A
svegliarmi fu il rumore
insistente della pioggia che batteva sopra il tetto.
Non
ricordo bene perché, ma
in quegli istanti di semicoscienza provai una terribile sensazione di
angoscia
opprimermi il petto e rendere schiavo il mio cuore.
Quella
mattina, mentre la
pioggia picchiava forte il vetro e lottavo contro la sveglia sopra il
comodino,
sentivo il mio cuore pesante.
Sapevo
che non mi sarei mai
voluta svegliare. Ma in quei momenti non riuscivo a ricordarmi
perché.
Piano,
con lentezza studiata,
aprii le palpebre, aspettando che i raggi del sole mi costringessero a
richiuderle immediatamente. Con mio stupore non avvenne e fu questo a
decidere
il mio brusco risveglio.
Era
il primo giorno di
pioggia dell’autunno appena iniziato.
Stupita
e, in qualche modo
infastidita, lasciai che la luce ovattata e perlacea mi colpisse gli
occhi
ancora pesti e insonnoliti.
Odiavo
la pioggia, il freddo
e il cielo bianco coperto dalle nuvole.
Mugolai
qualcosa di
incomprensibile, mentre mi gettavo il piumone sopra la testa. Non ero
ancora
pronta ad affrontare la giornata, e stavo ancora cercando di capire a
cosa
accidenti fosse dovuto il mio malessere, quella sensazione di
oppressione al
petto, così forte da non farmi respirare…
Cosa
stavo dimenticando,
dannazione?
Sbuffai.
Io e la mia memoria da
vecchia decrepita… E dire che avevo appena diciannove anni!
Lanciai
di lato il piumone e
mi sedetti di scatto dal letto. Il profumo del caffé mi
giunse alle narici e lo
inalai il più possibile. Mia madre era sicuramente in
salotto a preparare la
colazione: quasi automaticamente sorrisi. Era uno dei rituali
quotidiani che mi
ero portata dietro fino dall’infanzia.
Non
ne avrei potuto mai fare
a meno; l’odore del caffé la mattina, pungente e
amaro, mi riportava alla
realtà dopo una lunga notte di sonni turbolenti.
Già,
la realtà…
Mi
afferrai la testa fra le
mani, con l’ennesimo sbuffo infastidito, facendo affondare le
dita tra i miei
lunghi capelli rossi.
Fu
in quel momento che il mio
sguardo cadde sullo schermo del cellulare.
Lo
afferrai convulsamente e
lo portai davanti agli occhi.
Erano
le otto e mezza del
mattino.
Di
quella mattina di inizio
Ottobre…
E
in quel momento tutti i
tasselli della mia memoria andarono al loro posto, ricostruendo
quell’ultimo
anno, e soprattutto portando a galla il nome più importante
della mia vita:
Edoardo.
Il
dolore che mi scatenò
dentro quel semplice nome fu una pugnalata al petto, una stretta alle
viscere e
un colpo di pistola al cervello.
Ecco
perché non volevo
svegliarmi. Ecco perché provavo quell’angoscia.
Mi
voltai verso l’altra parte
del letto, con le lacrime agli occhi.
Ed
ecco perché il mio letto
era così assurdamente freddo e vuoto, quella mattina, senza
il calore del suo
corpo a riscaldarlo, come al solito. Senza le sue braccia pronte a
stringermi
ad una mia piccola richiesta.
No,
no Caterina.
Gliel’hai
promesso, mi
ricordai, niente lacrime.
E
allora perché, piccola e
dispettosa, quella lacrima cristallina e salata aveva deciso di
disubbidirmi,
rigandomi la guancia destra? Portava con sé tutto il mio
dolore, tutto quello
che cercavo di nascondere a me stessa.
Mi
portai la mano al ventre,
un gesto istintivo.
Edoardo
sarebbe partito
quella mattina.
E
io non potevo più fermarlo.
Avrei dovuto, però, parlargli.
Assolutamente.
‹‹Caterina››
la voce di mia madre, attutita dalla porta della mia stanza, mi giunse
lontana
lontana, quasi come un’eco sordo ed indistinto.
Non
riuscivo a sentirla bene, come se io appartenessi ad un altro mondo.
Decisi
di farmi forza, però, e di risponderle.
Mi
schiarii la gola, ‹‹Dimmi,
mamma›› soffiai. Non ero sicura che mi avesse
sentito, ma udii la maniglia abbassarsi e la porta cigolare.
Mi
investì l’odore del caffé, di nuovo, ma
stavolta con maggiore potenza,
affiancato da altre fragranze: quella del latte bruciato e il
straordinario
profumo di mia madre.
Non
sono in grado di descriverlo. Era il profumo che amavo di
più al mondo, secondo
solo a quello di Edoardo, era dolce e sapeva di crema al latte. Mi
faceva
tornare bambina, quando la osservavo ammirata indossare le calze a velo
nere,
chiedendomi se anche io, un giorno, sarei stata come lei.
Donna,
innamorata e bella, in grado di indossare quelle calze nere e morbide.
La
voce di mia madre, un po’ irritata, mi riportò di
nuovo alla realtà, scacciando
quei ricordi dolci e al contempo amari.
‹‹È
tardissimo! Hai idea di che ore siano?›› Il
rimprovero nel suo tono marcava
ogni sillaba.
La
guardai interrogativamente e scossi il capo. Non poteva alludere alla
partenza
di Edoardo: era a mezzogiorno.
Mia
madre sbiancò.
‹‹Non…
non hai ricevuto la chiamata?››
Okay,
ora mi stavo spaventando sul serio.
‹‹Quale
chiamata? Di che parli?›› il mio cuore aveva
preso a battere frenetico, come
impazzito. Se gli fosse successo
qualcosa…
La
mia mano tornò a posarsi meccanicamente sul ventre, mentre
aspettavo la
risposta da mia madre.
‹‹L’aereo
di Edoardo è stato anticipato. Parte tra meno di
un’ora››.
Sgranai
gli occhi e controllai di nuovo l’ora: erano le nove meno un
quarto.
Senza
capire più nulla mi alzai di scatto dal letto, dirigendomi
verso il cassettone
dei vestiti. Ne spalancai le ante e afferrai il primo abito che mi
capitò a
tiro.
‹‹Mi
faccio una doccia e vado in aeroporto›› la mia
voce suonava spenta perfino a me
stessa. Prima che mia madre potesse ribattere mi chiusi in bagno.
Mi
spogliai e accesi il getto bollente della doccia. Con lo sguardo basso
entrai
dentro la piattaforma e richiusi la tenda.
Posai
la fronte sul marmo del muro, cercando di calmarmi.
Avevo
i minuti contati.
Lo
sapevo io e lo sapevano anche le lacrime che uscivano fuori dai miei
occhi,
incapaci di lavare via tutto il mio dolore, come l’acqua
calda che mi pioveva
sul corpo, scivolandomi dolcemente addosso e portandosi via tutto il
torpore
del sonno.
Dopo
un quarto d’ora stavo correndo le scale del comprensorio in
cui abitavo.
Il
portiere mi aprì il cancello e ringraziandolo velocemente
uscii
dall’appartamento in tutta fretta.
La
mia auto distava qualche metro, e mi ci avvicinai già con le
chiavi in mano.
Cercavo
di pensare il meno possibile. L’unica cosa che contava per me
era arrivare in
tempo, prima che il suo aereo partisse.
Era
arrivato il momento, dunque. Quanti mesi avevo trascorso con
l’incubo di quella
partenza…
Scossi
il capo, cercando di non pensarci più. Entrai in auto,
infilai le chiavi e le
girai.
Il
quadrante si accese e la macchina vibrò, ubbidiente.
Immediatamente innestai la
marcia e partii, sicura.
Aveva
smesso di piovere, ma me ne accorsi appena.
Arrivai
all’aeroporto alle dieci e un quarto.
‹‹Cazzo!››
imprecai, sbattendo la portiera della mia auto con violenza. Cominciai
a
correre velocemente, cercando di ignorare il dolore che mi sconquassava
il
petto, ma non era per la corsa.
Era
crudele, malvagio, godeva nel torturarmi.
Sembrava
che tutto il mio corpo avvertisse la vicinanza di Edoardo, come se
fossero
passati anni anziché pochi giorni dall’ultima
volta che l’avevo visto. Il mio
cuore rimbalzava frenetico, e sentivo un bisogno incredibile di vedere
il suo
volto…
Aveva
deciso che il giorno prima della sua partenza non ci saremmo dovuti
vedere. Mi
conosceva, ed era convinto che sarei stata triste tutto il tempo.
Beh,
pensai, arrivando al ceck-in, non aveva tutti i torti.
Mi
fermai, ansante, cercando di scorgere qualcuno con la divisa militare.
Un
moto di pessimismo mi attraversò: se erano già al
gate era impossibile
raggiungerlo… e io non ero certo tipa che si metteva contro
le autorità; di
certo per i poliziotti non contava che per me fosse più
importante di ogni
altra cosa vederlo, perdermi nei suoi occhi, sentire il calore delle
sue
braccia stringermi forte…
No,
non importava a nessuno che avessi una notizia molto importante da
dargli.
Stavo
già per andarmene via, quando all’improvviso dal
ceck-in apparvero degli
uomini.
Erano
molto alti e piazzati, ma non fu questo a sorprendermi. Avevano tutti la divisa militare.
Il
mio cuore perse un battito.
‹‹Edoardo››
sussurrai, con un impeto di emozione.
Mi
spingevo tra le persone, non curandomi di essere sgarbata. Non mi
importava.
Non vedevo nient’altro.
Continuai
a cercarlo, disperata, facendomi largo tra quelli omoni troppo
cresciuti.
‹‹Edoardo!››
urlai, infine, pregando dentro di me che non avesse già
varcato il gate.
E
poi… poi lo vidi.
Era
lì, accanto al metal detector, si era voltato sentendosi
chiamare. Cercò con lo
sguardo chi potesse essere stato, anche se credo che in cuor suo lo
sapesse
già.
Infine,
annegai nel suo sguardo color smeraldo, rapita.
La
gioia che provai in quell’istante era mista ad una tristezza
sconfinata, quasi
come i suoi occhi stupendi.
Si
voltò, spezzando quel magico incantesimo, e fece segno ai
suoi compagni di
procedere prima di lui, dopodichè si mise a correre verso di
me.
Non
riuscii a parlare quando fu davanti a me.
‹‹Caterina,
sei qui›› mormorò, carezzandomi la
guancia. Sospirai chiudendo gli occhi, a
quel tocco. Deliziosi brividi di piacere mi attraversarono il corpo
come
piccole scariche elettriche.
Senza
rispondergli lo abbracciai stretto a me, affondando il volto sul suo
petto.
Neppure lui disse nulla, stringendomi a sé come solo lui
sapeva fare. In
quell’istante sentii di aver trovato il mio spazio nel mondo.
Ero con lui, ed
ero finalmente viva.
Mi
sentivo come se tutto il mio corpo avesse preso a vibrare, come se solo
in quel
momento avessi appreso appieno cosa significasse respirare e avessi
colto il
vero colore delle cose. Come se sapessi cos’era davvero la
vita.
Non
era la tipica scena strappalacrime di un film, con tutti quei
“ti amo” detti a
vuoto.
Non
serviva dirlo. Erano solo due parole che non potevano quantificare
quello che
stavo provando.
Edoardo
si staccò dolcemente da me e lo guardai di nuovo dentro i
suoi occhi.
Adoravo
quando mi guardava così, sentivo le viscere stringersi in
una morsa feroce e
percepivo la sensazione di essere amata. I suoi occhi erano uno
smeraldo lucido
e sincero. Non potevano mentirmi, non avrebbero potuto.
Mi
sorrise.
E mi
bastò.
‹‹Torna
presto da me›› gli dissi.
‹‹Promesso››
continuò a sorridermi, con più tristezza,
stavolta.
Sospirai
e gli afferrai la mano. Lui mi rivolse un’occhiata confusa ma
gli feci cenno di
non parlare. Gli posai il palmo sul mio ventre, carezzandogli le dita.
‹‹Torna
presto da me e… da lui››.