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Autore: Luinloth    30/03/2022    3 recensioni
Non si meravigliò nel trovare Levi nella mensa riservata agli ufficiali, non davvero. 
Quando era stato informato del furto di tre dispositivi di manovra, la bocca di Nile si era piegata in una smorfia irridente: “Cosa spera di farsene del movimento tridimensionale una feccia del genere” aveva sputato, “Parola mia che nel Sottosuolo s’imbatteranno in poltiglia di ratto spiaccicata su qualche muro entro la prossima settimana” era stata la sua sentenza, ed Erwin gli aveva anche creduto, per un po’.
Ma non aveva mai conosciuto qualcuno come Levi. 
In realtà, non aveva mai neppure pensato potesse esistere — sopra o sotto terra, in qualsivoglia anfratto o crepa o ripiegatura del mondo noto — qualcuno come Levi.
«Buongiorno»
Genere: Generale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Slash | Personaggi: Erwin Smith, Levi Ackerman
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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NdA ❀*: Ambientata circa due, tre mesi dopo gli avvenimenti di “A Choice with no Regrets”, prima della caduta di Shiganshina e della nomina di Erwin a Comandante. Erwin è un po’ fissato con le mani di Levi, Levi è un po’ fissato con il tè e io con entrambe le cose; fondamentalmente 3k di camini, teiere, ed Erwin che guarda Levi con occhi da pesce lesso.

Scritta per la #10daysafterchristmas challenge del gruppo Chinpo wo Sasageyo!! 🌽 ÷ Gli stalloni del Corpo di Ricerca 

 

 

Delle sue foglie di tè 

 

L’alba chiazzava Trost di luce grigia. Sporca, come la neve ammassata ai bordi della strada. Cumuli di ghiaccio e polvere e qualche cadetto troppo vivace cui era stato affibbiato l’ingrato turno di notte che batteva i denti nella guardiola a nord-ovest, a pochi metri dalla sua finestra.

Erwin osservò il letto intonso, la colonna di rapporti ordinatamente impilati sulla sua scrivania. Si sentiva troppo stanco persino per dormire. Nell’arco di un paio d’ore, anche meno, Shadis lo avrebbe convocato di nuovo, e vanificare il lavoro di una nottata intera presentandosi con le pieghe del cuscino stampate sulle guance avrebbe innescato conseguenze che non aveva intenzione di affrontare una seconda volta: non ne aveva neanche le forze, in verità. La sua firma, in calce al documento appena stilato in cima alla pila, ondeggiava come la fiamma tremula della candela quasi esauritasi fissata sul piattino accanto al calamaio.

Un debolissimo conato di vomito gli torse lo stomaco. 

Magari gli avrebbe davvero fatto bene vomitare. 

Cacciarsi due dita in gola ed espettorare il giorno pieno, la spedizione, la presunzione omicida di ogni sua decisione giusta, o sbagliata — non che ai morti importasse quanto elevato fosse il rapporto tra le perdite e le conquiste — con la testa infilata in un secchio e il sudore che gli correva addosso a esacerbare il bruciore delle escoriazioni delle cinghie sulla sua schiena. Se fosse accaduto, Erwin avrebbe potuto finalmente togliersi l’uniforme, sganciare le fibbie dell’attrezzatura e riempire di acqua ghiacciata la vasca nella stanza accanto; avrebbe potuto lavarsi e aspettare in mutande, sotto le coperte, che la luce sopra Trost si tingesse di rosa. 

Se soltanto fosse riuscito a ricordare a quante ore prima risalisse il suo ultimo pasto, e se soltanto la colpa fosse stato un qualcosa da potersi rigurgitare.

La legna nel caminetto era finita. 

Il fuoco si era spento ormai da un po’, e il vento che fischiava all’esterno iniziava a incuneare spifferi attraverso le imposte. Non aveva voglia di scendere fino alla legnaia, né di affaticarsi ad alimentare fiamme il cui calore comunque non meritava, ma aveva le mani e i piedi che formicolavano e obblighi da rispettare, di lì a poco, e un soldato infreddolito rimaneva un soldato inefficiente, nonostante tutto. 

Schiacciò lo stoppino della candela tra pollice e indice e recuperò a tentoni la giacca sgualcita dallo schienale della sedia. I fogli sulla scrivania frusciarono dolcemente quando si chiuse la porta alle spalle, un mormorio roco che era simile al lamento di un uomo in punto di morte. Al crepitio lugubre di ossa che scricchiolano.

Non si meravigliò nel trovare Levi nella mensa riservata agli ufficiali, non davvero. 

Quando era stato informato del furto di tre dispositivi di manovra, la bocca di Nile si era piegata in una smorfia irridente: “Cosa spera di farsene del movimento tridimensionale una feccia del genere” aveva sputato, “Parola mia che nel Sottosuolo s’imbatteranno in poltiglia di ratto spiaccicata su qualche muro entro la prossima settimana” era stata la sua sentenza, ed Erwin gli aveva anche creduto, per un po’.

Ma non aveva mai conosciuto qualcuno come Levi. 

In realtà, non aveva mai neppure pensato potesse esistere — sopra o sotto terra, in qualsivoglia anfratto o crepa o ripiegatura del mondo noto — qualcuno come Levi.

«Buongiorno»

In risposta, non ottenne che uno sguardo appena stupito. 

Freddo, e lucido come l’acciaio temperato ma tranquillo, rilassato addirittura. L’espressione di un uomo perfettamente in pace con la propria coscienza, di certo non quella di un soldato sorpreso da un suo superiore in una zona del Quartier Generale a lui preclusa: Erwin avrebbe avuto l’assoluto diritto, se non il preciso dovere, di annoiarlo a morte con una sonora ramanzina per poi intimargli di uscire, eppure lui non sembrava affatto preoccuparsene. 

Non lo salutò nemmeno dopo quella bizzarra occhiata, si limitò a stringersi nelle spalle e a smuovere i carboni incandescenti nel magnifico camino in pietra e marmo incassato nel muro, lì dove un grosso bollitore di ghisa gorgogliava e spruzzava schizzi bollenti sulle braci sottostanti, facendole sfrigolare.

Fu un’occorrenza inidentificabile a trattenere Erwin dal cacciarlo via. 

Poteva trattarsi di riconoscenza, forse, che in fondo era merito di Levi se dodici ore prima le squadre di assistenza ai carri erano state solo dimezzate anziché sterminate del tutto; curiosità, o banalmente stanchezza, semplice desiderio di sedersi e godere di quel tepore rubato, che già gli lambiva la punta delle dita, senza ulteriori discussioni al vetriolo da dover sopportare. 

Tutte queste ragioni insieme o nessuna, fatto sta che Erwin non aggiunse altro al suo educato buongiorno, prese posto davanti al camino — Levi sullo sgabello accanto al suo — distese le gambe e chiuse gli occhi.

C’era solo sangue.

Li riaprì di colpo. Boccheggiava.

«Quelle di Shadis sono un mucchio di cazzate.»

Erwin sbattè le palpebre. Non era sicuro di aver capito bene. Levi si era alzato, nel frattempo, aveva preso le pinze, tolto con grande cautela il bollitore dal fuoco e versato l’acqua in una panciuta teiera di coccio incastrata sul treppiede vicino alla sua sedia, al quale lui non aveva finora fatto caso.

«La conversazione tra te e Shadis di questa sera, quello ti ha detto» ripetè, mettendo il bollitore a raffreddare sul pavimento «Un mucchio di cazzate.»

«Ne deduco che tu abbia origliato.»

Levi inarcò un sopracciglio, si voltò per un momento a guardarlo «Avrà origliato l’intero Corpo di Ricerca…» mormorò, dopodiché estrasse un sacchettino di stoffa dalla tasca interna della giacca e ritornò con la massima calma a occuparsi del suo tè.

Erwin incassò senza ribattere. Levi era stato già fin troppo gentile a etichettare come conversazione quanto verificatosi nell’ufficio del Comandante al loro rientro al Wall Rose. 

Ad un occhio più cinico, o efficiente, il suo sarebbe stato liquidato in poche righe come una fatalità sfortunata: un’inevitabilità infelice, dettata dalle condizioni e dalle caratteristiche sfavorevoli del terreno di scontro. Almeno, questa era quanto Shadis gli aveva ordinato di scrivere nel resoconto da inviare a Mitras, dopo avergli rinfacciato urlando ogni imprudenza da lui commessa nel corso dell’ultima missione oltre le mura, lì dove erano rimasti a marcire i cadaveri di quarantanove soldati del Corpo di Ricerca e dove erano rimasti — senza nessun compiacimento masochistico, o esaltazione retorica della propria autocommiserazione stantia — per limpida e lineare responsabilità del Caposquadra Erwin Smith. 

Chiarissimo. 

Elementare, perfino.

Al segnale di ritirata — al secondo, letale impatto con una torma di Classe Quattro metri, straripata all’improvviso da un boschetto di lecci come vespe da un alveare minacciato dal fumo — Shadis aveva deciso di affidargli la gestione delle operazioni di rientro, e lui era stato lento: aveva sottovalutato l’imprevedibilità degli Anomali e permesso a quattro di loro di sfondare da est le retrovie, prendendoli alle spalle e puntando diritti al cuore della formazione.

Perciò, Erwin non lo biasimava affatto: né per le crudeltà gratuite né per per il tono incattivito con cui Shadis gliele aveva scaraventate addosso, nonostante ora non ci fosse brano del suo corpo che non dolesse, come se ognuna di quelle accuse l’avesse subita alla stregua di un calcio nelle costole. Era da un anno che non perdevano così tanti uomini, e la solidità della sua posizione di Comandante si faceva più traballante di settimana in settimana, logorandosi al medesimo passo delle sua già precaria stabilità mentale, se non addirittura con rapidità maggiore.

E comunque, era colpa sua.

Se quattro squadre avevano rischiato d’essere completamente spazzate via, era colpa sua.

 «Il Comandante Shadis aveva ben valide motivazioni per esternare il proprio disappunto in tal maniera» obiettò pacato «La sopravvivenza dell’intero Corpo è nelle sue mani, dopotutto.»

«E invece nelle tue no?» 

Ancora quello sguardo su di lui. 

Metallo levigato, nessuna ombra, e probabilmente l’espressione più rudemente schietta che Erwin avesse mai visto disegnarsi sul viso di qualcuno.

Non sapeva cosa rispondergli. 

Per lui, che aveva sempre un gesto, un saluto, un pugno di formule vuote ad aggiustare i silenzi scomodi e le domande importune — lo aveva imparato troppo tardi, ad amministrare le parole, ma da allora non ne aveva sbagliata neanche una — era una sensazione strana. Una novità complicata da catalogare.

Levi gli restituì un cenno indifferente, allentò i capi del sacchettino di tela, e nell’aria pregna dell’odore appiccicoso della legna bruciata si diffuse un aroma secco, di terra autunnale: versò il tè nell’acqua — tre pizzichi, misurati con cura — e rimise attentamente il coperchio alla teiera. 

Erwin aveva eseguito la stesse identiche azioni decine di volte, e tuttavia il modo in cui Levi si muoveva — richiudeva l’involto, armeggiava con la tazza che sembrava essere comparsa dal nulla, tra le sue mani — tratteggiava un rituale indecifrabile che ai suoi occhi sfumava nei contorni opachi dell’incantato. Il riverbero bizzoso delle fiamme rifletteva viola e onice tra i suoi capelli, accentuava le linee affilate dei suoi zigomi. Gli strascichi dell’insonnia, all’orlo delle sue palpebre. 

«Shadis è un idiota» proseguì «Starnazza come un idiota e ragiona come un idiota.» 

«Il Comandante ha una visione d’insieme che manca alla maggior parte di noi.»

«Balle» rumore di ceramica sbattuta contro altra ceramica «Non fosse stato per te, a quest’ora saremmo vomito di gigante.»

Ciò che sorprese Erwin più di tutto, non furono tanto gli insulti che zampillavano in libera successione dalla sua bocca, e nemmeno la naturalezza con cui Levi ignorava, o fingeva d’ignorare, le possibili ripercussioni che offese di simile calibro avrebbero potuto causargli — vilipendio, tentativo di sedizione, oltraggio all’autorità, senza dimenticare la sua presenza ingiustificata nella mensa degli ufficiali, Erwin sarebbe stato capace di elencare fino a sette infrazioni del codice militare da lui commesse solo nell’arco dell’ultima manciata di minuti — no. 

No.

Ciò che lo sorprese più di tutto fu che, nello stigmatizzare Shadis, Levi stesse prendendo le sue difese. Con quel candore ferino, e la sua inconfondibile inopportunità di modi.

«Devi avere un’opinione molto alta di me, nonostante tutto.»

Una nuvoletta di vapore si addensò sotto il suo naso: terra autunnale, una miscela deliziosamente intensa. Il piattino di porcellana e quel profumo terrigno sospesi a un palmo dalla sua faccia. 

«Sei tu quello che riporta le nostre chiappe al Quartier Generale alla fine di una missione»Levi gli stava tendendo una tazza di tè: «Ho l’opinione che devo avere.»

Levi non chiese, non invitò, non lo guardava neppure. Aveva le unghie corte e tonde, rilevò Erwin, adesso che le sue dita erano così vicine alle sue pupille, le mani piccole e bianche, il dorso attraversato da graffi superficiali e scorticature da freddo. 

«E tu sei già il soldato che finora ha ucciso da solo il maggior numero di giganti» dichiarò, accettando la bevanda con riconoscenza «Compresi due dei quattro Anomali che oggi ci hanno attaccato.»

Levi accolse l’encomio con scarso entusiasmo. Si sedette, accavallò le gambe e cominciò a bere in silenzio, con le palpebre socchiuse, scrutando le lingue di fuoco che dalla base del focolare si sfilacciavano verso l’alto; Erwin avvicinò le labbra alla superficie del liquido e ci soffiò sopra. Il tè era caldo ma non scottava, e non era neanche amarognolo come aveva previsto, lasciava un piacevole retrogusto dolciastro alla fine della lingua, morbido e rotondo, come la teiera di coccio poggiata sul treppiede. Il borbottio aritmico della legna lo tranquillizzava, pareva regolarizzargli persino il respiro.

Erwin provò a chiudere di nuovo gli occhi, e stavolta non trovò che una pacifica tenebra.

Arrivato a metà della tazza — Levi se ne stava versando una seconda, continuando a non proferire parola — sollevò il capo nella sua direzione.

«Me lo dirai, prima o poi?» il piattino posato sulla sua coscia vibrò leggermente «Chi è che ti ha insegnato a combattere così.»

In salse e formule più o meno diverse, erano mesi che a Levi veniva posta la medesima domanda. 

Lui stesso lo aveva minacciato — un eternità prima, immerso fino alle caviglie nella putredine fangosa del Sottosuolo — Hanji aveva tentato invano di corromperlo con mille moine e, infine, un paio di reclute particolarmente querule erano state trasportate in infermeria con il setto nasale frantumato, a implacabile e definitivo monito di cosa sarebbe successo al naso di chiunque altro avesse provato a ficcarlo senza permesso nei suoi primi venticinque anni di vita.

Nelle orecchie gli risuonavano ancora le parole di Shadis. 

È un animale selvatico. 

Che tu possa avvicinarti senza che lui ti azzanni non significa che sarai mai in grado di addomesticarlo.

Ciò che Erwin non gli aveva mai detto, era di non averne mai avuto l’intenzione.

Levi s’innervosì. Abbassò la tazza e si allungò in avanti facendo stridere le gambe traballanti dello sgabello come sul punto di rimettersi in piedi, o di lanciare tè e stoviglie direttamente nel camino, e se Erwin lo avesse già conosciuto — come avrebbe imparato a conoscerlo attraverso lo scorrere delle stagioni, dell’inverno, della primavera più luminosa e violenta che mai avrebbe pensato di dover affrontare — avrebbe capito che a indurire la sua postura non erano né rabbia né irritazione, ma un’inquietudine sorprendentemente prossima alla paura. 

«Kenny.»

Il fuoco si prese quel nome e lo inghiottì.

«Kenny lo Squartatore.» 

Il volto di Levi era talmente vicino alle fiamme che lui poteva cogliere l’infrangersi fluttuante delle onde di calore sulla sua fronte pallida, «Così lo avevano soprannominato in superficie, per aver scannato quindici gendarmi in una notte sola o perlomeno…» un sorriso sghembo gli uncinò la bocca «Perlomeno, questo è quanto gli piaceva raccontare.»

«Cinquantotto vittime e mai un solo testimone.»

Quando Erwin dormiva ancora nelle camerate comuni, le favole che si rincorrevano tra le brande bisbigliavano di cadaveri estratti dalle fogne senza più una goccia di sangue in corpo: rinvenuti mutili, sfigurati, con lo sterno in frantumi e un coltello piantato nel cuore alla maniera in cui si ammazzavano i maiali a metà inverno. 

«Credevo si trattasse di una leggenda» sussurrò, e Levi dovette trovarlo estremamente divertente perché la sua posa tornò ad ammorbidirsi. Rilasciò un sospiro d’un inaspettato longanime e poi sorrise. Ridacchiò. Per quanto potesse definirsi risata quel ghigno storto che gli strattonava le labbra, tagliandogli la faccia in due.

«Per essere una leggenda…» gracchiò «La solennità con cui mi prendeva calci in culo sapeva essere molto realistica.» 

«Adesso mi spiego da dove arriva il tuo astio nei confronti del Corpo di Gendarmeria.»

Levi si concesse una lunghissima sorsata di tè: «Trovami qualcuno al di fuori del Wall Sina che non li odi» borbottò «O sotto.»

«Ed è lui che ti ha insegnato a usare il movimento tridimensionale?»

Lui scosse la testa: «Quando io e Farlan siamo riusciti a impadronirci di quell’attrezzatura, Kenny non viveva più con me da anni» chiarì, e il “ma” che gli era sfuggito, tra i denti, tentennò appeso al filo delle sue labbra strette un istante di troppo perché potesse ritrattarlo.

«…Ma lui è stato il primo a mettermi tra le mani un’arma, e a insegnarmi ad usarla.»

E non era mai stato un maestro paziente, Kenny. 

Né tenero, né comprensivo, ed Erwin era certo difettasse egualmente di qualsivoglia attributo potesse definirlo adatto a una simile professione: non poteva saperlo sul serio, ma lo intuiva da come Levi aveva serrato la presa intorno al bordo umido della tazza. Dalle sue nocche screpolate, che erano sbiancate lievemente. 

Avrebbe dovuto esserne inorridito. 

Avrebbe.

La verità, è che non si era mai aspettato niente di meno.

Levi aveva dita sottili. Diafane come l’alabastro e forse, pensò Erwin, nella conca dei suoi pensieri erranti — quelli mollemente inutili, e svagati, e quelli inappropriati che s’insinuavano nelle intercapedini delle sue debolezze come l’edera — forse erano anche altrettanto fredde. Altrettanto dure.

«Capisco» mormorò.

«No.»

Levi si alzò in piedi. 

«Non puoi.»

Di Kuchel, avrebbe saputo mesi dopo.

Quando Levi avrebbe avuto abbastanza fiducia in lui da lasciarsi spogliare nel buio, e quando lui non avrebbe più dovuto domandarsi quanto dure fossero le sue dita perché sarebbe stato Levi stesso a spingerle contro le sue labbra, dentro la sua bocca.

(È un pomeriggio mite, di fine primavera. Il cielo brilla d’un chiaro azzurro senza nuvole, che qualcuno potrebbe dire abbia lo stesso colore dei suoi occhi, qualcuno che non li abbia mai visti iniettarsi di sangue mentre strepita ordini che sono condanne a morte, sopra il frastuono degli zoccoli dei cavalli — qualcuno che non sia Levi. Erwin lo trova apparentemente assorto nei propri pensieri, a cavalcioni della staccionata che delimita i confini dello spiazzo erboso dove sono soliti allenarsi i cadetti, completamente deserto ora, fatta eccezione per loro due, e nel sentirlo arrivare Levi ruota appena la testa e gli scocca uno sguardo obliquo che lui fatica a interpretare, ma che non gli sembra essere rancore. Forse. È seriamente tentato dal chiedergli se abbia fatto qualcosa di sbagliato, la notte precedente, poiché è da allora che ha l’impressione di venire evitato come un lebbroso, e ormai ha imparato che è più semplice abbattere un gigante che cercare di rimanere a galla nel mercurio dei suoi occhi grigi. 

È seriamente tentato dal chiederglielo ma lui lo precede: «Mia madre faceva la prostituta» lascia cadere in mezzo al prato «E io sono il figlio di un puttaniere» aggiunge, in un tono colpevole che non gli si addice, come si sentisse in dovere di specificare in che misura bisognerebbe tenersi alla larga da lui. Sposta la gamba dall’altro lato della staccionata e gli gira la schiena. Senza attendere una risposta o, più semplicemente, aspettandosela in forma di passi disgustati che si allontanano, ed Erwin proverebbe a estirpargli quella vergogna dal petto come fanno con le ortiche che infestano il lato ovest del Quartier Generale, ma convive da abbastanza tempo con abbastanza fantasmi per sapere che ci sono ferite che il tempo corrode e basta, e che non guarisce mai. 

Le assi di legno scrocchiano quando gli si siede accanto, Levi si irrigidisce: «Be’, e non dici niente?»

«Dico che ho conosciuto figli di nobili che non meriterebbero di pulirti le scarpe.»

Levi scrolla le spalle, «Tsk…» camuffa un sussulto: vantasse la sua stessa gentilezza acuminata, Erwin gli avrebbe già fatto notare che non è per nulla da lui farsi cogliere di sorpresa in quel modo, «E chi ti assicura che io gliele lascerei toccare?»

Rimangono seduti lì. 

Su quello steccato cigolante, a osservare l’orizzonte scintillare sotto il sole come il filo di una lama d’oro, finché uno scricchiolio particolarmente lamentoso non lo informa che Levi gli è scivolato più vicino. Ha la coscia che sfiora la sua coscia, ora; i loro fianchi si toccano.

Levi appoggia la testa sulla sua spalla, e sorride.)

«No.»

Levi si alzò in piedi. 

«Non puoi.»

Senza accordare ad Erwin il tempo di replicare, si riprese la teiera vuota e se andò. 

Al suo posto, ad aleggiare nell’aria spessa della mensa riservata agli ufficiali, rimase la fragranza tiepida delle sue foglie di tè.

   
 
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