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Autore: Red_Coat    22/12/2022    0 recensioni
Questa è la storia di un soldato, un rinnegato da due mondi. È la storia del viaggio ultimo del pianeta verso la sua terra promessa.
Questa è la storia di quando Cloud Strife fu sconfitto, e vennero le tenebre. E il silenzio.
Genere: Angst, Guerra, Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Cloud Strife, Kadaj, Nuovo personaggio, Sephiroth
Note: Lime, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Più contesti
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- Questa storia fa parte della serie 'L'allievo di Sephiroth'
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Dopo aver cercato invano rifugio in una Edge in cui sembravano essere calati un silenzio assurdo e una desolazione spettrale, i superstiti del 7th Heaven non ebbero altra scelta che addentrarsi in ciò che rimaneva dei bassifondi, verso l'unico luogo che ritenevano ancora sicuro: La chiesa.
Era logico in fondo. Le strade di Edge erano infestate dagli zombie, che notte dopo notte sembravano moltiplicarsi, e vagavano all'apparenza senza una meta costringendo i pochi abitanti ancora in vita a restare chiusi tra le mura di casa, serrande chiuse e nessuna intenzione di aprire a cui, come gli AVALANCHE, si azzardava a uscire.
Non avevano scelta, comunque. Denzel, di nuovo vittima di un'altra crisi, giaceva incosciente tra le braccia di Barret, facile preda di quelle creature.
Cid non era in grado di combattere, troppo scosso dalla morte della moglie per poterlo fare con lucidità. Se ne stava rinchiuso nel suo silenzio, i vestiti ancora sporchi di sangue, trascinandosi a fatica a causa di una ferita alla gamba inflittagli proprio dallo zombie di Yuffie.
Anche Tifa sembrava non essere più in grado di far nulla, se non proseguire stringendo forte la mano di Marlene, che li fissava, uno ad uno, preoccupata ma senza dire una sola parola.
Gli zombie per ora non si erano spinti fino alla vecchia Midgar, i bassifondi erano "zone sicure" per quanto riguardava quel problema.
In piedi in mezzo alle macerie, la piccola chiesetta si ergeva come un superstite vincente, sfiorata da un fascio di luce del tramonto, proveniente da sopra il piatto, sembrava volerli accogliere con amore.
Cloud Strife se ne stava seduto sui gradini, pensoso, ma quando udì i loro passi alzò i suoi occhi azzurri su di loro e la sorpresa fu autentica, insieme a qualcosa di meno nobile si palesò nel suo sguardo.
Tifa si sciolse in lacrime, lasciando che Marlene su staccasse da lei e corresse ad abbracciarlo.
Il biondo la lasciò fare, ma la sua attenzione fu tutta per i più grandi, che sembravano esausti.
 
«Tifa...» mormorò «Che cos'è successo?»
 
La ragazza scosse il capo. Voleva parlargli, spiegare, ma le parole erano talmente atroci che non riuscì a pronunciarle.
Ci pensò Barret ad aiutarla.
 
«Edge è piena di zombie.» disse torvo «Yuffie è una di loro. Il 7th Heaven non è più un posto sicuro.» disse indicando con un cenno del capo Denzel.
 
Strife guardò il bambino, che aveva appena riaperto gli occhi ma non sembrava ancora cosciente. Poi sospirò, aprendo il portone e facendoli entrare in quella che, di fatto, era diventata casa sua.
Su una delle panche vicino all'altare, un cuscino e una coperta.
I fiori gialli e bianchi che crescevano tra le assi del pavimento emanavano un profumo talmente buono e intenso da aiutare Denzel a svegliarsi completamente.
Mentre era ancora tra le braccia di Barret e lo sentiva parlare con Cloud, vide Marlene inginocchiarsi di fronte ad essi e accarezzarne i petali con le mani.
Tifa, che la osservava da lontano, si nascose il viso tra le mani.
 
«Ti sei sistemato bene.» commentò nel frattempo Wallace, rivolto a Strife, che non rispose, spostando l'attenzione su di lui.
 
Gli sfiorò la fronte sudata, scostandogli da davanti agli occhi una ciocca bionda e sudaticcia.
 
«Come ti senti?»
 
Denzel si sforzò di sorridere.
 
«Sto bene.» disse, mantenendosi positivo.
 
C'era qualcosa in quel luogo che glielo permetteva. Lui non conosceva Aerith né quello che aveva fatto per Cloud e il pianeta, ma se lo avesse saputo di sicuro avrebbe pensato che fosse merito suo. Esattamente come continuavano a fare tutti gli altri, da che erano entrati.
Vide Cloud sforzarsi di sorridergli, poi invitò Barret ad adagiarlo sul suo giaciglio. La panca non era molto comoda, ma la stanchezza era tanta e la febbre era ancora troppo alta. Avrebbe voluto restare sveglio e sentire cosa avevano da dirsi, ma il profumo dei fiori si fece più intenso e fu facile scivolare in un sonno tranquillo e profondo.
E proprio lì, in mezzo ad un bianco accecante e a un prato immenso, La incontrò.
Era una ragazza dai capelli castani, legati in una coda con un grazioso fiocco rosa. Rosa era l'abito che indossava, e aveva due splendidi occhi verdi, pieno di luce ma oscurati da un sottile velo di tristezza che li per lì il giovane non seppe capire.
Lei lo guardò rivolgendogli un sorriso tenere, lui si avvicinò senza paura.
 
«Chi sei?» domandò
«Mi chiamo Aerith.» sorrise la ragazza «E tu?»
 
Finalmente il giovane capì.
 
«Oh, sei quella ragazza di cui parlano sempre tutti. Io sono Denzel.» poi si guardò intorno, scoprendosi affascinato «Abiti qui?»
 
Aerith annuì, quindi apri le braccia mostrandogli i fiori.
 
«Ti piacciono?» domandò.
 
Denzel sorrise.
 
«Sono bellissimi.» annuì.
 
E mentre lui sognava, e nel sogno la giovane Cetra si prendeva cura di lui, la realtà si faceva ogni minuto più spaventosa, come il peggiore degli incubi.
 
«Hey, ragazzo...» mormorò Barret, risvegliando Cloud da un vortice di pensieri funesti «Tifa dice che è per colpa nostra. Che quel pazzo di Osaka sta facendo tutto questo per vendicarsi di noi. La pensi anche tu così?»
 
Cloud s'incupì ancora di più. Non rispose, limitandosi a scuotere il capo.
Lo sentì sospirare, poi lo vide alzarsi e batterli una pacca sulla spalla.
 
«Comunque sia, ora siamo insieme. Combatterlo, e vinceremo anche stavolta. Giusto?»
 
Solo allora, finalmente, Strife sollevò gli occhi verso di lui e lo fissò, senza rispondere.
Combattere? No. No, era finito quel tempo per lui.
Aveva combattuto, aveva ucciso Sephiroth, ora tutto il resto... non poteva continuare a dipendere da lui.
 
«Hey, Cloud...» ripeté Barret, scurendosi «Non avrai mica intenzione di mollarci proprio adesso?»
 
Ma, ancora una volta, il biondo non rispose.
La guerra era finita. Cosa poteva fare lui contro un pianeta morente? Se era destino, perché sperare di cambiare le cose?
Ma, almeno stavolta, non era il solo ad aver perso la voglia di combattere.
Poco distanti, Tifa e Cid osservano assorti il piccolo fuoco che avevano acceso per scaldarsi e cucinare qualcosa di commestibile con le poche provviste che erano riusciti a portar via dal 7th Heaven.
Erano ancora lì, carne arrosto e zuppa in scatola. Nessuno aveva avuto alcun interesse nel toccarle.
 
«Credi che combatterà?» a porre la domanda fu Cid, gli occhi lucidi e il cuore gravato da un dolore sordo.
 
Tifa sollevò lo sguardo prima verso di lui, poi verso Cloud, che in quel momento sembrava fissarli senza vederli, assorto in una conversazione simile con Barret.
Al suo fianco, Denzel dormiva ed era l'unico in grado di sorridere. Stava per rispondere, quando il lupo cantò di nuovo e tutti si fermarono a fissarsi, scambiandosi sguardi colpevoli.
Fu allora che, stufo delle chiacchiere, Cloud uscì, senza dare spiegazioni.
Tifa lo guardò allontanarsi e soffocò un singhiozzo.
 
«Maledetta bestiaccia! Lasciaci in pace!» sbottò Barret, riempiendo di insulti un punto imprecisato del cielo sopra di loro, sempre più scuro.
«Lascia perdere, amico...»  mormorò laconico Cid «Non credo che riempirlo di parolacce servirà a farlo smettere.»
 
In realtà, però, non era con il lupo che Wallace se l'era presa così tanto.
 
«Come può continuare a fregarsene?!» brontolò, avvicinandosi a loro e sedendosi sulla panca accanto all'aviatore «Basterebbe un niente per far finire tutto. Uccidere Osaka e vendicare tutti i morti. Niente più lupo, niente più zombie, e finalmente potremmo provare a vivere come si deve!»
 
Tutti conoscevano bene la risposta, ma nessuno osò parlare. Tifa strinse di più a sé la piccola Marlene che gli dormiva tra le braccia, e di nuovo notò che lei e Denzel sembravano essere gli unici immuni dal canto di quella creatura.
 
«Non lo farà mai...» sussurrò, talmente tanto flebilmente da non essere neanche udita.
 
"Lui … non è più lo stesso Cloud della promessa. Sephiroth e Victor alla fine ci sono riusciti a cambiarlo. Aerith … non sono riuscita ad impedirlo. Mi spiace …"
L'ennesimo rimpianto. L'ennesima crepa in quell'ultimo, fragile scudo di speranza.
 
***
 
Durante i suoi lunghi anni di militanza nei Turks, tra i doveri che aveva compiuto con devozione e solerzia senza mai sottrarsi c'era stato il reclutamento dei SOLDIER e degli uomini destinati all'esercito.
Ne aveva visti davvero tanti, Tseng. Ragazzi giovani, coraggiosi, forti, ansiosi di sfoggiare una bella medaglia al valore e di narrare agli amici le loro grandi imprese.
Ogni volta era come vedere un branco di pecore avviarsi al macello, verso la fine era diventato anche abbastanza bravo a capire quale sarebbe stata la loro fine.
Zack Fair, Genesis Rhapsodos ed Angeal Hewley, Cloud Strife e perfino tutte le reclute di Osaka.
Ma Victor... lui era già a Midgar, non aveva avuto bisogno dell'aiuto dei Turk per arruolarsi, così come era successo con Sephiroth.
Gli unici due SOLDIER che non erano passati dal suo sguardo attento erano ora gli unici responsabili del dolore più atroce che avesse mai provato, un tipo di dolore che esplode all'improvviso e divora tutto, ossa, nervi, carne.
Mentre con un sogghigno sadico Victor Osaka riversava l'ennesima fiala di siero nelle sue vene, infilando nella carne tumefatta del suo braccio un ago lungo e ben appuntito, gli sembrò quasi di vederli tutti quei morti; sfilavano di fronte a lui, uno dopo l'altro, e lo ascoltavano gridare fissandolo con sguardo serio, quasi accusatorio.
Le sue urla si confondevano a quelle di Elena, che gli era accanto.
Entrambi legati per i polsi alla fredda parete di uno scantinato, entrambi ridotti a mere ombre di sé stessi.
Oramai non riuscivano nemmeno più a ricordare quanto tempo fosse passato dall'inizio di quel calvario, la loro mente si era disconnessa da tutto tranne che dal dolore, che continuava a rimanere perfettamente udibile.
Era volontà di Osaka, era lui a muovere i fili.
La prima puntura era stata preceduta da un avvertimento. Gli aveva mostrato Elena in preda agli spasmi del dolore e una scatola piena di siringhe in cui galleggiava quel liquido verdastro responsabile dei poteri dei SOLDIER.
Lo conosceva bene. Solo i corpi più resistenti diventavano SOLDIER, solo agli uomini ritenuti tali dopo ripetute analisi veniva concesso il "lusso" di raggiungere quella fase, che avrebbe acceso i loro occhi di Mako e pompato i loro muscoli.
Ovviamente, nessun Turk aveva superato quella selezione, neanche lui. Victor invece non aveva neanche avuto bisogno di antidolorifici, perché la sua resistenza al dolore, come tutto il resto, era inumana.
 
«Allora, Tseng. Sei pronto a diventare uno di noi?» gli aveva domandato, mostrandogli la punta della siringa scintillare nell'oscurità.
 
Un ghigno famelico si era dipinto sulle sue labbra.
 
«Ovvio che non lo sei.» aveva replicato «C'è un motivo se vi pagano di più no?» ridacchiò, poi si fece più torvo e impugnò la siringa come fosse un pugnale, il pollice sulla testa piatta del pistone «Ora, bel cagnolino, fa il bravo, perché ti avviso che non mi fermerò fino a che l'ultima siringa di questa scatola non sarà vuota.»
 
Quindi con un gesto rapido gli aveva conficcato la siringa nel collo e aveva spinto il liquido verdastro fino all'ultima goccia nelle sue vene.
Il sangue aveva iniziato a pulsare, bruciante come lava, i polmoni ad annaspare alla ricerca di aria e ogni cosa si era fatta più nebulosa, annebbiata da un dolore mai provato.
Victor, implacabile, aveva assistito a quello spettacolo senza fiatare, solo godendoselo, guardandoli dimenarsi come serpenti colpiti a morte, un sorriso sadico sulle labbra e l'arma del delitto ancora stretta in mano.
Aveva mantenuto la promessa. Una siringa dopo l'altra, erano finite tutte e trentasei sul pavimento, e adesso a Tseng ed Elena, sfibrati, sfigurati e fradici di sudore, non attendevano che la morte come unica soluzione al loro dolore.
Ma se a loro non era concesso sapere quanto fosse il tempo trascorso in quelle condizioni, Victor e i suoi fratelli invece lo sapevano bene.
Un giorno e mezzo. Una siringa ogni due ore.
Ora i corpi dei due Turks erano quelli di due mostri, deformati dal Mako. Gobbi, tozzi, gli occhi quasi fuori dalle orbite ma luminescenti di luce verdastra.
Sulle spalle e sulle braccia, i muscoli erano cresciuti diventando rozze e impressionanti escrescenze. Questo quanto riguardava Tseng, perché purtroppo per Elena non c'era più nulla da fare.
Troppo giovane. Troppo fragile.
 
«Wow...» osservò Loz, affascinato, accostandosi al fratello maggiore e osservando i due cadaveri ambulanti.
 
Kadaj si fece avanti, ponendosi alla destra del suo Niisan, che se ne stava in piedi su di loro, impettito e invincibile, con un sorriso fiero sulle labbra e un luccichio quasi commosso negli occhi.
 
«Niisan...» gli disse «per quella lì c'è poco da fare. È morta.»
 
Di colpo, Tseng parve rianimarsi. Si agitò facendo tintinnare le catene e muovendosi verso di lei.
 
«No! Elena...»
 
La sua voce, un tempo limpida e piacevolmente baritona, sempre calma e moderata, ora suonò grottesca, cavernosa, quasi inumana.
Una risata. Esplose dalla gola di Victor e si propagò rimbombando nel vuoto di quella camera delle torture.
Victor stava ancora finendo di ridere sprezzante quando la bestia che aveva preso il posto di Tseng gli si rivoltò contro, incurante delle catene, cercando un modo per afferrargli il collo e stringere fino a strapparglielo dal resto del corpo.
Non gli riuscì, perché le catene erano troppo corte e i suoi nuovi muscoli ancora troppo poco allenati per poterle spezzare.
Allora, come un bambino, iniziò a piangere.
E questo bastò a Osaka per sentirsi soddisfatto.
 
«Mh?» mormorò, schernitore, inclinando di lato il capo «Che c'è, cagnolino? Non mi dire...» ridacchiò di nuovo, prendendosi gioco di lui «Che ti dispiace per lei? Oh, stai piangendo?»
 
Sconfitto, nel corpo e nell'anima, Tseng cadde in ginocchio, e con quella voce deformata dalle torture subite mormorò, anzi supplicò senza più dignità
 
«Uccidimi...»
«Che dici?» domandò ancora questi, inclemente.
«Uccidimi, maledetto Osaka!!» urlò, sprofondando le mani nerborute nei capelli neri e tirando, quasi fino a strapparseli «Uccidi, e falla finita. Ti prego...»
 
Il ghigno sulle labbra di Osaka tornò. Oh! Oh, quale meravigliosa melodia per le sue orecchie. Il cagnolino chiedeva finalmente pietà. Eppure, non era sufficiente. Non lo sarebbe mai stato per un cuore così traviato dall'oscurità e dal dolore.
Lui. Quante volte aveva chiesto pietà, lui. Quante aveva implorato quei maledetti Turks e la Shinra di lasciarlo andare, di lasciargli vivere il suo destino di padre, stringendo tra le braccia suo figlio e abbeverandosi dell'amore di sua moglie.
Ma no, non era stato ascoltato. Perché lui era un SOLDIER. Proprietà della Shinra. Legato per sempre da catene invisibili che gli avevano impedito di salvare coloro i quali aveva amato di più.
E adesso... adesso la Shinra era morta, era stato lui a permetterlo.
I suoi scagnozzi, gli ultimi rimasti, giacevano agonizzanti ai suoi piedi e chiedevano pietà allo stesso modo. Ma, proprio come avevano fatto loro con lui, gliel'avrebbe negata.
Anzi... non si sarebbe limitato solo a negargliela.
Il ghigno sulla sua faccia divenne una smorfia, un ringhio famelico.
Guardò Kadaj e Yazoo, e con un semplice cenno del capo ordinò loro di muoversi.
Senza esitare, i due obbedirono costringendo ciò che rimaneva del turk ad alzarsi in piedi, mentre un filo di lifestream saliva sibilando come un serpente verso il suo collo, legandosi attorno al suo collo e iniziando a stringere.
Solo allora, un passo davanti all'altro, Victor Osaka prese ad avanzare, fino ad essergli talmente vicino da poterlo guardare negli occhi.
Quegli occhi da bestia, colmi di rimpianto, dolore e rabbia. Ecco. Ecco chi erano alla fine i Turks. Tutti loro. Bestie pronte a scattare al minimo sentore di sangue. Come chi li aveva creati.
Allungò una mano ad afferrare la delicata elsa del pugnale, quindi avvicinò le labbra all'orecchio della sua vittima e mormorò, come ultimo atto di sfida.
 
«Se stai pregando, dovresti essere in ginocchio.»
 
E solo allora, senza nemmeno dargli il tempo di realizzare, affondò il primo colpo, abbandonandosi ad una furia omicida nata dal rancore e dall'odio più profondo, usando tutta la forza di cui i suoi muscoli da SOLDIER erano capaci.
Una, cinque, venti pugnalate, fino a che al turk non restò più fiato per urlare.
Cadde in ginocchio, reclinando il capo e arrendendosi alla morte. Solo allora il filo di lifestream strinse sollevandolo in aria e proiettando con la sua luce sinistra la sagoma di un impiccato alle sue spalle.
Un ultimo urlò rabbioso, un’ultima scarica di adrenalina. Poi lo lasciò ricadere a terra e nel guardare quei due corpi ormai esanimi riuscì finalmente a trovare conforto.
Guardò il pugnale sporco di sangue. Era stata Hikari a donarglielo, con la promessa che lo avrebbe usato per difenderli, o vendicarli.
Ora, finalmente, poteva dire di averlo fatto.
Reno, Hojo, Tseng, Rude. La Shinra. La lista era ancora lunga, ma l'uccisione di quei due Turks le aveva dato inizio.
L'apocalisse era stata la vendetta di Sephiroth. Questa... sarebbe stata la sua.
 
«Niisan...» la voce di Kadaj lo riscosse.
 
Tenero, cauto, quasi temesse di disturbarlo.
Come destato da un sogno, Victor si riebbe, guardandosi intorno e riscoprendosi tremante. Gli occhi lucidi, il viso arrossato, le mani sporche di sangue.
Guardò i cadaveri con aria distaccata, poi suoi fratelli, che attendevano una risposta.
Sorrise sincero, poi stancamente con gesti semplice e calibrati catturò quelle anime e le incatenò per sempre ai loro corpi e alla sua volontà.
Quando ebbe finito, gli zombie dei due Turks li fissavano ancora legati alle loro catene, senza più nessun sentimento negli occhi, le zanne che chiedevano sangue.
Sospirò, passandosi una mano tra i capelli.
 
«Sono stanco.» risolse semplicemente, voltando loro le spalle e riprendendo a salire le scale che portavano al piano di sopra.
 
A metà strada però si bloccò.
 
«Kadaj» ordinò.
«Niisan...» rispose questi, restando in attesa.
 
Lo vide sorridergli, in un modo diverso da tutte le altre volte. Come se avesse... trovato pace.
 
«Ne rimane uno.» gli disse, perentorio «Segui il piano. Domani gli restituiremo i suoi cagnolini... tutti quanti. Ora però ho bisogno di un bagno, e una sigaretta.»
 
Kadaj si limitò a sorridere e annuire, guardando i suoi fratelli con loquacità.
 
«Riposati, Niisan.» rispose «Al resto ci penso io.»

    

Tseng & Elena
 
***
 
L'alba giunse lenta e inevitabile, risplendendo sul tetro paesaggio di una Edge già fantasma, ed emettendo bagliori sinistri sull'acciaio e il vetro dei palazzi in costruzione.
Rufus Shinra si ridestò di colpo, il cuore in gola e una pessima sensazione a mozzargli il respiro.
Si era addormentato dopo l'ennesima crisi febbrile dovuta al geostigma, nei suoi sogni Sephiroth e il suo fratellino Victor Osaka avevano preso a tormentarla ma purtroppo non era riuscito a svegliarsi, stranamente impossibilitato.
Ora, riaprendo gli occhi di colpo e mettendo a fuoco i dintorni, si rese conto del perché.
Si trovava ad Edge, nella periferia ancora in costruzione, ai piedi dello scheletro di un palazzo mai terminato e che avrebbe dovuto, in futuro, ospitare i nuovi uffici della compagnia formata dall'unione di WRO e Shinra.
Ora di quel progetto non restava che un cartellone sbiadito a ridosso dell'impalcatura che senza rivelare molto recitava
 
"Edge, uffici amministrativi.
Ripartiamo in sicurezza, ricostruiamo insieme la nostra casa."
 
Il portone blindato ancora avvolto nel cellofan era aperto, ma da fuori non si scorgeva che l'oscurità. Da essa, all'improvviso, qualcuno emerse.
Era un'ombra lunga e nera, la cui unica macchia di colore era la lunga ciocca bianca che sfiorava due magnetici occhi felini, pregni di Mako.
Rufus Shinra strinse i pugni
 
«Osaka...» mormorò.
 
Questi sorrise.
 
«Ben svegliato, Rufus.» lo accolse «Devo essere onesto, sono deluso. Credevo di essere almeno riuscito a toglierti il sonno a questo punto. Invece sembravi proprio assorto...»
 
Shinra ghignò appena.
 
«Devi avermi sottovalutato.» gli rispose «È un errore comune, non fartene una colpa.»
 
Spezzando il lugubre silenzio che li circondava, Victor Osaka ridacchiò, annuendo e compiendo qualche passo verso di lui.
 
«Forse non lo avrei fatto se tu non avessi deciso per quel patetico travestimento.» lo sorprese, indicando la sedia a rotelle.
 
Solo allora Rufus si accorse delle altre tre ombre che lo stavano ad ascoltare.
Si fecero avanti, emergendo dall'oscurità, e nelle mani di uno di loro l'ultimo erede della Shinra vide la scatola nera che conteneva i resti di Jenova.
Sgranò gli occhi, sorpreso. Cosa? Quando gliel'avevano sottratta?
Come leggendogli nel pensiero, Victor si fermò proprio di fronte a lui e lo invitò, mostrandogli l'ingresso aperto dell'edificio alle sue spalle.
 
«Allora, Shinra. Pronto ad un'altra piccola sorpresa?»
 
Era chiaro che volesse invitarlo a entrare in quel buco nero, ma Rufus non aveva alcuna intenzione di arrendersi così. Qualsiasi cosa lo attendesse all'interno di quelle mura, sarebbe stata la sua rovina. Finse di non aver capito, ma Victor non ci cascò.
Estese il suo ghigno e soggiunse, senza perdere la calma.
 
«Coraggio, Rufus. Ti avevo promesso di restituirti il mal tolto, e io mantengo sempre le mie promesse. Non sei ansioso di riabbracciare i tuoi cagnolini?»
 
Senza che potesse evitarselo, un brivido percorse la sua schiena.
Occhi negli occhi, si sfidarono ma lui perse rovinosamente.
Intanto, Kadaj si era avvicinato e all'improvviso afferrò le maniglie e prese a spingere.
Rufus fece per alzarsi, ma si riscopri intrappolato. Bende e corde robuste ancoravano polsi e caviglie al ferro della sedia, e per quanto si agitasse non riuscì a liberarsene.
Dovette arrendersi, e lasciare che il più giovane delle tre ombre lo scortasse fin dentro all'edificio.
Una volta lì, Victor chiuse la porta dietro le loro spalle e senza parlare Kadaj distrusse i legacci, ma prima ancora che Rufus riuscisse ad attaccarlo svanì, lasciandolo solo al buio.
Era spettrale, le tenebre erano fitte e il silenzio carico di tensione.
Tre forti colpi provenienti dall'esterno lo fecero sobbalzare.
 
«Allora, Rufus. Ti va di giocare?» lo schernì divertito l'ex SOLDIER «Questo è un labirinto, la tua missione sarà uscirne, e il tuo premio...» fece una pausa, ghignando perfidamente «Il tuo premio sarà la tua vita. Divertente, no?» ridacchiò di nuovo, seguito dagli altri tre.
 
Sospirò, voltandosi e affrontando a viso aperto il buio. Premio, certo. Ridotto ad un topolino in gabbia, proprio lui, che aveva fatto della paura un'arma e dell'orgoglio una ragione di vita.
Ora era rimasto solo, povero in canna, e cosa peggiore umiliato, ferito nell'orgoglio e con le sue stesse armi. Sentì il nervosismo e l'ansia salire, e aveva già fatto qualche passo in avanti quando una raffica di proiettili colpì l'acciaio della porta, facendolo sobbalzare. Da dietro lo stipite sentì due dei tre fratelli di Osaka ridersela, immaginandolo sobbalzare per la sorpresa e lo spavento.
Si lasciò sfuggire un sospiro innervosito, quindi iniziò a camminare, cercando a tastoni di avanzare verso le scale senza incespicare.
Erano dodici piani, le luci di emergenza non erano ancora state montate e tutte le serrande che coprivano i vetri delle vetrate erano state abbassate.
Era buio pesto, c'era un silenzio strano e teso.
Scalò due piani senza alcun problema, ma arrivato al terzo qualcosa lo fermò.
C'era sangue ovunque, una scia scura che tracciava sul linoleum del pianerottolo una sorta di sentiero da seguire. Impronte insanguinate riempivano le pareti, per terra erano sparsi oggetti a lui familiari: occhiali da aviatore, una ciocca di capelli rossi, un manganello elettrico, e un tesserino insanguinato. C'erano ossa ovunque.
Sulla porta dell'ascensore, non funzionante, scritta col sangue e ricalcata con vernice fluorescente, campeggiava la frase: “Buona crisi, e felice paura nuova.”
E mentre lui restava a fissare attonito quello spettacolo, pensando con una certa sorpresa a quanto Osaka si fosse impegnato per renderglielo macabro, qualcuno lo afferrò da dietro le spalle e lo scaraventò a terra con violenza, ruggendo.
Fece appena in tempo a riprendersi dallo shock, afferrò la pistola e sparò, ritrovandosi davanti lo zombie fatiscente di Reno che rispose all'attacco ruggendo e gettandogli addosso i suoi lunghi artigli.
Imprecò, rialzandosi e affrettandosi a salire le scale al piano di sopra, dove sperava di trovare un rifugio in una delle stanze vuote.
Ne scelse una a caso e ci si fondò, richiudendo la porta dietro di sé appena in tempo per evitare un'altra aggressione.
Lo zombie lasciò la sua impronta sullo stipite, ma dopo aver ringhiato un altro po’ si trascinò nuovamente al piano di sotto, tornando a fare la guardia alle sue cose.
Sudato e affannato, Rufus Shinra si diede un attimo per riprendersi, appoggiandosi alla parete vuota alle sue spalle.
Ispirò grandi sorsate d'aria, ma si accorse solo allora dell'odore pernicioso e rivoltante che la riempiva, rendendola irrespirabile.
Era... odore di cadavere in decomposizione. Storse il naso e se lo coprì con la manica della camicia dallo specchio posto nel corridoio che affacciava sulla stanza successiva vide la causa di quel tanfo: Erano cadaveri in divisa da fanti e SOLDIER, alcuni messi a sedere sul pregiato divano in pelle, altri impiccati con ancora le loro armi in mano.
I loro volti erano irriconoscibili, ma la scritta che fungeva da tappeto d'ingresso al soggiorno era già abbastanza eloquente: "Benvenuto nella realtà".
Alzò gli occhi al cielo e decise che non sarebbe rimasto in quella stanza un minuto di più
 
«Oh, sul serio?» si lamentò, quindi aprì la porta e tornò a salire le scale, abbandonando quel piano.
 
Lo accolsero altri due pianerottoli pieni di cadaveri, alcuni con la divisa della WRO, altri vestiti da impiegati del HQ. Alcuni di essi portavano ancora al collo il distintivo che li contraddistingueva. "Alina S. (receptionist)" "Haru K. (impiegato d'ufficio)".
Osservando con molta attenzione, sui corpi di alcuni di loro si potevano ancora scorgere i segni del geostigma. Sotto i loro corpi, un'altra scritta fluorescente recitava: "La guerra dei ricchi, il sangue dei poveri."
Tutta quella macabra messa in scena era semplicemente assurda.
 
«Smettila d'incolpare gli altri per il tuo dolore, Osaka. Sei ridicolo...» mormorò, salendo di corsa l'ennesima rampa di scale.
 
Stavolta, ad accoglierlo trovò lo zombie senza occhi di Reeve, che lo attaccò senza dargli tempo di fuggire.
Gli fece volare di mano la pistola, quindi nel tentativo di bloccargli la fuga gli afferrò le gambe e tirò fino a farlo urlare di dolore.
Forse fu l'adrenalina, forse la rabbia o la paura, ma nonostante lo shock, le ferite e le ammaccature riuscì a reagire, sferrando un calcio allo zombie con la gamba libera e così liberandosi dalla sua mortale e disgustosa presa.
Con un altro doloroso attacco, il geostigma si fece sentire. Qualcuno rise di gusto nella sua testa, erano Victor e suo fratello, il grande Sephiroth.
"Ti stai divertendo, Rufus? Era questa la paura che intendevi usare contro di noi?" chiesero, e non seppe dire se Victor l'avesse fatto davvero o fosse solo un'illusione.
Di sicuro no, non si stava affatto divertendo.
Si rialzò a fatica, prima che lo zombie di Reeve riuscisse a individuarlo di nuovo, e si precipitò su per le scale trascinandosi. Ignorò il dolore e qualsiasi altra cosa, frappose quanta più distanza poteva tra lui e i pericoli che si era lasciato alle spalle, ma quando finalmente riuscì ad arrivare all'esterno, dove la luce del sole sfolgorava sui tetti di una Edge morente, si rese conto di essere davvero arrivato alla fine.
Non solo del labirinto, ma della sua intera vita.
Gli zombie che aveva già affrontato gli sbarrarono la strada, facendo squadra e bloccandogli il passaggio verso la porta alle sue spalle.
Davanti a lui, i cadaveri ambulanti di Rude, Elena e Tseng avanzavano verso di lui con un ghigno tirato sul viso e i muscoli pronti a scattare.
Non li avrebbe riconosciuti, non fosse stato per i loro tesserini ancora ben visibili sul taschino delle divise.
Tseng era diventato un mostro ricurvo e pieno di   muscoli, gli occhi fluorescenti di Mako, un profondo squarcio al ventre che probabilmente era stata la causa delle sua morte.
Elena camminava trascinandosi, lunghi artigli neri e il volto pallido come un cencio, le ciocche bionde sporche di sangue e attaccate al cranio.
Dietro di loro, Victor Osaka lo fissò soddisfatto, godendosi ogni istante di quella macabra Reunion, mentre lo strano medaglione ben in vista sul suo petto brillava emettendo sinistri bagliori.
Guardando la propria immagine riflessa negli occhi vitrei dei suoi turks ormai ridotti a carcasse putrescenti, Rufus vide il suo volto pallido e i suoi occhi invasi da una paura folle.
Osaka ghignò di nuovo, quindi alzò una mano, e all'istante gli zombie si bloccarono. Rufus scattò sulla difensiva, ma non successe nulla. Quelle orride creature seguitarono a fissarlo in cerchio con espressione vacua.
Felino e marziale, un passo davanti all'altro, Victor Osaka si portò alla loro spalle, appoggiando una mano sulla spalla di Tseng e una su quella di Elena, e guardandoli per poi fissare lui come si fissa un bambino che ha appena ricevuto il suo regalo.
 
«Ottimo lavoro, Shinra.» si complimentò «Hai risolto il rebus del labirinto. Ora...» fece un passo indietro, staccandosi dalle sue marionette e allargando onnipotente le braccia «Saluta i tuoi demoni, perché è con loro che te ne andrai.»
 
Quindi, come una scure calò il palmo aperto verso terra e, senza dargli il tempo neppure di rispondere, lanciò contro di lui i suoi mostri, restando ad ascoltare le sue urla disumane e a osservare il suo patetico tentativo di fuga e lotta, e la sua orrenda fine.
Rufus Shinra morì all'alba, come qualcuno che aveva ancora molto da dire e fare, ma che aveva consumato tutto il tempo a disposizione. Divorato dai suoi vecchi amici, fratelli e sottoposti, dilaniato dalla paura e dalle zanne affilate di quei morti che in fondo aveva sempre avuto sulla coscienza, mentre il geostigma riempiva la sua mente delle risate dei suoi assassini, i figli di Jenova.
Del suo corpo non rimasero che brandelli di ossa e la stoffa dei vestiti insanguinata, il suo ricordo fu dapprima intrappolato assieme agli altri in una delle gemme del medaglione, poi polverizzato, completamente disintegrato assieme al resto delle anime che lo avevano accompagnato. Come se non fosse mai neppure nato.
Tutti le anime rese zombie, consumate da quell'incantesimo, bruciarono fino a estinguersi, e finalmente, proprio come aveva promesso, Victor poté assaporare la gioia di una vendetta completa.
Guardò il sangue sul pavimento del tetto sul quale stavano, poi alzò gli occhi verso il sole nascente.
Una lacrima sfuggì al suo controllo, assieme a un lungo sospiro sollevato.
 
«Guarda, Kadaj...» disse, sorridendo, rivolto al più piccolo dei suoi fratelli, che se ne stava al suo fianco stringendo forte la scatola nera contenente tutto ciò che restava della Madre «Guarda bene. Respira... questa è la prima alba di un mondo definitivamente libero dalla Shinra. La prima... prima della tramonto del mondo.»

 

Rufus Shinra
   
 
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