Titolo: Limiti (3)
Autore: Jason_Trth
Hrtz
Fandom: Katekyo
Hitman REBORN!
Pairing: nessuno/D18
(accennato)
Rating: arancione
Parole: 2674
Avvertimenti:
violenza, contenuti delicati, Older!Kyoya
(34 anni), Older!Dino (38 anni), accenno Female!OC (21 anni).
Disclaimer: Questi personaggi non mi
appartengono, sono proprietà di Akira Amano
Note: ho specificato le età,
perché in futuro ritorneranno utili alla comprensione di queste tre OS
collegate tra loro.
Ho già pubblicato “Limiti (1)” e ora sto pubblicando
“Limiti (3)”. La parte 2, l’intermezzo della vicenda, verrà pubblicato in
seguito.
Mentre scrivevo la prima OS di questo filone, continuavo
ad aggiungere headcanon e OC, quindi, per non
snaturare fin troppo la natura dell’opera originale (Katekyo
Hitman REBORN!), mi sono assicurato di separare i
progetti e sviluppare queste OS in un modo, mentre il resto di quello che avevo
in mente l’ho tramutato in Originale e quindi mi sto dedicando a creare tutto
il resto da zero. Le Originali di questo tipo richiedono molte ricerche, e non
sarà mai comunque abbastanza. Bisogna farsene una ragione, a un certo punto.
Le età le ho messe già da ora per far capire anche a
eventuali lettori futuri che queste tre OS sono effettivamente collegate tra
loro. Le note dovrebbero bastare a chiarire il concetto, ma ho preferito
specificarlo anche negli avvertimenti per un mio desiderio personale di
“completezza” espositiva.
Mi rendo conto che qualcuno lo troverà ridondante o non
necessario.
Vi avrò annoiato già abbastanza con queste note
chilometriche, vi lascio alla lettura di questa OS e spero che vi sappia tenere
compagnia.
Buona lettura!
Jason.
P.S.
Ci tengo a specificare che la OS non è stata betata.
LIMITI (3)
L’uomo era appeso a
mezz’aria con un cappio al collo e solo la punta delle scarpe nere lucide a
offrirgli l’illusione che la sua morte potesse essere rimandata. Un sorriso sghembo
e sporco del suo stesso sangue e vomito, colato fino al mento, gli donava
un’aria di stupida caparbietà.
Sarebbe morto. Lo sapeva
lui e lo sapeva Hibari, il suo “aguzzino”, eppure l’uomo sembrava non voler
ancora cedere alle lusinghe della morte.
—ooOoo—
Quella stessa mattina,
sul presto, Hibari aveva scoperto l’ubicazione dell’uomo e lo aveva prelevato
seduta stante. Lo aveva condotto lontano dal paese di provincia in cui l’uomo
era andato a salutare i genitori defunti. L’unico motivo per cui Hibari poteva
essere certo di ciò, era perché in quei minuti quella parte del cimitero era
vuoto e il vento stava soffiando a suo favore.
L’attimo prima, l’uomo stava
cambiando i fiori a sua madre, bisbigliandole carinerie in un forte accento
dialettale—tipico di una regione specifica del Sud Italia, Hibari lo aveva
sentito troppo spesso per non saperlo riconoscere immediatamente. L’attimo
dopo, con un colpo a sorpresa dritto in faccia, l’uomo si era ritrovato disteso a
terra: incosciente. Hibari lo aveva trascinato di peso lungo il terreno
argilloso del cimitero, fino ad arrivare al cancello secondario.
Aveva incontrato poche
persone nel suo tragitto a ritroso, ma solo una di queste sembrò infilare di
soppiatto una mano nella tasca frontale della felpa oversize che stava
indossando. Probabilmente per prendere il telefono e filmare l’accaduto o
chiamare aiuto. Hibari non se ne era curato. La sua furia era ancora ai massimi
livelli, e, a dispetto di quel che il giovane se
stesso avrebbe pensato, non poteva sfogarla su una ragazzina innocente che
credeva di star facendo la “cosa giusta”.
Non lo aveva sorpreso
neanche il fatto che, al contrario, le altre persone, per lo più anziane, avevano
tenuto la testa bassa o non si erano degnate di sprecargli nemmeno uno sguardo;
da fornire eventualmente alle forze dell’ordine che sarebbero arrivate.
Sempre che si fossero
degnate di arrivare.
Per esperienza personale,
Hibari sapeva che spesso non arrivavano mai quando c’era davvero bisogno di
loro. Supponeva che tutto il mondo fosse paese anche in casi del genere. Se la
Giustizia fosse tempestiva, e davvero giusta, non sarebbero nate le Famiglie come
quelle dei Vongola.
Mentre si lasciava il
cancello dalla superficie arrugginita alle spalle, si era messo a riflettere
sui dettagli della scena di poco fa, prima ancora che tramortisse l’uomo.
A meno che quello non
fosse stato il suo patrigno, il cognome sulla lapide del defunto, posizionato
accanto a quello della donna a cui, in precedenza, l’uomo si era riferito con “mammà”,
era lo stesso che Hibari aveva sentito pronunciare al telefono dall’uomo che Hibari
aveva ucciso all’inizio della missione di recupero di Cavallone Decimo.
Il tizio, quello che si
era rifugiato con l’amante in una villetta di campagna la Vigilia di Natale,
sapeva essere il nipote di uno degli uomini di Cavallone. Il cognome ero lo
stesso, le tempistiche erano sospette, e il tutto sembrava collegarsi tra un
filo teso e l’altro.
Doveva essere successo
tutto in quello stesso giorno.
Lo stesso giorno in cui
Cavallone Decimo era stato rapito dal suo letto di ospedale, lo stesso giorno
in cui Hibari aveva perso il conto delle persone uccise per arrivare al
responsabile di quell’affronto alla Famiglia Cavallone.
Tecnicamente dovevano
essere gli uomini di Cavallone a occuparsi della cosa, i Vongola potevano
offrire supporto, ma Hibari non era mai stato alle dipendenze e ai desideri di
nessuno. Faceva solo quello che voleva e interessava a lui.
Se i suoi desideri, i
suoi piani, si incrociavano con quelli dei Vongola e dalla collaborazione
poteva risultarne qualcosa di favorevole per lui: bene, altrimenti andava per
la sua strada e chiunque si mettesse in testa di ostacolarlo non arrivava
incolume al giorno successivo.
Per certi aspetti, lo
avevano spesso accomunato a Mukuro Rokudo, il Guardiano della Nebbia della Famiglia Vongola,
eppure Hibari non sentiva di condividere granchè con
quel maledetto illusionista barocco.
I loro metodi erano
diversi, così come le loro motivazioni personali scaturivano da necessità ed
emozioni diverse. Tuttavia, se c’era una cosa che il tempo aveva guarito in
lui, era proprio il desiderio di essere capito dagli altri.
Fin dall’infanzia, attraverso
l’adolescenza, non si era mai sentito capito, apprezzato, o voluto, se non per
essere sfruttato, quindi aveva presto capito che il mondo in cui viveva non
sarebbe mai stato in grado di offrirgli neanche una carezza sul viso umido di
lacrime e sangue.
Arrivato a una certa età,
ormai era troppo tardi per piangersi addosso. L’unica soluzione che aveva
trovato era stata quella di allontanare tutti e vivere da solo, seguendo le sue
regole.
Durante le sue missioni,
ordine e disciplina lo aveva tenuto lucido, senza farsi distrarre da
sentimentalismi inutili.
Era quasi divertente
pensare come, al tempo, una “missione”, per lui, consisteva nel tenere la sua
amata Namimori al sicuro da bulletti e studenti
scansafatiche, mentre, sedici anni dopo, una sua “missione” era una questione
di vita o di morte. Non solo la sua. Incontrare la Famiglia Vongola aveva
cambiato la sua vita, la sua routine e le sue responsabilità. Per sua fortuna,
o forse per il suo buon intuito, la maggior parte dei suoi precedenti
collaboratori ai tempi della scuola gli erano rimasti fedeli. Tuttora, Kusakabe
prendeva il tè insieme a lui dopo ogni missione particolarmente impegnativa. Per
ricordare al corpo, e alla mente, che, nel loro mondo, nella vita che si erano
scelti, i pochi attimi di pace come quelli dovevano essere custoditi e protetti
con il sangue.
Nessuno ti salva se tu non
sei in grado di salvare te stesso.
Da bambino, a Hibari non
è mai stata raccontata alcuna favola della buonanotte. Si addormentava al suono
di piatti rotti, le urla dei suoi genitori, e con le ombre pseudo-umane
riflesse sui fusuma, mentre su quest’ultimi si
proiettava la violenza che stava avvenendo al di là delle porte scorrevoli
della sua stanza, a pochi passi di distanza.
Scene a cui un bambino
non dovrebbe mai assistere.
Ben presto aveva capito
che la vita là fuori era anche peggio.
La propria pace bisogna
difenderla con la ferocia, altrimenti si viene sopraffatti da demoni via via
sempre più grandi.
Ombre in carne e ossa che
non si limitano a volerti far paura. Demoni che non hanno alcun timore di camminare
alla luce del giorno, in grado come sono di cambiare pelle e forma in base alla
situazione sociale in cui sono coinvolti. Ombre che, alla sera, al sicuro
dentro le mura domestiche, diventavano grandi quanto un grattacielo e ti
schiacciavano sotto i loro piedi.
I lividi potevano essere
facilmente coperti sotto i vestiti, ma le ripetute ferite ai danni del suo
orgoglio non sembravano volersi rimarginare mai. Per sino dopo anni.
Per quegli stessi motivi,
crescendo, aveva fatto del suo meglio per non permettere a nessuno di abusare
delle sue fragilità interiori. Prima era solo un bambino e non avrebbe mai
avuto i mezzi per sopraffare quei “demoni” che tanto l’avevano tormentato in
giovinezza, ma, appena gli era stato fisicamente possibile, si era ribellato a
quel trattamento e, seppur ciò lo aveva fatto rimanere orfano prima del solito,
non gli era importato.
La dignità è l’orgoglio
dell’essere umano, nessuno dovrebbe mai privare altre persone di questa dote.
Eppure… accade,
continuamente.
A Hibari era accaduto.
Chissà a quanti altri era accaduto.
Poi era arrivato
Cavallone. Cavallone Dino era un uomo testardo nella sua gentilezza, lungimirante
e paziente, ma, soprattutto, di parola.
Un uomo rispettabile come
pochi.
Hibari aveva provato a
costringere la sua mente e il suo corpo a resistergli, ma il fascino esercitato
da Cavallone sul sé diciottenne era rappresentato da tutte le qualità che
Hibari aveva sempre ricercato in sé stesso e negli altri.
A volte, anche lui aveva
fallito nelle promesse fatte a se stesso. Cavallone,
invece, mai. Mai nei confronti di Hibari, che era poi quello che a Hibari,
forse egoisticamente, interessava di più. Mai Cavallone lo aveva deluso e mai
Cavallone aveva provato a privarlo del suo orgoglio, della sua dignità.
Tutto ciò che era
accaduto in seguito, tra loro due, era stata una “naturale conseguenza”, come avrebbe
detto Kusakabe—unico fidato confidente di Hibari.
Per questi stessi motivi,
per quello che Cavallone aveva rappresentato, e rappresentava tuttora, nella
sua vita, Hibari non poteva permettere a nessuno di infangare il nome di
Cavallone e tradirlo.
Gli uomini come Cavallone
dovrebbero essere intoccabili.
Hibari aveva sempre
pensato che gli uomini di Cavallone portassero lo stesso tipo di rispetto per
una figura tanto necessaria, quanto rara, nelle vesti di Cavallone, ma,
evidentemente, la vita trova sempre il modo di mettere alla prova la nostra
fede.
Hibari aveva la testimonianza
proprio davanti ai suoi occhi.
—ooOoo—
«Quando avevo la tua
età,» tossì l’uomo, «anche a me venivano date missioni del genere… Conosco il
gioco.»
L’uomo, in un primo
momento, dopo che Hibari lo aveva rapito e portato nel luogo precedentemente
preparato a dovere per l’occasione, aveva sbiascicato qualche frase in Inglese.
Hibari si era limitato a ignorarlo: non importava cosa gli dicesse per
giustificarsi o tentare di farselo amico, quando Hibari si prefissava un
obiettivo, nulla poteva distoglierlo dal completarlo.
Era qualcosa di cui era
sempre andato fiero.
Negli anni, in
quell’ambiente, si era rivelato utile. Hibari non era mai stato famoso per la
sua pazienza, ma per la sua perseveranza, invece, la sua figura era sulla bocca
di tutti; sia in Giappone, sia in Italia. Quasi nessuno conosceva il suo nome,
si era impegnato ad agire nell’ombra e uscire allo scoperto solo qualora fosse
stato necessario; Hibari rappresentava un po’ “l’ultima speranza” per i Vongola.
Vedendosi ignorato,
l’uomo aveva cominciato a imprecare e a insultarlo in Italiano.
Notando il sorriso a lato
della bocca di Hibari, l’uomo doveva aver capito che Hibari era in grado di
parlare Italiano. Inoltre, il suo aspetto “orientale”, l’età che a occhio e
croce poteva avere, secondo un occhio esterno attento, e il fatto che era stato
rapito davanti alle lapidi dei suoi genitori, doveva aver fornito all’uomo il
collegamento necessario per giungere alla conclusione che il “ragazzo” che lo
teneva in ostaggio, altri non era che il Guardiano della Nuvola dei Vongola,
nonché pupillo di Cavallone Decimo, il Boss su cui aveva fatto la spia alla
Famiglia dei Pavone.
Anche nella semi-oscurità
del capannone in cui lo aveva portato, Hibari lesse lo sconcerto sul volto
pietrificato dell’uomo appeso come un salame al gancio che penzolava dalla
trave in metallo dell’alto soffitto.
Gli puntò una lampada
portatile in faccia per gustarsi al meglio le condizioni in cui lo aveva
ridotto.
L’uomo poteva essere
sulla quarantina: capelli neri e ondulati che gli arrivavano dietro l’orecchio,
nonostante fossero intrisi di gel modellante, la sessione di tortura lo aveva
scomposto in tutto il suo aspetto. Dalla testa, fino ai piedi—sicuramente gonfi
e paonazzi all’interno delle scarpe strette. Emettevano uno scricchiolio ogni
volta che dondolava sulla sedia, rischiando di compromettere il suo equilibrio.
L’aria era gelida quella
sera, e dopo un intero giorno di torture, senza cibo né acqua, trattenere le
proprie emozioni e rimanere tutto d’un pezzo cominciava a risultare difficile
anche per un individuo con anni di esperienza nello stesso campo.
Hibari si era informato,
sapeva che l’uomo non stava mentendo quando diceva che conosceva il “gioco” a
cui Hibari sembrava volerlo sottoporre.
L’uomo doveva essere
convinto che quella maschera di freddezza e impassibilità lo avrebbe fatto
apparire come inscalfibile.
La verità, era che
quell’uomo era soltanto un uomo; indifeso e senza aiuto alcuno. Hibari non
aveva mai amato i giochetti. Quella era una semplice vendetta. Nuda e cruda
nella sua infallibilità.
Per l’uomo, era una
battaglia persa in partenza. Poteva solo cercare di incassare al meglio i colpi
che Hibari gli assestava da più di quindici ore. Le pause tra una sessione e
un’altra troppo brevi per riuscire a riprendersi.
Tra una pausa e l’altra,
l’uomo lo aveva deliziato con frasi che coinvolgevano la minaccia della sua
famiglia. Peccato solo che Hibari non ne avesse una da molto tempo. I membri di
quella che si era creato, al contrario, avrebbero riso di fronte a quelle
parole gettate al vento.
Un uomo privato della
propria libertà non fa paura, solo pena.
E Hibari non era in grado
di provare neanche quella per lui.
Hibari dentro di sé rise
davanti a quel quadro grottesco.
Non aveva più fretta,
come all’inizio di quella Odissea. Poteva godersi l’annullamento dall’esistenza
dell’uomo che aveva osato tradire la fiducia di Cavallone Decimo. Un Cavallone
Decimo malato, alla fine dei suoi giorni, la cui ultima preoccupazione doveva
essere avere dei Giuda in mezzo alla Famiglia che si era costruito con fatica.
Hibari non poteva
sopportarne l’idea.
Colpì l’uomo dritto nello
stomaco con la punta di un suo tonfa. Il verso strozzato che sentì, fece uscire
Hibari per qualche secondo dall’angolo buio in cui la sua mente tentava
costantemente di rinchiuderlo.
Rasserenarsi all’idea che
quel calvario fosse finito non era facile. La consapevolezza che altre mele
marce potessero nascondersi nella Famiglia di Cavallone, o nelle Famiglie
alleate, lo stava rendendo paranoico.
Le ultime parole di
Romario continuavano a ronzargli nella mente, giorno dopo giorno: “So che
proteggerai il Boss al meglio delle tue capacità, meglio di chiunque altro.
Avete un legame speciale, confido nel fatto che nessuno riuscirà a fargli del
male mentre tu sarai al suo fianco, giovane Guardiano della Nuvola.”
Non aveva mai saputo
perché Romario sembrasse fidarsi più di Hibari che del resto della Famiglia
Cavallone, ma all’Hibari di cinque anni fa non sembrò importare dei dettagli.
Aver ricevuto l’approvazione da colui che Dino considerava come un padre, era
stato abbastanza affinché Kyouya si lasciasse pervadere dal senso di
responsabilità che da sempre lo aveva contraddistinto in ogni sua azione.
I suoi sentimenti, più o
meno celati, a quanto pare non agli occhi esperti di Romario, per Cavallone
Decimo erano stati la chiave di volta della sua ossessione verso l’incolumità
di Cavallone.
Era arrivato a mettere il
benessere di Dino prima del suo, soprattutto dopo che la “Maledizione dei
Cavallone” si andava compiendo sul corpo oramai indebolito di Dino. Nessuno
poteva fermare l’inevitabile, ma Kyouya si era promesso di impedire alle
sanguisughe in circolazione di prosciugare Cavallone delle sue ultime forze.
L’Hibari adolescente
avrebbe deriso e forse maledetto chi era diventato, ma il tempo, in quegli anni
perso dietro a interminabili isolamenti forzati, gli aveva insegnato che non è
rimanendo da soli che si sconfigge la sofferenza.
Il male si cela ovunque,
anche nella solitudine.
Non si sceglie, è lui a
trovarci, e sfuggirgli è impossibile. L’unica arma di difesa verso questo male
primordiale, è costruirsi la propria felicità. La stanza sicura in cui
conservare ogni ricordo bello accumulato e in cui passare il tempo con le
persone che, con la loro presenza, fanno sembrare quella felicità eterna.
Hibari Kyouya aveva
trovato quel tipo di felicità in Cavallone Dino. La chiave era nascosta dentro
la sua carne, in profondità, e non l’avrebbe ceduta per nulla al mondo.
Doveva ricordarsi che ora
Cavallone era sano e salvo, a casa sua.
Dopo giorni di dolore,
avrebbe festeggiato il nuovo anno circondato dai suoi uomini e la sua famiglia.
La ragazzina Ucraina, che
si era unita a Hibari nel salvare Cavallone, nonostante le proteste di Hibari,
era da tempo una nuova fonte di gioia per Cavallone. L’arrivo nella sua vita lo
aveva segnato così tanto, da decidere di lasciare il ruolo di Cavallone
Undicesima a lei, una volta che la Maledizione dei Cavallone avesse prevalso
sull’anima di Dino, portando la sua fiamma a spegnersi per sempre.
Era diventata come una
figlia per Cavallone. Hibari, in un certo qual modo, se ne sentiva altrettanto
responsabile.
In confronto al sé
adolescente, adesso Hibari aveva molto di più per cui lottare e proteggere con
la sua vita, a ogni costo.
—ooOoo—
Affinché l’uomo lo
capisse parola per parola, rispose alla sua provocazione parlando in Italiano:
«Non mi è stata affidata
nessuna “missione”» gli rivelò Hibari. «Nessuno sa che sei qui, e nessuno lo
saprà mai. Neanche la tua famiglia» concluse.