grande villa, Mario e Ryuuji stesi sul tatami, intenti a studiare qualche parte noiosa di letteratura nel grande salone soleggiato, punzecchiandosi a vicenda. 
I profumi deliziosi che provenivano dalla cucina di Setsuko, e Noboru che gli soffiava il cibo da sotto il naso, beccandosi una bacchettata col mestolo sul sedere da parte della donna, mentre lo ammoniva divertiva.
Tadayoshi che potava le piante dell’aiuola, con una concentrazione quasi maniacale sotto il sole cocente di un luglio particolarmente caldo, ma ventilato.
Mansaku che preparava la tavola in cucina, portando vino, brocche d’acqua, frutta e prelibatezze varie, urlando verso i due giovanotti che erano arrivati alle mani, rotolandosi sul pavimento come due sacchi di iuta.
E intanto lui restava seduto sotto al portico ad osservare la scena, rannicchiato sul pavimento con una giacca militare sulle spalle. Emanava lo stesso odore pungente di sigaretta di Rokurota, era un aroma così accogliente, così caldo alle sue narici, familiare…
Ehi Joe.
La voce di Rokurota che lo chiamava dal giardino. Joe poteva vederlo mentre si avvicinava piano, e gli metteva come sempre una mano sulla testa, rassicurante.
Joe…
«Ehilà, Joe!»
Una voce familiare – che non era quella di Rokuruta, lo ridestò di colpo.
«Siamo di visita oggi?», esclamò la voce, vellutata e gentile.
Il biondo aprì soltanto l’occhio sinistro. Notò una signora piegata in avanti, bellissima e con un sorrisetto a fior di labbra. Portava un cardigan bianco su un vestito color rosso ciliegia.
Non ci mise molto a riconoscerla.
«Lily-san!» esclamò Joe, sollevato.
La donna si aprì in un sorriso caldo, che di conseguenza gli illuminò il bello sguardo da cerbiatta. 
«Posso sedermi?» chiese affabile.
Joe annuì felice, sorridendo come un ebete.
Vedere un volto amico in quel corridoio gli fece tornare il respiro e le forze. 
«Anche tu sei venuta a farti visitare?» chiese il biondo, inclinando la schiena in avanti.
Lily gli regalò l'ennesimo sorriso obliquo dei suoi, affascinante e caloroso. 
«Ho accompagnato una delle mie ragazze a fare una visita di controllo. Ha avuto un ritardo» rispose lei, sistemandosi una ciocca di capelli neri dietro l'orecchio, con le sue belle unghie smaltate rosso fuoco.
«Nonostante da qualche giorno è arrivato il nuovo medico all'infermeria della base militare, ha preferito venire qui a farsi visitare da Kensuke» aggiunse la donna, trattenendo un sorriso.
Joe annuì, intuendo tempestivamente la natura della problematica.
Almeno da quel tipo di problema fisicamente ne era esonerato, ma non sapeva dire con certezza cosa fosse meglio o peggio tra le due eventualità.
L’attenzione costante di tenere sotto controllo gli strascichi provocati da una malattia venerea per paura di una ricaduta, o il rischio di incorrere in una gravidanza indesiderata. 
Joe si umettò le labbra, un pensiero improvviso lo colse impreparato.
Come se fosse riuscita a leggergli il pensiero, la donna si sentì in dovere di rincuorarlo, chiarendo l’equivoco che sarebbe potuto sorgere di lì a poco.
«Tranquillo, non si tratta di Meg» proferì Lily, poggiandogli la mano smaltata sulle dita intrecciate.
«Te lo avrei detto senza troppi giri di parole che ero qui con lei. Non avrei motivo di nascondertelo» ribadì poi, comprensiva.
A quelle parole, Joe non riuscì a non trattenere un sospiro di sollievo.
I rapporti con Meg, sua sorella minore, si erano interrotti sei anni prima, dal momento in cui era stato arrestato dopo che aveva aggredito la sua matrigna, spaccandole una bottiglia di vetro in testa. 
Sarebbero dovuti fuggire via, se non fosse stata per la subdola coalizione che la donna e Shinnosuke Maerata, l'uomo che aveva comprato Meg come moglie, avevano messo in piedi, sbattendo Joe in carcere con l'accusa di aggressione ai danni della propria tutrice. 
Erano passati sei anni dall'ultima volta che si erano visti.
Era stata proprio Daisy, un tempo sua compagna di sventure, a confessargli che erano mesi che Meg ormai si trovava al campo base americano. Come lo avesse saputo, per Joe fu un vero mistero.
Dopo quanto scoperto, aveva cercato in tutti i modi di riavvicinarsi a sua sorella minore, ma la ragazza aveva rifiutato tutte le sue lettere e le sue chiamate. Ci aveva pensato Lily a fare da tramite tra loro due.
«Come sta?» soffiò lui, socchiudendo le palpebre, le dita intrecciate fecero pressione tra di loro.
Lily gliele strinse ancora più forte.
«La tengo d'occhio» fu la sua risposta ferma e rassicurante.
«Ci sono giorni in cui non è facile avvicinarla, ma per fortuna riesco sempre ad esercitare un certo ascendente su di lei» continuò, poggiando il mento sulla mano sinistra, dirigendo lo sguardo duro e bellissimo verso una crepa della parete.
Joe abbozzò un sorriso, si fidava delle sue parole. Il calore che emanava la sua mano curata sopra alle proprie intrecciate era sincero, materno quasi.
Un calore che gli sarebbe sempre rimasto sconosciuto.
«Non stavi dormendo, vero?» chiese cauta Lily, alzando un sopracciglio, «Non vorrei averti disturbato, magari stavi sognando qualcosa di bello».
«No, macché! Stavo cercando di immaginarmi fuori di qui» rispose il biondino, grattandosi la nuca. 
«Non è stata una buona idea venire qui da solo», disse poi, mordendosi il labbro inferiore.
Lily sapeva molto bene i suoi trascorsi, sapeva che in passato Rokurota ci teneva al fatto che Joe andasse a farsi controllare. Lo spavento che aveva provato dopo che Kensuke Tenko, suo coetaneo e amico, gli aveva diagnosticato la sifilide, era stato tale da imporgli le visite mediche almeno una volta al mese. 
Lily stessa lo aveva preso in giro per questa sua peculiare insistenza a riguardo.
Nemmeno le mie ragazze le mando a controllo così spesso! Da quando sei diventato così ipocondriaco?” ricordò di averlo canzonato così lei, una volta.
Però lui, quella volta, le aveva dedicato uno sguardo duro, che mal celava due o tre note di sconvolgente tristezza, intrappolate tra quelle iridi grossomodo meravigliose.
Tu dovresti saperlo meglio di chiunque altro” era stata la sua risposta, tagliente come una lama affilata, seguita però da una carezza sul mento, a fior di dita.
Sì, Lily lo sapeva quali potevano essere le conseguenze di una malattia sessuale trascurata. Lei stessa ne aveva pagato le conseguenze sulla propria pelle, ma non glielo aveva perdonato per averglielo ricordato così, mentre aveva tenuto tutti i suoi scudi personali abbassati.
Sei crudele Rokurota”.
Lily sussurrò quella frase mentre continuava a fissare la crepa nera sullo stucco bianco della parete, per poi girarsi e carezzare il capo di Joe con affetto, sorridendogli con complicità.
«Mi ha stupito infatti vederti qui senza nessuno dei ragazzi».
«Erano tutti occupati. E poi ormai dovrei averci fatto l'abitudine. Non è la prima volta che vengo qui dentro» ammise il ragazzo, con un sorriso tirato.
Aveva rimpianto amaramente i tempi in cui era stesso Rokurota ad accompagnarlo e a fargli compagnia durante l’attesa.
«Ci sono cose a cui non ci si farà mai l'abitudine».
Joe cercò di captare a cosa o a chi si stesse riferendo la donna seduta al suo fianco. Anche se ormai la conosceva abbastanza bene, Joe non osava immaginare quali altri incubi o tormenti si portasse dentro. E si chiese se Rokurota avesse mai scrutato davvero in quella boscaglia nera che era la sua anima, proprio come aveva fatto con lui e i suoi amici di sempre. 
«Manca anche a te, non è vero?» chiese Joe, cercando di non risultare inopportuno.
Lily non si scompose neanche un po' alla sua domanda. 
«Come il primo giorno» affermò, secca. Scosse il capo lievemente, cercando di trattenere il moto di commozione che l'aveva colta impreparata.
«Ma gli abbiamo dimostrato ampiamente di sapercela cavare anche senza di lui, giusto?» ribadì in seguito, incisiva.
«Vorrei poterti dare una risposta affermativa» le concesse il ragazzo, sorridendo amaramente.
Lily si limitò a prendergli il mento tra le mani, obbligandolo a ricambiare il suo sguardo.
«Facciamo sempre del nostro meglio. E poi sei cresciuto tanto Joe, lui sarebbe fiero di te!» sentenziò lei, con fare altero, che non accettava obiezioni di alcun genere.
Joe stirò le labbra in un sorriso sghembo, era quello il suo modo personale di accettare un complimento. Quel gesto avrebbe fatto impazzire tutte le donne che gli sarebbero capitate sotto tiro.
«Ad ogni modo, se proprio non te la senti, ci sono sempre qua io, eh!» propose poi lei, cordiale, cambiando volutamente argomento.
«Puoi sempre venire a chiedere di me alla base» il suo sorriso si aprì notevolmente, illuminando quei suoi occhi neri come l'ebano. 
Stavolta il sorriso di Joe si aprì mettendo in bella mostra la dentatura perfetta.
«Se non ti conoscessi bene Lily-san, coglierei dietro questo tuo invito un doppio fine!» la provocò Joe, con uno sguardo malandrino.
Lily lo guardò storta, scoppiando a ridere due secondi dopo.
«Complimenti, sei più civetta di me, ragazzo!» constatò, scuotendo il capo divertita.
Quello scambio di battute aveva aiutato a rilassarlo ulteriormente. 
Era da poco tempo che riusciva a parlare e ad esprimersi in quel modo in presenza di Lily. Le aveva sempre inculcato un certo rispetto e una certa attenzione nello scegliere le parole. In apparenza le era risultata inavvicinabile, inizialmente.
«In effetti, è parecchio tempo che manco dalla base» fu la constatazione immediata del ragazzo, sbuffando una risatina leggera. 
Ricordò velocemente i momenti in cui andava ad assistere agli allenamenti di Mario - quando aveva ancora la mano sana, assieme ai ragazzi, quando Rokurota glielo permetteva, soprattutto dopo giornate di studio e lavoro ben svolte.
I ricordi belli riuscivano sempre a mantenerlo in vita, a dare un senso a tutto.
Ma il suo entusiasmo si era affievolito subito non appena pensò che lì dentro, ora, vi era anche Meg, sua sorella, e che avrebbe potuto facilmente incontrarla. Per poi farsi vomitare addosso sei anni di assenza con rabbia e furia.
Ma fu solo questione di pochi attimi. 
Un boccone amaro da ingoiare e poi tutto sarebbe tornato come prima. Forse.
«Se riesco a placcare Mario quando viene a vedere di nascosto gli allenamenti di boxe, magari trovo la scusa perfetta per venire».
Quella frase Joe la buttò fuori con titubanza, ma era anche curioso di sapere che effetto avrebbe esercitato sulla donna il nome del suo migliore amico.
E in effetti, non appena lo sentì, negli occhi di Lily si sprigionò un luccichio improvviso, lampante.
Le si dipinse un'espressione intenerita e triste sul volto, di pura e semplice nostalgia.
«Proprio come i bei vecchi tempi» rispose lei, laconicamente.
Quel luccichio era durato giusto il tempo di una fugace scintilla.
Joe ricambiò la sua espressione, regalandole uno sguardo fiducioso con i suoi begli occhi azzurri, quasi occidentali.
«Credimi, Lily-san, se ti dico che lui viene lì per-»
«In testa a quel moccioso irriverente esiste solo la boxe. Non avrebbe altri motivi validi per infiltrarsi alla base».
Lily bloccò tatticamente l’invettiva del biondo. Non voleva dare adito ad altre verità, voleva dare credito soltanto a quello che vedeva.
Proprio come avrebbe fatto Mario stesso.
Joe si rese conto di aver forzato troppo la mano, aveva varcato un limite sensibile.
Decise così di restare in silenzio, evitando di immischiarsi troppo nelle loro faccende.
Non erano affari che lo riguardavano, dopotutto.
«Ad ogni modo, c’è una cosa di cui dovrei assolutamente parlarti il prima possibile», il tono di Lily cambiò drasticamente, divenne più serio e deciso.
«Si tratta di Meg» ammise rammaricata.
Quel vortice di ansia e preoccupazione risucchiò il biondino di nuovo nell'occhio del ciclone. 
Sgranò gli occhi alla volta della donna, che ricambiò con uno sguardo serio, posato.
«Mi attirerò le sue ire, ma è una cosa di cui tu non puoi restarne ulteriormente all’oscuro. Sei suo fratello, dopotutto» dichiarò lei, stringendo nei pugni i lembi morbidi della gonna.
Joe rimase ancora più stordito a quelle parole.
«Di-di cosa si tratta, Lily-san?» sussurrò il ragazzo, impanicato.
Iniziarono a vorticargli in testa gli scenari più infausti che la sua mente era stata in grado di partorire, ma allo stesso tempo, non era del tutto sicuro di essere pronto a recepire cattive notizie su Meg.
Giusto in quel mentre, la porta dello studio del dottor Tenko si aprì di colpo, facendo voltare sia Lily che Joe, visibilmente sorpresi.
Dalla porta uscì una ragazza sui diciassette anni, con i capelli neri semi raccolti, un vestitino arancione fiorito e un cardigan scuro sulle spalle. 
Si stringeva il corpo con le braccia e guardava Lily spaesata, con gli occhi sgranati. Tremava vistosamente. 
La donna si alzò prontamente e la raggiunse, prendendole il viso tra le mani.
Il responso del medico non doveva essere stato positivo per lei.
Joe non avrebbe voluto assistere a quella scena, eppure si era ritrovato lì ad osservare le due donne stringersi in un abbraccio sentito. Avvertì di essere di troppo.
«Tranquilla Mieru-chan, ne parlerò col colonnello Sanders. Risolveremo tutto» disse a bassa voce Lily, fissando la giovane in lacrime, mentre le spostava i capelli dal viso provato. La giovane era rimasta stretta a lei, aggrappata al suo cardigan bianco, spaurita e singhiozzante. 
Il dottor Tenko uscì subito dopo, scambiando con Lily uno sguardo complice.
«Me ne occuperei io, ma ho le mani legate, lo sai bene. Rischio grosso» ammise il dottore, desolato. 
Lily annuì, comprensiva. Lo conosceva abbastanza bene da poter credere alle sue parole.
«Grazie lo stesso per averla visitata, Kensuke» gli concesse lei, stringendosi Mieru tra le braccia, il viso inondato di lacrime nascosto sulla sua spalla.
Joe continuò ad osservare la scena, cercando di capire cosa stesse effettivamente succedendo. Anche se una mezza idea se l'era già fatta.
«Quanto tempo abbiamo?» chiese pratica la donna, asciutta.
«Due settimane» affermò il dottore, con le mani in tasca.
«Vi conviene fare in fretta» commentò poi, professionale.
Lily annuì decisa, baciando la fronte della giovane aggrappata a lei.
Il medico distolse lo sguardo, accorgendosi finalmente della presenza del giovanotto hafū.
«Sei pronto, giovanotto?» chiese perentorio il dottor Tenko, sistemandosi gli occhiali sul naso. 
Joe annuì frettolosamente, alzandosi con altrettanta fretta dalla sedia, rischiando di inciampare nel processo.
«Piano, piano! Non è mica un richiamo alle armi!» incalzò Kensuke Tenko, cercando di attenuare quell'aria carica d'ansia che si palpava nell'aria.
«Con tutto il rispetto dottore, avrei preferito che lo fosse!» fu la risposta esaustiva di Joe, tirandosi su i pantaloni, con aria imbarazzata.
Il dottore sbuffò una risata allegra, non poteva dargli torto.
Lily gli rivolse uno sguardo rassicurante, il migliore del suo repertorio. 
«Andrà tutto bene Joe, non temere» lo rassicurò con quel suo sguardo da cerbiatto adulto. 
Joe continuava a guardare come Lily stringesse a sé quella ragazza, e non poté fare a meno di pensare che era come se stesse ricevendo lui stesso quell'abbraccio d'incoraggiamento.
«Sì, sto bene» confermò Joe, sicuro di sè. 
Il dottore lo invitò nuovamente ad entrare nello studio, congedandosi alle due donne.
«Ti aspetto allora» rimarcò Lily, cercando di ottenere una risposta.
Joe annuì deciso.
«Sì, mi farò vivo io» rispose Joe.
Una volta dentro, Joe non fece che pensare a sua sorella per tutto il tempo.
Dobbiamo parlare di Meg. 
Il ragazzo cercò di non aspettarsi il peggio. Ripetè a sé stesso di restare calmo, di non giungere a conclusioni affrettate.
Alla fine era viva e stava bene, per il momento a Joe bastava sapere questo.
Nulla di più o di meno.
Il resto lo avrebbe affrontato in seguito, nella sede adeguata.
Si richiuse la porta alle spalle, dopo aver sorriso un'ultima volta a Lily e alla giovane in lacrime.
Mise tutte le preoccupazioni a tacere, per quanto fosse in grado di riuscirci.
 
* * *
 
La notte precedente Mario aveva di nuovo sognato il mare.
Era un suo sogno ricorrente, quello di scorgere la linea dell'orizzonte sempre più in alto rispetto al normale, tanto che in alcuni casi temeva di scambiare l'orizzonte per un'onda anomala.
Quando sognava il mare, l'animo di Mario al risveglio era sempre calmo, tranquillo.
Nel sogno rivedeva sé stesso, un piccolo punto nell'universo, mentre ammirava quell'immensa distesa d'acqua azzurra, ora agitata, ora piatta come una tavola.
Avrebbe dovuto provare paura, correre via, eppure restava lì immobile, ad aspettare che lo tsunami lo travolgesse.
Capitava che le onde, nel suo sogno, rimanessero ferme, altre volte invece lo investivano davvero, ma Mario non provava mai paura.
Era come se, per assurdo, fosse tornato nel grembo materno, al riparo da attacchi o forze oscure che avrebbero potuto nuocergli e fargli del male.
Nonostante fosse molto piccolo durante gli anni della guerra, ricordava perfettamente quando al rifugio antiaereo si stringeva forte al seno di sua zia Yuzuki, aspettando che l'allarme bomba cessasse.
Le esplosioni avvenivano sempre lontano, a volte aveva sentito tremare la terra come se stesse per scatenarsi un forte terremoto.
La zia in quegli attimi lo cullava soffiandogli nelle orecchie, imitando quasi il rumore delle onde che s'infrangevano sulla battigia.
E Mario chiudeva gli occhi, sognando quell’immensa distesa benevola, immerso in quel fruscìo rassicurante.
La prima volta che si era recato al mare la ricordava appena, la sensazione di sentirsi trascinati giù, con i piedi affondati nella sabbia bagnata, e l’acqua che lambiva le piccole gambe come carezze materne. Aveva solo tre anni e la guerra era soltanto agli esordi, una eco ancora lontana dalle loro vite.
Rokuruta poi li aveva portati spesso al mare, sosteneva che al suo ginocchio malandato l'aria salmastra agiva come un toccasana. 
Mario era stato senz'altro il più fortunato tra tutti, perché nessuno dei ragazzi aveva mai visto il mare da vicino prima di allora, se non nelle cartoline o in lontananza, dall'alto della collina.
Ricordò di aver riso di gusto nel vedere Noboru bere a sorsate l'acqua salata, per poi sputarla, disgustato. Joe lo aveva tirato in acqua, facendogli perdere l'equilibrio, e Noboru si era dimenato con le sue piccole braccia, prontamente placcato da Ryuuji, rimasto soltanto con i calzoni addosso, nonostante fosse fine settembre e l'aria stava decisamente cambiando.
Lui era rimasto seduto vicino a Rokurota, che osservava tutto con occhio vigile e allo stesso tempo sereno.
Ma quella tranquillità era durata troppo poco, visto che pochi secondi più tardi Tadayoshi e Mansaku erano venuti a prenderlo, sollevandolo per le braccia e le gambe, per buttarlo a mare, a peso morto.
Per vendetta, Mario aveva trattenuto il fiato sott'acqua per qualche minuto, prima di riemergere con irruenza, facendo morire di spavento i suoi amici, che nel frattempo se la stavano già facendo addosso dalla paura.
Quel giorno in particolare erano tornati alla grande villa tutti zuppi d'acqua e sporchi di sabbia, ma felici e sereni come mai prima di allora. Setsuko aveva prima fatto una lavata di capo a Rokurota, e poi li aveva presi, uno per uno, e li aveva prima spazzolati per bene, e poi chiusi in bagno a pulirsi e a lavarsi a vicenda.
E nel frattempo Mario sentiva Rokurota ridere dal soggiorno mentre loro facevano la guerra a chi doveva buttarsi nella vasca per primo.
Se Mario fosse stato capace di descrivere quel periodo di pace dopo l'incubo del carcere con una qualche licenza poetica, lo avrebbe sicuramente paragonato ad un arcobaleno spuntato dopo una burrasca spaventosa.
In particolar modo per Mario era stato un sereno ritorno alle origini, cosa che non avrebbe potuto assolutamente affermare con certezza riguardo ai suoi amici. Venivano da una realtà molto diversa dalla sua, quasi opposta.
Rokurota era stata una presenza importante nella sua vita.
Mario aveva trascorso la sua infanzia con suo nonno materno, Tamahiko, un uomo rispettoso e calmo, sempre pronto ad ascoltare tutto ciò che il nipote gli raccontava e riportava con entusiasmo, dai bei voti a scuola agli eventi più disparati.
Si era sentito amato durante i suoi primi anni di vita, era stato amato davvero.
Ma il carcere aveva spazzato via quella felicità con un semplice battito di ciglia.
Il pensiero che fuori di lì ci sarebbe stata comunque una famiglia pronta a riaccoglierlo di nuovo, gli aveva dato la speranza di sopravvivere a quell'inferno, di sentirsi in dovere di trasmettere quella forza a tutti loro, ai suoi compagni di sventura. Anche se a volte temeva di passare per un perfetto ipocrita ai loro occhi.
A volte tutta quella fortuna Mario l'aveva guardata con diffidenza; sentiva di non meritarla affatto. Se avesse saputo come fare, avrebbe trovato il modo per spartirla con i suoi compagni, senza escludere nessuno.
Era consapevole del fatto di comportarsi da ingrato, di denigrare tutti gli insegnamenti ricevuti prima da suo nonno e poi da Rokurota. 
E nonostante continuasse imperterrito ad agire di testa sua, l’ultima cosa che avrebbe voluto era continuare a deludere tutti.
Mario lasciò che quel flusso di coscienza si liberasse nella testa, mentre si era fermato ad osservare il mare dall’alto della collina.
Con la bici si era fermato sulla strada che portava al cimitero. Il sole era sorto soltanto da poche ore, eppure già stava preannunciando una calda giornata.
Sistematosi la coppola in fronte, Mario riprese la pedalata tutta in salita, ignorando il fiatone che lo aveva preso in contropiede. 
Una volta raggiunto il cimitero, sistemò la bici accanto all'enorme muraglia di cinta, lasciando qualche spicciolo all'anziano seduto lì di guardia, per sorvegliargliela.
Era un gesto che faceva abitualmente, ormai era diventato quasi automatico.
Era talmente concentrato nei suoi pensieri da non notare minimamente la jeep militare parcheggiata poco lontano.
Mentre camminava tra quelle lastre di pietra con incise sopra i nomi di coloro che non appartenevano più a quel mondo, Mario inspirava dal naso chiudendo gli occhi. 
Andare a trovare Rokurota in quel posto non lo metteva quasi mai di buonumore, perché era come accettare definitivamente che lui ormai non faceva più parte del mondo dei vivi. Ma quella mattina era stato diverso, aveva avvertito quasi il bisogno fisiologico di recarsi lì.
Per questo si era alzato presto e si era diretto al cimitero, con la testa piena di pensieri. Non si era nemmeno scomodato di avvisare Setsuko.
Pensò a come avrebbe esordito Rokurota se avesse avuto modo di raccontargli cosa aveva combinato solo qualche sera prima.
Sicuramente lo avrebbe rimproverato aspramente, gli avrebbe dato dell’idiota, e poi lo avrebbe liquidato con un “Provaci ancora e ti spezzo le gambe”.
E Mario vi avrebbe letto solo una cosa: “Sono stato in pensiero per te, stupido”. 
Era quasi giunto alla sua tomba quando da lontano scorse una sagoma rannicchiata proprio lì davanti.
Mario si bloccò all'istante, per un attimo aveva temuto di trovarci Lily lì accovacciata, intenta a cambiargli i fiori e a pulire la tomba di Rokurota.
Era già pronto a fare dietro front, non se la sentiva di vederla, né di affrontarla.
Non aveva ancora l'animo abbastanza sereno per questo.
Non aveva avuto modo di scoprire se la donna fosse venuta a conoscenza della sua ultima bravata, in ogni caso, sarebbe stata l'ennesima scusa per buttarsi altro veleno addosso reciprocamente, per farsi ancora più male.
Per farle ancora più male.
Mario osò un altro passo in avanti, e notò con estremo sollievo che non si trattava di una figura femminile.
Avanzò ulteriormente, e Mario riconobbe finalmente la persona inginocchiata davanti alla tomba.
A giudicare dalla divisa militare, doveva trattarsi sicuramente di Tadayoshi.
Il giovane si stupì di trovarlo lì, a prima mattina. Probabilmente avevano avuto la stessa pensata di passare a salutare Rokurota nello stesso momento.
Un paio di occhi scuri, duri ed intimidatori, squadrarono Mario, che nel riconoscerlo, aprì il volto in un sorriso obliquo, che trasudava sollievo e velata lamentela.
«Mi hai fatto prendere un colpo, brutto stronzo!» fu il suo buongiorno all'amico di sempre, mentre si grattava la spalla con la mano buona.
Il ragazzo inginocchiato esplose in una risata canina, divertito dal terrore dell'altro.
«Cosa c'è? Temevi che Rokurota-san ti stesse aspettando sotto forma di fantasma per fartela fare addosso?» lo schernì Tadayoshi, togliendosi il berretto militare dalla testa, passandosi una mano tra i capelli corti e neri.
«Avrei preferito!» sentenziò il più giovane, avvicinandosi a lui con aria scocciata.
«Beh, mi dispiace deludere le tue aspettative!» inveì l'altro, scacciando con la mano una mosca molesta.
Con le mani nelle tasche dei pantaloni, Mario lesse mentalmente il nome di Rokurota Sakuragi inciso sulla lapide scura.
Non importava quanti anni sarebbero passati, i kanji incisi lì sopra gli avrebbero fatto sempre male, in qualsiasi circostanza. 
A tre anni dalla sua morte, Mario non era riuscito ancora ad elaborare quel lutto, e in confronto a tutti gli altri, si sentiva terribilmente in difetto.
Tutti sembravano essere andati avanti, bene o male.
Lui era rimasto bloccato lì, a quando gli fu recapitata quella infausta notizia.
Aveva scosso con violenza un povero Joe in lacrime, accusandolo di essere un bugiardo, che quello che aveva detto loro non poteva essere vero. 
Da quel momento in poi, per Mario era stato molto più semplice odiare il mondo intero. 
Mostrarsi duro ed indifferente con chiunque, senza fare sconti a nessuno.
Aveva ricevuto così tante coltellate alle spalle nel giro di poco tempo da forgiarlo abbastanza per gli anni a venire.
E la peggiore di tutte era stata far passare l’omicidio di Rokurota per ciò che non era, un vile suicidio.
Le voci che avrebbero sostenuto tale tesi lo avevano ritenuto debole davanti allo scandalo che lo aveva investito in pieno, strappandogli di dosso l’onore e il rispetto della famiglia e dell’intera cittadina. Secondo loro, Rokurota non avrebbe retto a tutta quella tensione e alla sua immagine danneggiata.
Niente di più falso e ignobile.
«Non ti nego che avrei voluto leggere un altro nome su questa schifosissima lapide» fece Mario, con sguardo assente e i pugni chiusi nelle tasche.
Tadayoshi gli rivolse uno sguardo contrito, ma consapevole. Dal profondo del cuore, condivideva i sentimenti di Mario, ma la voce della ragione doveva rieccheggiare più forte nelle orecchie e nel cuore.
Rokurota gli aveva implicitamente affidato tutti loro, essendo Tadayoshi il più grande della combriccola. 
Si sentiva responsabile delle loro azioni, si sentiva in dovere di proteggerli.
Dopotutto, era l'unica famiglia che gli era rimasta. L'unica per cui valesse la pena provare ancora qualcosa. 
Senza volerlo, strinse a pugno la mano dove indossava l’anello nuziale, guardandola distrattamente. L'oro della fede lucciccava alla tiepida luce del sole. 
A Tadayoshi parve quasi un promemoria, come a ricordargli la presenza di un altro punto fondamentale nella lista delle cose da considerare importanti: doveva anche pensare alla sua di famiglia, quella cadutagli dal cielo senza alcun preavviso e che lo aveva colto tremendamente impreparato. 
«Per questo l'altra sera ti sei recato da Atsumichi Sakuragi in quelle condizioni pietose?»
Tadayoshi odiava fare la paternale, ma Mario non gli lasciava mai altra scelta.
L'altro capì che stava per arrivargli l'ennesimo rimbrotto. Dopo Setsuko e Noboru, di farsi riprendere anche da Tadayoshi era decisamente troppo.
«Te lo ha detto quel nanerottolo chiacchierone?» ringhiò Mario, riferendosi a Noboru. Se lo immaginò mentre tutto impettito inveiva contro di lui, tra le risate di Ryuuji e lo sconcerto di Mansaku e Joe. 
«Non ce n’è stato bisogno» dichiarò Tadayoshi, con voce dura, come se stesse per confessare qualcosa di spiacevole.
«Lo sapevo già».
Mario lo guardò contrariato, sorpreso da quella rivelazione inaspettata.
«E da chi hai-»
«Ho assistito in diretta alla tua eroica performance» disse poi, tra il divertito e il sarcastico.
Mario si strinse improvvisamente nelle spalle, un moto di vergogna si fece largo nel petto.
«Eri lì?» sussurrò interdetto. 
Non ricordava quasi niente di quanto accaduto, se non le urla che aveva rivolto a quell'enorme cancello di ferro. 
Quel lasso di tempo che partiva da lì fino al ritrovarsi sul pullman lo aveva totalmente rimosso dalla memoria. 
«Sì, sono corso dopo aver ricevuto la chiamata di Setsuko-san».
Era vero, quella sera Tadayoshi stava per uscire dalla caserma per tornare a casa, dopo una giornata piuttosto serrata. Uno dei secondini lo aveva richiamato sulla porta, qualcuno lo aveva cercato al telefono.
Dalla cornetta, la voce preoccupata di Setsuko lo aveva allarmato più del dovuto.
Si era messo alla guida della sua jeep, istintivamente aveva intuito subito dove Mario potesse essersi andato a cacciare.
Quando lo aveva trovato lì davanti alla villa dei Sakuragi, furioso e urlante, si era buttato tra la piccola folla che era accorsa per verificare a cosa fosse dovuto tutto quel trambusto. 
Tadayoshi aveva cercato di placcare il più giovane alla bene e meglio, che si dimenava come un pazzo, sgolandosi fino a diventare rauco. Dall'odore che emanava, capì subito che era ubriaco. 
Non fu facile trascinarlo via da lì, la stanchezza della giornata si faceva sentire con prepotenza.
Mario si era divincolato facilmente dalla sua presa, mandandolo non troppo gentilmente al diavolo. 
In cuor suo, Tadayoshi sperò che nessuno in quella casa si fosse accorto di lui. Non voleva neanche immaginare le conseguenze in cui sarebbero incappati se solo quell'uomo avesse deciso di fare la sua mossa. 
«Cazzo, non ricordo proprio niente» fu il commento acido di Mario, sbattendosi la mano offesa in faccia. Il solo ricordo gli fece tornare di botto l'emicrania.
«Meglio per te, guarda» convenne l'altro, con voce atona.
Era risentito, Mario poteva percepirlo benissimo. 
Ma invece di scusarsi, si umettò le labbra, mettendo su un broncio tipico di un moccioso che era in vena di fare capricci.
Tadayoshi non se ne curò più di tanto, a quelle cose non ci aveva mai badato più di tanto. Erano anni che conosceva quella testa calda, scusarsi non era mai stato il suo forte. 
Solo con Rokurota aveva ammorbidito di poco quel suo modo di fare troppo poco cordiale, ma solo perché l'uomo sapeva come poteva inchiodarlo con le spalle al muro.
Ci era quasi riuscito a raddrizzarlo, ma era decisamente andato via troppo presto per portare quel piccolo miracolo a compimento. E Tadayoshi non ci teneva neanche un po' ad interpretare un ruolo che non gli si addiceva affatto. 
Già quello di marito lo tollerava a fatica, mettersi a fare anche da padre ad un ventenne ribelle era fuori discussione.
«Avrai fatto preoccupare la tua bella, immagino».
Tadayoshi lo guardò storto nel sentire Mario proferire parola soltanto per il puro gusto di punzecchiarlo.
«Immagini bene» sibilò lui, a denti stretti, fulminandolo sul posto con un’occhiata tagliente.
Quando era rincasato ad un’ora piuttosto tarda aveva trovato sua moglie ad aspettarlo apprensiva fuori la porta del salotto.
Indossava una vestaglia color panna di pizzo sul bel corpo magro e da sotto vi si scorgeva una camicia da notte dello stesso modello. I capelli neri le ricadevano dolcemente lungo il viso e il collo, morbidi. Osservava il marito con quel suo sguardo innocente e dolce da bimba. Tadayoshi non era riuscito a contraccambiare con la stessa delicatezza, l'aveva liquidata con due parole di circostanza, un bacio ruvido sulla fronte e si era fiondato in bagno. Aveva avuto bisogno di stare qualche minuto da solo, di sfogare tutto il nervoso che il suo migliore amico gli aveva fatto arrivare alle stelle.
«Proprio non ti vuoi rendere conto delle scemenze che combini?» sbraitò Tadayoshi alla volta del ragazzo in piedi, rigido come un tronco.
Mario stralunò gli occhi, seccato. 
«Non ti ci mettere anche tu adesso!»
«Se io non fossi stato lì, Sakuragi avrebbe chiamato la polizia! Hai idea di cosa ho dovuto fare per non farti passare la notte in centrale?»
«Non ti ho chiesto mica di farmi da balia! Potevi tornartene a casa dalla tua mogliettina perfetta, me la sarei cavata anche da solo!»
«Non è questo il punto, diamine!».
I toni della discussione si stavano gradualmente elevando più del necessario da ambo le parti.
Tadayoshi si fece forza sulle ginocchia per alzarsi ed affrontare vis a vis l’altro, scuro in volto.
«Quando senti nominare quell’uomo, tu vedi rosso. Non esiste niente e nessuno, l’unica cosa che t’interessa è provocarlo, senza minimamente preoccuparti di chi potresti trascinarti dietro in questa tua faida insensata!»
A Tadayoshi non importò di aver alzato un po' troppo la voce, nonostante la mancanza di rispetto che avrebbe arrecato irrimediabilmente a quel luogo sacro.
Mario lo osservava con aria di sfida, in silenzio.
«Hai mai anche solo pensato che ci avremmo rimesso anche noi appresso alle tue cazzate? Possibile che non riesci a vedere più in là del tuo cazzo di naso?» continuò ad inveire Tadayoshi, arrabbiato come mai prima di allora.
A differenza di Setsuko, lui non aveva perso la voglia di rimproverare l’amico più giovane. Volente o no, non poteva permettersi il lusso di non provarci almeno una volta al giorno.
«Chi non vede al di là del proprio naso siete tutti voi! Lo avete abbandonato tutti, nessuno escluso! Ora che è morto, ve ne siete lavati le mani alla grande! Vi comportate come se tutto il male che abbiamo sofferto a causa di quella feccia non fosse mai esistito» urlò Mario, in preda alla rabbia più nera.
Non era la prima volta che pronunciava ad alta voce quei pensieri, ed ogni volta era finita male.
«Nessuno ha dimenticato niente, Mario» decretò Tadayoshi, stanco di ripetere sempre le stesse cose.
«Odiamo tutti Atsumichi, e sappiamo tutti qual è la verità dietro la morte di Rokurota-san. Ma se non ci esponiamo, lo facciamo per proteggerci l’un l’altro. Lui avrebbe voluto così» affermò poi, indicando col capo la tomba di Rokurota.
Mario rivolse solo uno sguardo fugace alla tomba, gli stava salendo il magone e la cosa non gli piaceva affatto. Quel poco buon umore che aveva racimolato quella mattina si stava dissolvendo nell’aria come fumo.
Sapeva con certezza che tutto quello che gli aveva rinfacciato Tadayoshi era vero, ma per puro gusto di protesta, non voleva assolutamente dargli ragione. Non lo avrebbe fatto davanti a lui, né davanti a nessun altro.
«Prima o poi la pagherà, fidati di me» gli concesse poi il più grande, ammorbidendo i tratti duri del volto. 
«Troveremo un modo, una prova schiacciante. Ma prima di allora, non cacciarti più nei guai da solo». Tadayoshi gli poggiò una mano sulla spalla, stringendogliela appena.
In quel momento, a Mario parve di sentire la voce del suo benefattore, mentre lo rassicurava con il suo solito fare burbero, ma sincero.
 
“Dì un po', ho mai infranto una promessa?”
Mario lo guardava storto, accovacciato sul suo futon. Joe gli aveva poggiato il capo sulla sua spalla come era sempre solito fare.
Rokurota era seduto di fronte a lui, a gambe incrociate.
“Tanto ci farà tornare in carcere, lo so già!”
“Ti ho detto che non lo permetterò. Vi siete comportati bene, non avete motivo di tornare lì dentro”. L’uomo si era sentito in dovere di rassicurarlo, sapeva meglio di chiunque altro quanto i traumi del passato potessero tornare a ferire il presente.
Erano anni che lui stesso combatteva con i fantasmi della guerra. Non poteva certo biasimare quei sei ragazzi, anzi. Li capiva perfettamente. 
“Io non mi fido” fu la risposta secca di Mario.
“Ma tu fidati di me” fu invece la controbattuta del soldato.
Joe li guardava entrambi con i suoi occhioni azzurri, apatico come un gatto assonnato. 
“Non siete soli, avete capito? Vi guarderò sempre le spalle. Quindi per favore, fidatevi di me.”
 
Quel ricordo improvviso gli provocò un brivido lungo la schiena. Mario tirò su col naso senza volerlo.
«Vi lascio soli?» chiese poi il soldato, perentorio, rivolgendosi nuovamente alla lapide di Rokurota.
Mario gli lanciò uno sguardo truce. Non era arrabbiato, provava solamente un forte imbarazzo. 
«Fai come vuoi. Nessuno ti caccia» rispose, fintamente indifferente.
Quella reazione fece sorridere lievemente Tadayoshi. 
Quando discuteva con Mario sembrava di avere a che fare con un monello di soli cinque anni, e non con una persona adulta. 
Sapeva che non era cattivo, ma se non gli si faceva, una volta ogni tanto, una sana tirata di capelli, vi era il rischio che commettesse qualsiasi sciocchezza, provocando risultati alquanto discutibili.
«Devo andare, il dovere chiama» esclamò il soldato, piazzandosi il berretto in testa.
«Mi dispiace».
Tadayoshi rimase interdetto per tre minuti buoni, prima di capire effettivamente a chi fossero rivolte quelle scuse.
Mario lo scrutò con quei suoi occhi grandi e profondi. Nonostante la maggior parte del tempo li tenesse sempre accigliati, quando rilassava lo sguardo, diventavano improvvisamente teneri, simili a quelli di un cerbiatto adulto.
«Sono stato un perfetto idiota» aggiunse poi, con aria sconsolata. Probabilmente si stava rivolgendo ad entrambi, sia alla lapide che al compagno, sbalordito da quel gesto spontaneo.
«Anch'io sono stato un perfetto idiota» ammise poi Tadayoshi, in un sogghigno amaro.
«Avrei dovuto trascinarti con la forza a casa, invece di lasciarti vagare per strada da solo» confessò dispiaciuto.
Mario addolcì di poco lo sguardo, non poteva biasimarlo dopotutto.
«Conoscendoti, avrai passato il giorno successivo ad angustiarti per l’accaduto» provò a scherzare, sbuffando divertito.
«Se vuoi farti perdonare, puoi pagarmi la multa del pulmann!» buttò lì poi, aspettando una qualsiasi reazione furibonda da parte del più grande. 
Tadayoshi invece continuò a guardarlo, anche lui con meno durezza.
«Di quanto ammonta?» chiese inaspettatamente, lasciando Mario alquanto basito.
«Ma Tada, stavo scherz-»
«A quanto ammonta?» ripetè lui, scandendo bene le parole.
Mario rimase davanti a quell’insistenza. Ad ogni modo, non gli avrebbe permesso di prendersi a carico i suoi errori, non sarebbe stato giusto.
«La smetti di imitarlo?» 
Mario non lo disse con cattiveria, vi era una punta di amarezza nostalgica nella voce.
Tadayoshi rise a quell’espressione.
«Guarda che non lo faccio per te, ma per quella poveretta di Setsuko-san, e anche per Lily-san!» affermò, l'ombra di un sorriso gli si dipinse sul volto sempre duro e contrito.
Anche la cicatrice che aveva sullo zigomo sinistro sembrò distendersi a sua volta.
«Pensa a fare il cavaliere con tua moglie piuttosto!»
«Vaffanculo!»
L’atmosfera si era decisamente distesa, buttare fuori quei pensieri oscuri aveva giovato ad entrambi.
Dopotutto, non sarebbe bastato così poco per spezzare quel legame che si era forgiato quasi per miracolo, tra le mura di una cella buia e fredda e coltivato nel terreno fertile dell’amore di una famiglia.
«Più tardi passo al Rainbow, ci vediamo lì?» propose Mario, non riuscendo a nascondere ancora bene l’imbarazzo nella voce.
«Ci vediamo lì» appoggiò l'altro.
«Comunque dicevo sul serio riguardo alla multa. Me ne occupo io» sentenziò Tadayoshi, infilando le mani nelle tasche del giubbotto nero.
Mario non ebbe la forza di ribattere oltre.
Non se le meritava affatto tutte quelle attenzioni. 
Non siete soli. Vi guarderò sempre le spalle.
La voce di Rokurota che benediva ancora una volta quel legame speciale.
Dopo che Tadayoshi se ne fu andato, Mario si sedette sul marmo della tomba, respirando l’aria fresca che sapeva d’incenso.
«Hai visto? Ci ha pensato il tuo Soldato a darmi in testa stavolta!» scherzò Mario, carezzando il marmo su cui era seduto.
Dirgli che gli mancava era scontato, quella mancanza era incolmabile ogni secondo, ogni attimo che passava. Poteva solo sperare di percepire la sua presenza nell’aria, nei gesti dei suoi amici, o addirittura nei propri.
Dopotutto, Rokurota avrebbe continuato a vivere attraverso Mario.
Il richiamo del sangue è sempre più forte di tutto.
 
Aveva da poco ringraziato il vecchio che gli aveva guardato la bici, fuori dal cimitero, quando la vide.
La donna aveva un mazzo di rose bianche in mano, lo teneva stretto al petto con premura. Portava gli occhiali da sole e un foulard sui capelli raccolti, e un lungo cappotto elegante, ma logoro e consumato. 
Mario aveva fatto giusto qualche pedalata, quando inavvertitamente si sentì chiamare proprio da quella sconosciuta. Sulle prime, l'ipotesi che lo avesse scambiato per qualcun altro era stata piuttosto quotata.
«Ehm, chiedo scusa…» fece la donna, avvicinandosi con estrema attenzione, non appena aveva visto Mario frenare.
«Ah, allora non ho avuto una svista! Sei Mario, il ragazzo dell'autobus!» esclamò la donna, abbassando di poco gli occhiali da sole, rivelando uno sguardo ambrato a dir poco sorprendente.
Mario cercò di fare velocemente mente locale. Ricordava di averla vista sull'autobus, ma non ricordava di essersi presentato, viste le sue condizioni.
«Oh, cielo! Probabilmente non ti ricordi di me… ti ho soccorso assieme alla dottoressa Hudson e ho aspettato fuori in sala d'attesa per sapere come stessi». Quel lieve accento straniero, vagamente francese, a Mario però suonò familiare. 
«Sì, credo di ricordare» rispose appunto, titubante. La sconosciuta allargò le labbra chiuse di rossetto in un sorriso confortevole. Non emanava malizia, sembrava davvero una donna per bene, posata.
«Sono contenta di vedere che stai bene… non pensavo che ti avrei rincontrato così presto». La voce era sottile, educata, simile ad una carezza.
Come spinto da una strana forza di gravità, Mario le rivolse un inchino, aggrappandosi con le mani al manubrio della bici.
«Le avrò fatto perdere tempo quella mattina, ne sono davvero dispiaciuto» si scusò, ed era sincero. Non le aveva chiesto di aiutarlo, eppure quella sconosciuta, per giunta straniera, si era presa la briga di accompagnarlo in ospedale, sincerandosi anche delle sue condizioni. 
La donna scosse lievemente il capo, umettandosi le labbra.
«Stavo solo andando a trovare mio figlio, come oggi» e indicò col mento poco più in là del cimitero shintoista, oltre il boschetto di cipressi che fungeva da barriera naturale.
Mario sapeva che dall'altra parte vi era il cimitero cristiano, poco frequentato e mantenuto peggio rispetto a quello da cui lui era uscito solo pochi minuti prima.
Fece per chiedergli se suo figlio fosse seppellito lì, ma realizzò che anche per uno come lui sarebbe potuto risultare di cattivo gusto.
Con lo sguardo fisso verso il luogo indicato dalla straniera, non si accorse che dal proprio mazzo la donna prese una delle rose, la più aperta e fresca, porgendogliela con estrema delicatezza.
«Che tu possa trascorrere una bella giornata, figliolo». La mano tesa con la rosa in mano e il sorriso così dolce da far intenerire anche il peggiore dei criminali.
Mario corrucciò la fronte nel vederla, preso in contropiede.
«Per me?» chiese, allungando la mano guantata verso lo stelo reciso.
Lei lo guardò amorevole.
«Per tuo padre» fu la sua risposta, detta con tono calmo e rassicurante.
Per poco la rosa non scivolò dalle dita del giovane. I suoi occhi cerbiattini ebbero un guizzo di vita spontaneo.
«Ma lei chi è?» soffiò Mario, talmente incredulo da arrivare a pensare che non si fosse ancora alzato dal letto. Che quella gaijin gentile fosse solo il frutto della sua fervida immaginazione, che fosse ancora intento a sognare.
La donna abbassò di poco il viso, rimettendosi gli occhiali da sole che aveva riposto nell'ampia tasca del cappotto.
«Una sua vecchia amica» rivelò lei, e una leggera nota di commozione le uscì fuori dalla voce.
Mario si sentì contagiato da tanta tenerezza, quasi da avvertire le lacrime pungergli le palpebre.
«La ringrazio per la sua gentilezza, signora…?»
«Eloïse. Mi chiamo Eloïse Bruno» si presentò la donna, chinando il capo in segno di saluto, e stringendosi il mazzo di rose al petto come se tenesse un neonato in fasce tra le braccia.
Quel nome a Mario non diceva assolutamente nulla. Probabilmente quella signora si era confusa con qualcun altro, doveva avergli ricordato qualcuno del suo passato, forse un amico, un amante…
«Spero di rivederti, se Dio vorrà» si congedò allora Eloïse, poggiandogli la mano elegantemente curata sul braccio della mano offesa, stringendogli la stoffa della giacca, aveva esercitato una leggera pressione.
Mario avrebbe voluto ricambiare il suo augurio, ma era troppo scioccato anche solo per dire una sola parola.
Si limitò ad abbassare il capo con riverenza, mentre la straniera, non più così estranea, si allontanò verso la sua meta, in direzione opposta alla sua.
Mario la seguì per un po' con lo sguardo, pieno di domande che gli vorticavano in testa.
Eloïse. Quel nome continuava a non suonargli familiare.
Iniziò a domandarsi se l'avrebbe rivista di nuovo, se i loro cammini si sarebbero incrociati nuovamente… 
Chissà se avrebbe mai saputo altro della sua storia, del perché si trovasse in Giappone, chissà se sarebbe mai riuscito a scoprire di più sul suo conto…
Mario scosse il capo a quei pensieri, dopotutto non voleva dire niente il fatto che quella donna fosse stata gentile con lui. Era un atto dovuto verso qualunque essere umano, solo che in quegli ultimi tempi qualità come la gentilezza e il restare umani erano diventate rare, in via d'estinzione. Forse era stato per quel motivo che le era rimasta così impressa, si convinse.
Si sistemò la rosa sul taschino della giacca, stando bene accorto a non schiacciarla, e si rimise in sella, prendendo di corsa la discesa della collina.
E il calore di quel sorriso lo accompagnò per tutto il tragitto verso casa.
 
***
 
Dopo aver consumato la sua solita colazione e messo a posto la cucina, Setsuko si preparò per andare al lavoro in ospedale.
Mario era uscito presto quella mattina, ma la donna aveva deciso di non preoccuparsene troppo. Erano giorni tra l'altro che il ragazzo se ne stava chiuso in camera a rimuginare, dopo il fatto della corriera. 
Aveva sperato che fosse andato finalmente a dare una mano al Rainbow, oppure che avesse deciso di andare a trovare sua zia e suo nonno. Gli avrebbe fatto bene prendere un po' d'aria fresca e parlare con qualcuno.
Proprio mentre si stava infilando la sciarpa al collo, sentì un leggero bussare alla porta, cogliendola alla sprovvista.
Lì per lì, pensò che Mario fosse tornato indietro perché si era dimenticato qualcosa. Ma se fosse stato lui, non avrebbe di certo bussato per entrare. 
Con passo incerto, si avvicinò alla porta, aprendola piano.
Rimase sconcertata nel ritrovarsi davanti la persona più improbabile di tutte.
«Buongiorno Setsuko-chan!» fece una voce di donna, melliflua e pacata.
Setsuko restò impietrita per un paio di minuti.
«Buongiorno a lei, Hayami-san».

 

//Revisionato in data 13/11/23//


 
Salve a tutti!
Sono passate un paio di settimane dall’ultimo aggiornamento, credo che andrà così per un po', causa l’incalzare indefesso della sessione invernale -.-
Lascio giusto due note di chiarimento riguardo alla lettura: nella prima scena, la prima dopo la scena iniziale del flashback, ho spiegato brevemente quale fosse la condizione del Giappone nel dopoguerra. Ovviamente mi sono documentata, e mi sono attenuta a quello che ho letto nei libri, nelle serie e nei film ambientati in questo periodo. Ammetto che ci sono imprecisioni, alcune volute anche per fini di trama ma, ehi, è pur sempre una storia, ciò che deve colpire sono le vicende narrate e i personaggi coinvolti in essa.
Metto questo disclaimer per i più puntigliosi, non si sa mai 😉
Spero che questo capitolo vi abbia incuriosito ulteriormente. Questi primi capitoli sono mooooolto di rodaggio, ma più avanti si andrà, e più spero che vi prenderà 😊 Spero di garantirvi lo stesso con lo stile di scrittura, ahimè ancora acerbo.
Vi aspetto al prossimo aggiornamento, à bientôt!
   
 
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