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Autore: Ferula_91    07/09/2009    2 recensioni
Il matrimonio di una figlia può riportare alla mente tanti ricordi e sensazioni. E il proprio papà questo lo sa bene.
Genere: Triste, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Tre ore… A primo acchito poche ma paradossalmente anche tre interminabili ore. Centottanta minuti e tu dirai “si” all’uomo che ami, Clara. Ed io che sono tuo padre che posso dirti ancora? Sono semplicemente la persona più felice ed orgogliosa del mondo intero, anche se forse non te l’ho fatto capire abbastanza.

A dir la verità Clara mi è capitato spesso di pensare a come sono stato io come padre da quando mi hai dato la notizia del tuo matrimonio col ragazzo con cui hai passato metà della tua vita, che veniva davanti al portone di casa con la scusa di restituirti qualcosa o di giocare assieme a te, che ti osservava passeggiare credendo che io non me ne accorgessi.

Troppo permissivo? Troppo burbero? Impiccione? O indifferente?

Man mano che la lancetta dei minuti del mio orologio, fedele compagno da anni e anni, si spostava, di aggettivi per descrivermi me ne sono venuti a iosa. Ma credo che sia tu l’unica che possa definirmi come veramente sono, anche se di sicuro farai di tutto per marcare sui pregi come sei solita fare. Tutta tua madre che, ahimé, non potrà essere qui a tenermi la mano quando mi renderò veramente conto che sei cresciuta davvero!

Proprio tu, che ti ho chiamata “Principessa” fino a 18 anni, quando mi hai intimato di smetterla altrimenti avresti lasciato per sempre la nostra casa. Tu che le notti di temporale ti infilavi loscamente nel letto fra me e la mamma convincendoci però che stavi lì per tenerci compagnia e non perché avessi paura dei tuoni. E ancora tu che non riuscivi ad andare in bicicletta e davi la colpa a me di non essere un bravo maestro, con le ginocchia sbucciate e le gote rosse di rabbia. Che tornavi a casa dopo scuola e mi aspettavi in salotto fino alle sei di sera quando rincasavo dal lavoro per raccontarmi cosa avevi fatto la mattina, i voti belli e -a fatica- anche quelli brutti. Le serate in cui ti prendevo in braccio, dopo aver visto un film o uno dei soliti cartoni animati con qualche bella principessa e un aitante cavaliere, e in silenzio ti portavo a letto mentre tu nel sonno mi chiedevi di vederne un altro. O quando la mamma ti vestiva da principessa per Carnevale o da streghetta per Halloween e mi costringevi a fare il giro del quartiere per racimolare qualche dolcetto e tornata a casa te li mangiavi tutti con un sorriso soddisfatto e appagato.

Che dovrei dirti adesso che ti guardo infilarti il vestito bianco emozionata e con le lacrime agli occhi? Se fossi nata maschio mi sarei ritrovato lo stesso qui a pensar per smorzare la tensione? Forse no… o forse si.

Quando eri piccola avevo il vizio di guardare gli altri padri e chiedermi “Anche io sono così con mia figlia?” poi vedevo il tuo sorriso quando mi portavi il libro delle favole da leggerti, la gioia la mattina di Natale quando gridando aprivi i regali e puntualmente trovavi ciò che avevi desiderato, la contentezza quando giocavamo in giardino i pomeriggi d’estate e mi costringevi a fare il cavallo e trasportarti a quattro zampe. In quei mentre tutti i miei dubbi sbiadivano fino a cancellarsi completamente.

Ma di errori ne ho fatti tanti pure io, anche se è dura ammetterlo. Quando la mamma ci ha lasciati io mi sono trovato arreso, completamente vuoto e con le carte scoperte. Si apriva davanti a me un mondo che mai avevo immaginato, con te accanto che mi guardavi cercando conforto quando ero io per primo a volerlo da te. Insieme però siamo andati avanti, i litigi non sono mancati quando tornavi tardi la sera anche di pochi minuti ed io ero lì ad aspettarti col giornale in mano e il broncio da perfetto cane mastino. Le nottate passate a discutere sulla poca libertà che ti lasciavo, sull’oppressività che io vedevo come protezione e tu come una gabbia di ferro; i tuoi primi amori che puntualmente scatenavano le mie ire e le tue, desideroso com’ero di cercare il meglio del meglio per te che meritavi l’universo intero. I momenti no, in cui uno solo sguardo, un solo gesto cancellava le incomprensioni e le ansie; le giornate di pioggia passate a chiacchierare del più e del meno come vecchi amici e quelle di sole in piscina o al mare. Ti vedevo sorridere, e quello mi bastava. Di ciò che provavo io, di come mi sentissi non mi importava, bastava solo vedere la tua bocca arricciarsi all’insù e mostrare il sorriso contornato dall’apparecchio ai denti che odiavi tanto.

E i ricevimenti coi professori? Come dimenticarli! Che battaglie instauravamo la sera per i tuoi voti, il tuo comportamento e le misteriose assenze che puntualmente venivano fuori e che tu cercavi di nascondere con bugie. Poi davanti ad una tazza di cioccolata calda tutto si appianava e tornava al suo posto come niente fosse accaduto, mi prendevi per mano, mi sorridevi e mi sussurravi come fosse un segreto nostro “Papà ti voglio bene” intanto che io, per non lasciar trapelare l’emozione di sentire quelle parole, borbottavo sull’ora tarda e su qualche altra scusa plausibile che mi passava per la mente. Non sono mai stato un tipo sdolcinato, e tu lo sai bene, e anche le cose più delicate e felici non riuscivo ad affrontarle come volevo o come credevo. Così è successo la volta in cui mi chiedesti con la tua ingenuità e curiosità come nascessero i bambini. Ripensandoci immagino la mia faccia appena rasata, con gli occhiali da lettura appoggiati sulla punta del naso e il giornale in mano, guardarti perplesso di fronte a tale sfrontatezza. E mentre tu continuavi a guardarmi carica di curiosità, io cercavo di raccontarti con credibilità la storiella della cicogna, convinto comunque che non ci avresti creduto lo stesso e pensando che forse quella del cavolfiore avrebbe sortito un effetto migliore..

I primi discorsi sul sesso sono seguiti subito dopo, con le mie raccomandazioni da padre ansioso e i miei credo riguardo a quel tabù che stavamo forse un po’ prematuramente violando.

Quando te ne sei andata via di casa per trasferirti in un appartamento a causa dell’università lontana, ho fatto la faccia sollevata e allegra dicendo che era l’ora che ti levassi dal "nido". Ma dentro di me la paura di perderti per sempre, di vederti cambiare e non essere lì accanto a te, di vederti fare esperienze, compiere scelte e non poterti aiutare, mi corrodeva l’anima e non mi lasciava dormire. Forse è stata per questa mia bramosia che ho cercato di legarti a me, a cercare scuse per tenerti stretta fra queste braccia che ti volevano sempre bambina. E in uno dei tanti litigi mi hai detto che mi odiavi, che ti avevo rovinato la vita con le scelte prese da solo. Ah come ricordo quelle parole sputate contro di me come se le avessi serbate per anni e anni e quella fosse l’occasione di tirarle fuori! So che non le pensavi e che ti sei pentita subito dopo averle pronunciate -l’ho letto nel tuo volto dispiaciuto- ma mi hanno ferito tanto e ancora oggi ripensandoci me ne vergogno di averti portata solo minimamente a pensare quelle cose.

Non ci siamo parlati per settimane, tu all'università e io a casa a pregare per ricevere una tua lettera o una telefonata che non arrivavano. Ero, e sono tutt'ora, troppo orgoglioso per fare il primo passo, e purtroppo questo è un difetto che ti ho tramandato. E mi maledicevo per quello, mi dannavo il cuore per l'errore che ti aveva allontanata del tutto da me... Poi ti sei presentata alla porta, una mattina di aprile con un sorriso sghembo ed un borsone fra le mani.

Abbiamo parlato per ore e ore che ci sono parsi minuti, abbiamo pianto, riso e scherzato insieme, come una perfetta famiglia unita.

Mentre ora Clara, che ne sarà di me? Mi lascerai di nuovo solo come già hai fatto? Metterai da parte il tuo "vecchio" come una bambola inutilizzata? Il tuo sorriso mentre ti avvicini a me, forse un po' incerta su quei tacchi che mai hai amato e con quel vestito bianco e pomposo, eliminano ogni inutile paura e trattengo a fatica quelle gocce salate, senza vergogna, mentre ti prendo la mano e ti sussurro "Ti voglio bene" portandoti all'altare.

  
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