Se un tempo mi avessero chiesto come mai desideravo tanto andare a vivere nella capitale, probabilmente avrei risposto “per via dell’orizzonte”.
Sembra assurdo, ma è proprio così.
A Mòrask, la mia città natale, non si sta bene, non lo si è mai stati, ma nel mio pensiero d’allora partire non era legato alla ricerca di un’occasione, di un lavoro, di un avvenire, ma proprio a quel desiderio quasi fisico di guardarsi intorno e vedere solo infinito.
Il contrario di quel che dicevano i miei nonni, genitori, amici.
I nativi del Dàrbrand non possono fare a meno di quel recinto di protezione che sono le montagne: “se rimani senza” – mi ripetevano - “ti perdi”.
Non credo di essermi perso, e tuttavia oggi capisco cosa comporta l’ansia di orizzonte.
Fin da quando si è piccoli qualcuno ci protegge da essa: gli insegnanti che ti costringono in fila per due, l’ora dei compiti, l’ora della merenda, non parlare con gli sconosciuti e porta rispetto agli adulti… e così via, mentre cresci.
Le regole non sono nate per reprimere, sono nate per contenere, come le montagne.
Eppure, ogni volta che salgo quassù e guardo questa distesa di tetti ai miei piedi, e l’estuario del fiume che sembra già mare, e le nuvole che corrono, io sento di riempirmi di orizzonte, e so che sarà l’ansia di orizzonte la causa di tutti i miei problemi.
Qualche mio collega a questo punto direbbe che io non ne ho, di problemi: io li creo.
E forse è vero.
Ma sempre per potermi sedere qui.
Sempre per potermi portare l’orizzonte dentro i polmoni.
Prima o poi mi ci perderò davvero.