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Autore: Knight_7    06/07/2022    0 recensioni
Nella mia mente ho sempre paragonato il movimento del respiro a quello delle onde.
Forse perché il mare è il primo ricordo che ho, oltre a una delle pochissime immagini nitide che conservo dei miei primi anni di vita.
L’oceano riempiva ogni mio pensiero all’epoca, perciò non mi sorprende che abbia finito per spazzare via tutto il resto nella mia memoria.
Ora che sono cresciuta è tutto diverso, certo…
Anche se ultimamente ho scoperto che l’immagine delle onde mi aiuta a inspirare ed espirare lentamente quando nel cuore della notte vengo svegliata dagli attacchi di panico.
Ma questo è successo dopo.
Molto dopo.
E forse per evitare che anche l’ultimo briciolo di sanità mentale che mi resta venga sommerso dalla marea, meglio ricordare tutto dall’inizio.
Genere: Avventura, Azione, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clarisse La Rue, Luke Castellan, Nuovo personaggio, Percy Jackson
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!, Violenza
Capitoli:
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Mio fratello nacque nell’assolato pomeriggio del 18 agosto 1993 e mia madre mi obbligò a prenderlo in braccio pochi minuti dopo la sua nascita.
Era orrendo: la pelle scura e tirata per lo sforzo del parto e i pochi ciuffi di capelli neri sulla testa, lo facevano sembrare una versione neonata e non verde del Grinch.
Avvertivo in mia madre un palese senso di apprensione quando mi osservava interagire con Percy. Non le ho mai chiesto conferma, ma sono certa temesse che fossi malvagia anche con lui.
Ma lo amai subito.
Provavo per lui lo stesso senso di protezione che avevo per i cuccioli di tartaruga appena nati, quando li aiutavo a raggiungere il mare, riparandoli dall’attacco dei volatili.
Fino all’età di 14 anni, Percy fu l’unico individuo con cui seppi relazionarmi in modo umano.
 
Mia madre, di contro, iniziò a prendere decisioni che non potevo capire.
Prima tra tutte, il suo atteggiamento di caparbio silenzio davanti alle mie domande riguardanti papà, provocavano in me una furia esagerata.
Dov’era? Perché non potevamo chiamarlo? Era da lui che avevo preso le mie bizzarre capacità marine?
Era diventato per me un’ossessione.
 
Come se ciò non bastasse, la scelta di lasciare, pochi mesi dopo la nascita di mio fratello, il nostro piccolo, confortevole bungalow di Montauk per un pidocchioso, minuscolo, puzzolente appartamento nella caotica e disumana New York.
Abbandonare l’oceano e il rumore delle onde per l’asfalto e il baccano del traffico, fu a dir poco traumatico per me.
E, come se non bastasse, in quel tugurio, non ci andammo a vivere solo noi tre.
Christian Ferdon, il nuovo compagno di mia madre, ci onorò della sua presenza.
Un crudele, fallito giocatore d’azzardo che sperperava tutto i suoi stipendi vivendo sulle spalle di mia madre e trattava tutti noi come fossimo servitù.
 
Non capivo perché mia madre ci avesse costretto a quell’insensato trascolo e avesse aperto le porte al primo idiota di passaggio… perciò mi trasformai in un concentrato di pura cattiveria che sfogai su di lei per ben sette anni.
Oh, facevo certi pensieri…
Non vado fiera di niente, credetemi.
Scoprire ciò che ho scoperto dopo… Nei momenti peggiori mi domando se non mi sono meritata tutto quanto è successo…
 
Scusatemi, ho perso il filo…
 
Ah, si.
Trasferirci nell’Upper East Side sortì almeno un effetto positivo, in quanto gli attacchi dei mostri diminuirono notevolmente. Pensavo che forse, in tutto quel caos, facessero fatica a trovarmi.
 
Ma tutto il resto fu un incubo.
Fui sbattuta per la prima volta in vita mia in una scuola pubblica, completamente ignorante in fatto di regole disciplinari e dinamiche sociali tra coetanei.
Ero un animale selvatico agli occhi di tutti, e c’è da dire che mi comportavo anche come tale: non so quante volte mia mamma è stata costretta a mollare il lavoro a metà giornata per precipitarsi a scuola, convocata urgentemente dal preside perché avevo fatto a botte o mancato di rispetto a un insegnante.
 
Si susseguì una serie inevitabile di espulsioni e sospensioni continue, che mi costringevano a rimbalzare da una scuola all’altra, senza che la situazione migliorasse.
 
Gli unici momenti di serenità che ricordo riguardavano Percy. Vederlo crescere, arrivare ai sette anni, fu l’unica gioia che mi trattenne dal fuggire di casa.
Era così buffo e divertente, non mi stancai mai di giocare insieme a lui, nemmeno quando arrivai a compiere quattordici anni.
Nei giorni di sole, fingevo di accompagnarlo a scuola, quando invece salivamo sul primo treno per Coney Island, dove trascorrevamo la giornata a divertirci sulle giostre e a giocare sulla spiaggia.
Sapevo perfettamente che mi aveva preso a modello, e questo mi spingeva ad assumere un fare ancora più protettivo nei suoi confronti… Soprattutto quando notai che le ombre iniziarono ad allungarsi anche su di lui.
Scoprii molto presto che, oltre all’allegria, il mio fratellino era dotato anche di una sottile intelligenza; iniziò molto presto a notare l’assenza di una figura importante nella nostra famiglia.
Ma mia madre, come ho già detto, non si espresse mai a riguardo, e io non gli raccontai mai dell’unica volta in cui avevo visto nostro padre. Forse volevo che quel ricordo rimanesse solo mio.
 
 
Ad ogni modo… Dov’ero rimasta?
 
Giusto, loro.
 
Nel periodo che precedeva di poche settimane l’inizio delle vacanze estive, tendevo a saltare la scuola più spesso del solito, preferendo bighellonare qua e là per la Grande Mela, piuttosto che rinchiudermi per 6 ore tra mura che sapevo non avrei rivisto l’anno successivo.
E infatti quella mattina la trascorsi a Central Park, sdraiata su una panchina di una zona defilata, al riparo da occhi troppo indiscreti e dalla vigilanza, impegnata a sorvegliare i tratti più affollati.
Quando si fece mezzogiorno, spensi l’audiolibro che stavo ascoltando sul mio Mp3 e mi diressi verso l’uscita più vicina.
 
Sbucarono improvvisamente dalla siepe che si snodava al mio fianco, superandomi di corsa e rischiando di investirmi.
Li scorsi per una frazione di secondo, ma capii che erano quattro ragazzi di età diverse.
Una piccola figura dai capelli biondi veniva trascinata per mano da un ragazzo con una giacca di jeans, seguiti a ruota da un ragazzino che avanzava con un’andatura sbilenca, guidati da una sagoma vestita di nero e dai corti capelli neri.
 
Fu il ragazzino che chiudeva la fila a incontrare il mio sguardo e a voltarsi verso di me per continuare a sostenerlo, quasi arrivando a fermarsi.
 
“Grover, muoviti!” gli comandò con fare autoritario la capogruppo, accortasi del tentennamento del suo compagno.
 
L’attimo seguente erano scomparsi dalla mia vista.
Fu proprio in quell’istante che un brivido mi percorse la schiena e i peli sulle braccia si rizzarono…
Pericolo in avvicinamento.
 
Con la coda dell’occhio notai una scolaresca di liceali passare sul sentiero a un centinaio di metri da me.
Con il cuore in gola, mi precipitai verso di loro, infilandomi nel gruppo e ignorando le occhiatacce che mi rivolsero gli studenti.
Quando mi volsi indietro sentii lo stomaco contorcersi dalla paura.
 
Proprio nel punto in cui mi trovavo fino a pochi istanti prima, un gigantesco verme bianco sembrava intento a annusare l’aria, cosa molto bizzarra dato che non scorgevo neanche l’ombra di un naso, sopra quei suoi due denti affilati e lunghi come spade.
 
Mi ci volle qualche secondo per ricordare una conversazione che avevo avuto con le “Signore dell’Hudson”, ovvero quelle stravaganti entità femminili che incontravo sott’acqua e aiutavo a ripulire il fiume da tutta la schifezza.
Erano preoccupate dell’arrivo di un pericoloso mostro fluviale che era giunto nell’Hudson e minacciava di devastare fauna e flora del fiume e di tutti i suoi affluenti.
Il verme dell’Indo, l’avevano chiamato, o skōlex.
 
Certa che si sarebbe voltato nella mia direzione, costringendomi alla fuga, rimasi parecchio sbigottita vedendolo allontanarsi e in un attimo sparire.
 
“Professoressa!! Qui c’è una ragazzina che non fa parte della classe!”
 
Sentii quella vocina petulante vicina a me come se provenisse da chilometri di distanza, mentre cercavo di metabolizzare una consapevolezza che mi levò il fiato.
Il mostro non stava cercando me.
Ma quell’assurdo quartetto di ragazzini che il destino mi aveva fatto incrociare totalmente per caso.
E ciò poteva solo significare una cosa: chiunque fossero, da ovunque venissero, loro erano come me.
 
Destata dallo sconvolgimento che mi aveva pietrificata, mi lanciai all’inseguimento del verme, estraendo dalla tasca posteriore dei jeans la taglierina che portavo sempre con me.
 
Seguii la scia di bava che aveva lasciato il verme finché non sembro esaurirsi, conducendomi in un angolo remoto di Central Park, il genere di posto in cui non ci si inoltra se non si vuole incappare in spiacevoli incontri.
Mi guardai intorno, senza più tracce da seguire, sentendo l’angoscia crescermi in petto.
 
Poi sentii chiaramente delle urla provenienti dalla mia sinistra.
 
Decisa a non farmi prendere in contropiede, mi arrampicai sveltissima su per il tronco di un albero, arrivando fin sulla cima.
Approfittando della  vicinanza degli alberi, che creavano una fitta coltre di rami che si sovrapponevano l’un l’altro, balzai da una fronda all’altra, diretta verso la fonte delle urla.
 
Arrivai letteralmente sopra l’assurda scena che si stava svolgendo: il gigantesco verme, eretto come un cobra in fase d’attacco, avvolgeva con la sua coda la piccola figura biondina, urlante di paura e dolore, stringendo il suo corpicino in spirali soffocanti.
 
Probabilmente il mostro non era ancora riuscito a uccidere la piccola perché troppo impegnato a difendersi dai due ragazzi che lottavano come disperati, nel tentativo di liberarla.
La ragazza dark cercava di infilzare il verme con una lunga lancia che sembrava essere stata rubata da un museo di storia antica, mentre il biondino colpiva brutalmente ogni superficie del mostro che gli capitava a tiro con una mazza da baseball.
Ma neanche insieme sembravano avere speranze di battere il mostro, che sferragliava colpi di denti lunghi come spade a destra e a manca, sempre a un pelo dal colpirli.
 
“Grover!” urlò a squarciagola e con disperazione il biondino.
 
“Non la trovo!” rispose di rimando il ricciolino che mi aveva fissata poco prima, che notai a pochi metri di distanza dallo scontro, con la faccia a pochi centimetri dal terreno, quasi come se stesse annusando.
 
Ora che ci rifletto, trovo quantomeno curioso come in 14 anni di esistenza avevo faticato a provare un autentico sentimento di affetto per persone che non fossero mio fratello, per poi decidere di mettere a rischio la mia vita per quattro sconosciuti.
Con uno slancio sorprendentemente sicuro e il taglierino aperto nella mia mano, mi buttai di sotto.
 
La lama si conficcò nella testa viscida del mostro e la sentii affondare in tutta la sua lunghezza di una decina di centimetri.
Un grido atroce mi sfondò i timpani, ma rimasi aggrappata al manico del taglierino per istanti che mi parvero giorni, mentre il mostro si contorceva dal dolore e nel tentativo di scrollarsi di dosso me.
 
Ad un certo punto, la coda, che finalmente doveva aver liberato la piccolina dai riccioli biondi, mi scaraventò via.
Volai per lunghissimi secondi, per poi schiantarmi con una forza tale da mandare in frantumi la malcapitata panchina di legno che attutì la mia caduta.
 
Il dolore fu inconcepibile.
Il mio cervello non riuscì neanche a elaborare completamente tutta la sofferenza che stava percependo e tutto intorno a me si fece offuscato.
Il male che si faceva più sentire era quello derivato dal polso sinistro, che era finito intrappolato tra il mio peso e le assi della panchina, rompendosi e piegandosi in un’orrenda posizione.
Il secondo dolore in classifica proveniva dalla bocca e si spiegò quanto sputai una chiazza di liquido rosso insieme a piccoli frammenti bianchi.
Il terzo posto andava ai tagli che mi ricoprivano quasi tutto il corpo e alle schegge che mi si erano infilate sotto pelle, gentile omaggio delle assi spezzate della panchina di legno.
 
Tra la vista annebbiata e i suoni ovattati, ebbi una vaga percezione di ciò che accadde in seguito, ma ricordo distintamente la voce del ragazzino riccio gridare trionfante “TROVATAA!” e, poco dopo, un animalesco urlo di sofferenza.
Mi contorsi, nel tentativo di tirarmi a sedere, con l’unico risultato di perdere i sensi.
 
Le loro voci mi giunsero a tratti.
“…Pazzi?! Chi ci dice che non è semplicemente una mortale in grado di vedere attraverso la foschia?!” domandò una voce femminile.
“Nessun mortale salterebbe sulla testa di un mostro per pugnalarlo con un taglierino, Thalia”
“Luke ha ragione. Ho avvertito la forza della sua aura non appena l’ho guardata negli occhi. Tienile la testa, Luke”
 
Avvertii la sensazione di un liquido caldo e dolce scivolarmi sulla lingua e poi giù nella gola.
Fu indubbiamente il sapore più incredibile e sublime che avessi mai provato.
D’un tratto, le fitte lancinanti che mi tormentavano la bocca si placarano e trovai la forza per sbattere le palpebre.
C’erano quattro sfocate sagome inginocchiate al mio fianco.
 
“Ehi. Non c’è niente da temere, il mostro è morto. Di noi puoi fidarti” mi rassicurò una voce maschile calda e rassicurante.
 
“è sufficiente” Immediatamente, il liquido mi fu sottratto. Cercai invano di oppormi, afferrando il polso di chi mi aveva aiutata a berlo.
 
“Che avevo detto?” domandò gongolante una voce maschile.
“Devo fasciarle il polso con bende imbevute di nettare se vogliamo che guarisca in fretta. Thalia, passami lo zaino”
“Prima voglio sapere chi è e perché ci stava seguendo. Dico a te, riesci a parlare?!” chiese – anzi più che altro ordinò – la voce femminile con tono diffidente.
 
“Mel…” mi bloccai a metà parola, stupita dallo strano suono della mia voce e da una sensazione di mancanza all’interno della bocca.
Tastai con l’indice l’arcata superiore dei miei denti, scoprendo con estrema amarezza di aver perso metà dell’incisivo destro.
 
“Mel?” domandò la voce che doveva appartenere al biondino, ma i miei occhi erano ancora troppo affaticati per esserne certi.
“Melody. Melody Jackson” risposi, provando immenso imbarazzo per il modo in cui parlavo.
 
“Melody, io mi chiamo Luke, lui è Grover. Mentre le ragazze sono Thalia e la piccola Annabeth”
Anche senza metterle a fuoco, riuscii a cogliere un non troppo velato sguardo di antipatia e sospetto provenire da quelle due figure.
 
“Cos’è successo a quel mostro?” biascicai.
 
“Oh, sai quel verme gigante ci ha colti di sorpresa” raccontò Luke “Ci ha fatto fare un bel volo, colpendoci con la sua coda, e ha fatto perdere a Thalia un oggettino parecchio fastidioso per i mostri. Mentre Grover lo cercava, Annabeth è stata agguantata e… non voglio pensare a cosa sarebbe successo se tu non avessi distratto il mostro… Non appena l’hai attaccato, ha mollato la presa su di lei. E subito dopo Grover è riuscito a ritrovare il bracciale di Thalia”
 
“Un bracciale?” chiesi, domandami quale aiuto potesse avergli dato un braccialettino contro un verme gigante dai denti a sciabola.
 
“è una storia lunga, ma dovremmo iniziare dal principio…” replicò Grover.
 
“I mostri quindi cercano di uccidere anche voi?” biascicai.
 
“Direi proprio di si. Non so quanto ti sia stato raccontato, ma fidati che ti stupirebbe sapere che questa è solo una delle molte cose che tutti noi abbiamo in comune” rispose Luke.
 
Fui colpita da quanto quella consapevolezza riscaldò il mio cuore.
 
“è meglio trovare un posto sicuro prima di iniziare lo spiegone”
“Grover! Li abbiamo alla calcagna da giorni, non possiamo permetterci altre deviazioni!” esclamò Thalia.
 
“Io sono un custode e ogni mezzosangue che incontro ha diritto alla mia protezione” rispose Grover con un tono sorprendentemente deciso.
 
“Casa mia non è distante”
 
Non avevo mai invitato nessuno a casa mia. Mai.
Ma con quei ragazzi percepivo un’affinità incredibile, anche nei confronti di quelle due ragazzine un po’ antipatiche, che non mai avevo sperimentato con nessuno.
Mai con mia madre. E neanche con mio fratello.
 
“Bene, facci strada Mel” disse Luke, alzandosi e porgendomi la mano “Avrai un migliaio di cose da chiederci”
 
“Ho passato tutta la vita a chiedere” replicai con amarezza.
Afferrai la sua mano, ma ci volle comunque anche l’aiuto di Grover per tirarmi in piedi.
 
“Allora il nostro incontro non può essersi trattato di un caso, non credi?”
 
Alzai gli occhi su di lui e per la prima volta lo vidi chiaramente.
 
Luke aveva un volto indiscutibilmente bello: con gli occhi celesti e limpidi, i lineamenti affilati e i corti capelli biondi, avrebbe potuto benissimo essere uno di quei ragazzini che assumevano come modelli per linee di abbigliamento under18.
 
Anche lui piantò i suoi occhi nei miei per qualche secondo di troppo.
 
“Allora?! Aspettiamo di essere divorati dalla prossima bestia infernale di passaggio?!” nella voce di Thalia colsi una nota di bruciante frustrazione, che non aveva nulla a che fare con la fretta.
 
Chissà cosa aveva pensato lui, guardandomi per la prima volta così da vicino.
Non gliel’ho mai chiesto.
Non che abbia importanza ormai.
Ma magari se lo avessimo saputo… Forse...
  
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