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Autore: Luiss la Rossa    06/02/2023    3 recensioni
Non c’era molto lavoro, quella mattina.
Levi Ackerman aveva appena finito di pulire il pavimento, riponendo lo spazzolone e gli stracci nel ripostiglio, dopo averli accuratamente lavati e strizzati.
Avrebbe chiuso delicatamente il cancello dei cantieri navali per prendere l’auto e passare all’ufficio successivo.
Erano già le otto, ma complice il pieno inverno e l’arrivo del natale, il cielo era uggioso e grigio, ancora buio.
Levi si era apprestato ad arrivare all’agenzia di viaggio, non doveva perdere tempo perché avrebbero aperto alle nove e mezza, e doveva sistemare anche il piano inferiore, pieno di gadget che spesso i titolari lanciavano alla rinfusa nelle ceste dopo averne presi per i clienti.
Si era messo ad ordinare ogni singola scrivania, pulendo meticolosamente, pensando al fatto che non era mai stato oltre i confini del paese, e quei pochi viaggi che era riuscito a fare, erano per cose orribili come l’ospedale dove sua madre aveva provato l’ennesima cura dell’ennesimo luminare per il suo cancro aggressivo. Ma non era servito a molto, e pochi anni dopo era morta, lasciando Levi solo, senza nemmeno un diploma, a badare a sé stesso.
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Erwin Smith, Levi Ackerman
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Non c’era molto lavoro, quella mattina.
Levi Ackerman aveva appena finito di pulire il pavimento, riponendo lo spazzolone e gli stracci nel ripostiglio, dopo averli accuratamente lavati e strizzati.
Avrebbe chiuso delicatamente il cancello dei cantieri navali per prendere l’auto e passare all’ufficio successivo.
Erano già le otto, ma complice il pieno inverno e l’arrivo del natale, il cielo era uggioso e grigio, ancora buio.
Levi si era apprestato ad arrivare all’agenzia di viaggio, non doveva perdere tempo perché avrebbero aperto alle nove e mezza, e doveva sistemare anche il piano inferiore, pieno di gadget che spesso i titolari lanciavano alla rinfusa nelle ceste dopo averne presi per i clienti.
Si era messo ad ordinare ogni singola scrivania, pulendo meticolosamente, pensando al fatto che non era mai stato oltre i confini del paese, e quei pochi viaggi che era riuscito a fare, erano per cose orribili come l’ospedale dove sua madre aveva provato l’ennesima cura dell’ennesimo luminare per il suo cancro aggressivo. Ma non era servito a molto, e pochi anni dopo era morta, lasciando Levi solo, senza nemmeno un diploma, a badare a sé stesso.
Pulire gli veniva naturale da sempre, ed era stato semplice trovare un lavoro fisso in un delle migliori ditte della città. Si occupava di uffici grandi, era rapido ed efficiente da solo, cosa che aveva richiesto per evitare di portarsi appresso pesi inutili che lo rallentavano o perdevano tempo a chiacchierare.
Odiava parlare.
Odiava ascoltare.
Odiava le persone.
Una volta finito di sistemare ufficio e magazzino era passato a pulire un paio di scale dei condomini in periferia, prima di staccare.
Stava maledicendo l’inverno e gli aghi che si staccavano dai pini finendo inevitabilmente sul pavimento lastricato della palazzina mentre spazzava rapidamente il piccolo piazzale fra i due edifici di cui si era già occupato, quando si era sentito osservare.
Due caldi occhi color cielo intenso lo stavano fissando, senza parlare. Era un uomo abbastanza cordiale che gli sorrideva, ed era seduto sulla panchina di fronte alla palazzina A, dov’era appena stato a lavare le scale.
Levi aveva bofonchiato un impercettibile “Buongiorno.” E si era rimesso all’opera, ma l’uomo non aveva detto niente, solo fatto un cenno di saluto con la mano, illuminandosi.
Si era rimesso all’opera finendo di spazzare sotto lo sguardo vigile dell’uomo biondo, ed ogni tanto buttava uno sguardo per capire il senso della sua presenza lì, del perché lo stava a guardare fisso.
Ma non diceva nulla, lo osservava sorridendogli e basta.
Levi aveva finito: mentre si stava apprestando a mettere tutti gli aghi di pino ed il resto nella busta, quando l’uomo si era alzato e lentamente avvicinato a lui, cercando di aiutarlo. Aveva un braccio, il destro, evidentemente paralizzato con la mano storta, come se fosse reduce da qualcosa di brutto. Con l’altra era riuscito a tendere il sacco quel tanto che bastava per agevolargli il compito.
La mano sinistra gli tremava, ma non aveva lasciato la presa nonostante fosse pieno e pesante e lui fosse incerto e claudicante.
Levi lo aveva ringraziato, sentendosi un filo a disagio per aver pensato male su di lui. L’uomo aveva sorriso di nuovo, salutandolo con la mano buona e dirigendosi verso la palazzina A.
 
Aveva iniziato a piovere da un paio di giorni, quand’era tornato a lavare le scale nel condominio delle due palazzine.
Ovviamente l’uomo muto non c’era, ma Levi non si era stupito di questo. Mentre aveva appena finito di lavare accuratamente il pianerottolo del secondo piano della palazzina A, un uomo alto e piuttosto anziano aveva richiamato la sua attenzione: “Mi scusi, posso chiederle una cortesia?”.
Il suo aspetto era familiare: alto e robusto, occhi chiari, con pochi capelli in testa, sembrava palesemente il padre dell’uomo muto della settimana precedente.
“Mi dica.”. Aveva risposto frettolosamente Levi, sempre a disagio quando si trattava di parlare con altri esseri umani.
L’uomo aveva sorriso in modo caldo quando s’era avvicinato a lui: “Non so se possa interessarle una proposta di lavoro… vede, sono rimasto solo ed ho un figlio adulto disabile… ecco, avrei bisogno di un aiuto in casa. Almeno quattro volte a settimana, a giorni alterni. Posso parlare direttamente con lei?”.
Non era inusuale che le persone gli proponessero pulizie in modo diretto: moltissime sue colleghe accettavano per avere una busta paga più nutrita, ma Levi aveva già un giro molto più grande e per quello aveva sempre rifiutato, preferendo magari sgrossi approfonditi che pagavano meglio ed erano “una tantum”.
“Si, ma… ecco, bisogna vedere di quante ore e di quanto può spendere.”. Schiettezza e sincerità erano la base per lui, non aveva tempo da perdere.
“Il denaro non è un problema. Le chiedo solo di iniziare il prima possibile, anche domani stesso.”.
Si erano accordati velocemente, Levi aveva sparato alto e l’uomo aveva accettato: “Nel pomeriggio lavoro, mio figlio Erwin sarà l’unico in casa, ma non sarà un problema, le basterà digli di mettersi sul divano e non si muoverà da lì.”.
Levi aveva annuito, ricordando lo sguardo ed il sorriso caldo di quell’uomo evidentemente sfortunato.
Aveva finito presto ed era tornato verso casa, dove lo aspettava la sua gattina rossa Hanji, che con le sue mille fusa gli faceva dimenticare ogni tanto, che vita di merda stesse facendo da oramai troppo tempo.
 
Il pomeriggio successivo, come da accordi con il Signor Smith aveva suonato al campanello, ed Erwin gli aveva aperto la porta, non senza difficoltà: zoppicava in modo evidente dalla gamba destra, la mano sinistra tremava visibilmente e non riusciva a stare dritto.
“Cristo, cosa cazzo gli sarà successo per ridursi in questo stato?”, era la domanda che gli frullava mentre con un sorriso di cortesia entrava in casa. Era un trilocale, tenuto bene ed ammobiliato con gusto, che aveva bisogno di una sistemata e di una pulizia approfondita.
Sospirando, Levi si era girato verso Erwin che gli aveva indicato quella che era la cucina, dove la macchinetta del caffè era pronta per essere avviata. Levi aveva annuito, chiedendogli se ne volesse anche lui, indicandogli la sedia vista l’equilibrio instabile in cui versava l’uomo davanti a lui.
Aveva annuito, sorridendo in modo caldo anche stavolta.
E Levi non aveva potuto far a meno di notare che, nonostante la sua disabilità era davvero un uomo che in una situazione diversa, avrebbe fatto girare la testa a tutte le sue colleghe, e non solo.
Alto, biondo e con gli occhi di un azzurro particolare, un’espressività unica e dei tratti marcatamente maschili che lo rendevano un dio greco.
Gli aveva preparato il caffè in modo agevole, avevano lo stesso tipo di macchinetta, ma il tremore della mano sinistra non avrebbe permesso ad Erwin facilmente di berlo.
Levi si era reso conto che non c’erano altre soluzioni: “Scusami… se non ti fai problemi ti posso aiutare.”. Non sapeva in quale altro modo dirglielo, se non in modo diretto.
L’uomo aveva annuito, sempre in modo silenzioso.
Levi si era affiancato a lui, avvicinandogli la tazzina e aiutandolo a bere.
L’espressione di gratitudine di Erwin non l’avrebbe dimenticata, forse mai.
Si era discostato da lui per bere il suo caffè, senza mettere lo zucchero.
Erwin lo aveva guardato in modo corrucciato.
Levi aveva quasi sorriso: “Mi piace amaro. Anche il tè, lo bevo senza niente, prendo una buona marca che qui quasi non si trova, ma voglio sentire proprio il sapore del tè, non dello zucchero.” Indicando le due bustine che il biondo aveva faticosamente versato nella sua tazzina.
Aveva sistemato velocemente per mettersi all’opera, dicendo semplicemente ad Erwin: “Se non ti spiace inizierei dalle camere, puoi stare in sala o dove preferisci, se ti serve qualcosa fammi pure un cenno.”.
E mentre iniziava a sistemare, si era stupito come per la prima volta dopo tanto tempo, era stato lui a parlare con qualcuno. Effettivamente era una cosa che odiava fare, ma con Erwin, complice il fatto che fosse muto, non poteva fare altrimenti.
A metà dell’opera si era spostato in sala: Erwin stava guardando un documentario su una città in cui Levi era stato da ragazzo, in cui avevano ricoverato sua madre anni prima.
Si ricordava molto bene il centro storico, dove adorava perdersi nei vicoli dall’aspetto antico e affascinante, dopo essere uscito dalle visite.
Camminare lo aiutava a non pensare al dolore, a distaccarsene, si era goduto quel periodo in cui c’era ancora qualche speranza, ma era durata poco.
Evidentemente Erwin si era accorto di qualcosa, perché aveva distolto lo sguardo dalla TV e lo aveva piantato su di Levi, preoccupato.
Dal canto suo si era girato verso di lui interrogativo.
Erwin aveva indicato la sua guancia.
Levi non si era reso nemmeno conto che un paio di calde lacrime erano scese, solcandogli gli zigomi fino ad arrivare al mento. Si era asciugato rapidamente ed era entrato al volo nel bagno, quando si era ritrovato l’uomo davanti: era evidentemente preoccupato. Aveva allungato la mano per toccargli la spalla, ma Levi aveva scosso la testa: “Davvero, sto bene. Scusami, stavo solo ricordando… ecco, fammi dare una sistemata.”. Sentiva le guance bruciargli per l’imbarazzo.
Ma Erwin non si muoveva.
Aveva di nuovo allungato con fatica il braccio sinistro, arrivando a sfiorargli con la mano tremante la guancia, togliendogli quello che restava delle sue lacrime.
Levi non aveva fatto un passo, né detto più nulla.
Non poteva.
Un uomo che a fatica riusciva a muoversi era lì, preoccupato per lui.
Non poteva scacciarlo come avrebbe fatto in qualsiasi altra situazione.
Cazzo.
“Sto bene, davvero. Mia madre era ricoverata lì, ed il pomeriggio giravo spesso per quelle stradine, le conosco praticamente a memoria. Non lo so perché, sarà che ai tempi ci credevo che guarisse, mi è preso a male. Ma è passato tanto tempo, quindi…”.
Lo guardava, fisso negli occhi.
E da preoccupato, lo sguardo di Erwin Smith era diventato triste e pieno di pena.
Lo aveva accarezzato di nuovo sulla guancia con la mano tremante, e poi si era tirato indietro.
Levi non era riuscito a trattenersi, di nuovo: “Davvero, sto bene.”.


Aveva appena finito di passare lo straccio che il padre di Erwin era appena rientrato: “Oh, mi fa piacere vederla. Com’è andata?”. Aveva chiesto sorridente.
Levi aveva risposto tranquillo: “Bene… credo di poter continuare senza problemi. Ma suo figlio, ecco…fa riabilitazione? Perché ho visto che oggi fatica parecchio a tenersi in piedi e a tenera la mano dritta. Mi scusi per la franchezza.”.
Il padre di Erwin si era rabbuiato improvvisamente: “In realtà ho discusso non poco con lui, per questo. Non vuole assolutamente, dopo essere sopravvissuto all’aneurisma celebrale che ha avuto, fare nessun tipo di terapia. Ho fatto fatica a strappargli la promessa di non fare stupidaggini quando non ci sono, per mesi l’ho fatto tenere d’occhio dalla nostra vicina… non è semplice.”. L’uomo sussurrava, e aveva esortato Levi ad andare in cucina.
“Era sposato con una donna bellissima, di nome Marie. Lavorava tanto, troppo. Era un avvocato di successo, il mio orgoglio… intraprendente ed instancabile per dare il meglio alla sua amata. E il suo corpo gliel’ha fatta pagare. Marie lo ha lasciato poco dopo che il medico ha chiarito che le sue condizioni sarebbero state permanenti, che non sarebbe mai tornato come prima. E lui l’ha presa malissimo.”.
A Levi si era stretto il cuore, ma aveva solo fatto una smorfia.
Quale persona innamorata avrebbe mai potuto lasciare a sé stesso il suo compagno di vita, che aveva promesso di amare nella gioia e nel dolore?
"È stato irremovibile, come dicevo. E non fa che peggiorare.”. Aveva concluso il padre. Poteva solo immaginare il dolore che stava provando nel vedere il figlio spegnersi ogni giorno di più, come lui l’aveva provato per la madre, che alla fine aveva ceduto al male ed al dolore.
“Capisco. Mi scusi se sono stato indelicato.”. Aveva detto Levi a voce bassa.

Il padre di Erwin gli aveva sorriso in modo caldo, come suo figlio: “Ah, non si preoccupi. È stato lui a raccomandarla. Non voleva nessuno in casa, poi l’altra settimana l’ha indicata mentre spazzava il piazzale. Ho colto l’occasione, è evidente che lei gli sta simpatico.”.
Levi era arrossito, imbarazzato.
Si era congedato velocemente, salutando Erwin dalla sala dandogli una voce.
 
Durante il viaggio di ritorno si era messo a fare un paio di telefonate, e fermato a prendere delle cose in una farmacia sanitaria di sua conoscenza.
Tornato a casa, aveva coccolato Hanji e poi si era addormentato, abbracciato a lei nel letto.
 
Due giorni dopo aveva suonato puntuale alla porta degli Smith, ed Erwin aveva aperto sorridente.
C’era qualcosa di diverso nel suo aspetto: si era tolto la barba che due giorni prima appariva ricresciuta e trascurata, e sembrava anche aver tagliato i capelli.
Levi gli aveva sorriso e chiesto subito se la macchinetta del caffè fosse pronta, Erwin si era illuminato annuendo. Camminava sempre a fatica, stava usando una stampella.
Levi aveva messo il caffè di Erwin in una tazza più grande e con un’impugnatura speciale: “Con questa non dovresti avere problemi anche con il tremore. E mentre io sistemerò le camere, tu farai qualcosa per me.”. Aveva uno sguardo interrogativo e preoccupato, l’uomo biondo, che a Levi quasi venne da ridere.
“E’ un esercizio per la coordinazione, lo devi ripetere fino a che te lo dirò io. Almeno non avrai problemi nemmeno ad andare in bagno e ti toglierai quello schifo di dosso.” Levi aveva indicato il rigonfiamento evidentemente dato dal pannolone che Erwin era costretto ad indossare.
Il biondo era improvvisamente avvampato, abbassando lo sguardo. Mentre Levi beveva il caffè in piedi, si era avvicinato, sollevandogli delicatamente il mento: “Se vuoi essere mio amico devi darmi retta.”.
Erwin non aveva fatto cenno, lo aveva solo guardato intensamente, avvampando ancora di più.
Levi aveva spiegato all’uomo l’esercizio e si era messo a sistemare le camere.
Dopo aver rassettato, si era affacciato a controllare e aveva visto Erwin intento a ripetere tutti gli step in modo lento e controllato.
Aveva sorriso, ed era andato a spiegargli un nuovo esercizio per poi riprendere le pulizie.
Alla fine, dopo aver sistemato tutte le stanze e lavato il pavimento lo aveva aiutato ad uscire dall’appartamento per andare a camminare un po’.

La sua amica fisioterapista gli aveva spiegato come fare per fargli riprendere a camminare in modo perlomeno decente, o almeno a fargli tornare la voglia di combattere per sé stesso. Non sapeva perché, ma Levi sentiva di doverlo fare.
Il tempo era meraviglioso, un tramonto invernale rosseggiava rendendo quella squallida periferia quasi bella…Levi teneva Erwin sottobraccio (per quanto potesse, essendo di altezza e costituzione completamente diversi), e si era girato a guardalo: il biondo lo scrutava, con il suo solito sguardo blu come il cielo in tempesta e l’intensità con cui lo stava guardando lo stava quasi facendo tremare.
Alla fine, Levi aveva sospirato, aiutandolo a sedere e adagiandosi al suo fianco: “Anche se questa vita fa veramente schifo, momenti come questi valgono davvero la pena, sai?”. Si era girato aspettandosi che annuisse, ma Erwin lo guardava come se dissentisse.
“Non la pensi così?”. Gli aveva chiesto, aspettando una risposta. Ed Erwin aveva scosso la testa, guardando il pavimento.
“Ah, sì? Pensi davvero non ne valga la pena?”.
Levi gli aveva sfiorato il mento con le dita, tirandogli su il viso: “Perché non provi a farmi capire cosa pensi?”. Insisteva.
Ma c’era un motivo.
Erwin aveva l’espressione esterrefatta, quasi contrita.
“Secondo me se ti sforzi, puoi farcela. Anche a gesti.”.
Levi non mollava. Era un osso duro.
Erwin aveva sospirato, guardando di nuovo a terra.
Aveva scosso la testa.
Levi gli aveva preso la mano.
Erwin lo aveva guardato sorpreso.
“Ti stupirebbe sapere quanto potrebbe migliorare se solo lo volessi.”.
Erwin aveva alzato un sopracciglio stringendosi nelle spalle: “Perché dovrei?”
Era una domanda abbastanza palese, si vedeva dalla sua espressione.
“Perché potresti trovare di nuovo qualcuno da amare. O semplicemente con cui stare. Qualcosa insomma.”.

Levi si era quasi giustificato, era una domanda a cui lui stesso non sapeva dare risposta.
Ed Erwin lo aveva capito bene, puntando il dito contro di lui: “E tu?”. Sembrava chiedere.
Levi aveva ridacchiato: “No, direi proprio di non prendermi ad esempio. Ma io odio tutti, sono giustificato.”.
Erwin aveva fatto un cenno, interrogativo: “Odi anche me?”.
Levi era avvampato, girandosi improvvisamente dall’altro lato: “No, escluso te. Direi che è ora di tornare, il pavimento sarà asciutto.”. Ed aveva aiutato l’uomo ad alzarsi.

 
Il Signor Smith era rimasto senza parole quando aveva visto i due uomini tornare insieme, oltre al fatto che Levi stava aiutando Erwin a camminare.
“Vorresti fermarti a cena, Levi?”. Gli aveva chiesto, ma lui non se l’era sentita, nonostante l’espressione offesa che Erwin gli aveva fatto quando aveva messo la scusa della sua adorata Hanji.
“So che può suonare assurdo, ma resta tutto il giorno da sola, non posso abbandonarla anche di sera.” Ed era andato via salutando gli uomini.
Dopo essere tornato a casa, aveva visto un messaggio da un nuovo numero sul suo smartphone:
“La prossima volta porta la tua gatta con te, mi farebbe piacere.
Erwin.”
Levi era rimasto a guardare attonito quel messaggio per qualche secondo mentre Hanji in un moto di affetto gli era balzata letteralmente addosso dal tavolo, travolgendolo.
 

Non se lo aspettava.
Né da lei, né da lui.

 
Si era sentito veramente stupido quando era andato a casa a prendere Hanji, per portarla da Erwin. Ma dopo tutto, si era detto, che male poteva esserci?
Magari avrebbe aiutato l’uomo ad aprirsi e a decidere di riprendere in mano la sua vita.
La cosa più assurda di tutte era che non aveva mai pensato di chiedergli di scrivere, cercando di interpretare le sue espressioni ed i suoi gesti.
E si sentiva un idiota.
Aveva suonato il campanello, ed Erwin gli aveva aperto, sorridendogli immediatamente quando aveva visto il porta-gatto con lui.
Levi era entrato ed aveva aperto la gabbietta in cucina, sincerandosi prima che fosse tutto al sicuro, e le aveva organizzato la sabbietta nel ripostiglio, mostrandogliela.
Hanji era pulita ed intelligente, e soprattutto curiosa: era subito partita ad ispezionare la casa, e mentre Levi preparava il caffè ad Erwin servendoglielo nella sua tazza speciale, lei aveva iniziato ad annusarlo, per poi saltargli letteralmente in grembo.
Erwin aveva addolcito lo sguardo, cercando di muovere il braccio destro paralizzato per tenerla sulle sue gambe, ed accarezzarla con la mano sinistra, meno tremante e più ferma del solito.
“Hai continuato con gli esercizi, vedo.”. Aveva detto Levi, in modo noncurante.
Erwin aveva annuito, sospirando.
“Addirittura? Così faticoso?”. Aveva deciso di pungolarlo un po’, era troppo divertente.

Il biondo lo aveva guardato colpevole, quasi vergognandosi. Aveva scosso la testa. “No.”
“Non sapevo che riuscissi a scrivere al telefono. Se ti impegnassi un po’ di più potresti scrivermi più spesso e più velocemente…”. Gli aveva detto, sempre scherzando.
Erwin gli aveva sorriso dolce, annuendo. Aveva fatto scendere Hanji per prendere la stampella e mettersi sul divano, dove aveva iniziato a richiamarla tentando di fischiare.
“Sai che non è un cane, vero?”. Levi ridacchiava senza vergogna. “Hanji, da brava… spiega a questo testone la differenza.”. E ridendo li aveva lasciati soli per andare a sistemare le camere.

Quando aveva quasi finito aveva organizzato Erwin in corridoio condominiale ed Hanji con la pettorina, in modo da portate entrambi a fare due passi.
Erano scesi, e una delle signore del terzo piano che spesso regalava dei dolcetti a Levi, era rimasta sorpresa da quel quadretto pittoresco: “Ma che carini che siete… è bellissimo che ti prendi cura dell’avvocato. È stato sempre un uomo educato e gentile. Ha aiutato tutti noi a non perdere le nostre case… ti ricordi quando stavano per venderle? È solo grazie a lui che siamo ancora qui.”.
Levi aveva guardato Erwin, che si era addrizzato sorridendo con orgoglio, e poi si erano congedati andando verso il parco che distava poche centinaia di metri dalle palazzine.
“Sei un brav’uomo, se solo fossi meno testardo… ti rendi conto che con poco già stai meglio?”. Gli aveva detto indicandogli la mano e la gamba.
“Devi muoverti, e soprattutto fare riabilitazione. Se vuoi posso indicarti una persona in gamba ed aiutarti. Se non vuoi farlo per te…almeno fallo per tuo padre. Non merita di vedere suo figlio spegnersi.”.
Era stato troppo, forse.
Ma Levi sentiva di doverglielo dire.
Erwin lo guardava come se gli avesse dato uno schiaffo in pieno viso.
Era offeso, amareggiato… si era voltato da un lato.
Non lo aveva più guardato in faccia, ma il moro non si era aspettato niente di diverso.
Non aveva nemmeno voluto appoggiarsi a lui.
Però prima di rientrare in casa aveva dato un buffetto ad Hanji, guardando Levi negli occhi.
 
Quando Levi era arrivato a casa, aveva trovato un suo messaggio: “Non capisco cosa ci guadagni a dirmi quelle cose, che importanza ha per te?”.

Aveva sospirato, iniziando a cucinare mentre Hanji si strusciava fra le sue gambe.
Non sapeva effettivamente cosa rispondere, alla fine a lui cosa gliene veniva in tasca?
Però poi aveva ripensato alle parole del padre, e della signora del terzo piano… a quanto fosse tutto completamente ingiusto e sbagliato.

“Niente, non me ne viene niente in realtà.
Ma io sono uno che le cose te le dirà sempre in faccia.
Secondo me stai buttando la tua vita, che al contrario di quello che pensi non è affatto finita. Potresti recuperare parecchio, se solo ti ci metti. E visto che non sei rimasto mentalemente disabile, non è affatto poco. E mi piacerebbe avere a che fare con uno che mi fa capire cosa pensa, senza tirare ad indovinare.”.

Ecco.
Aveva perso un buon lavoro, per la sua solita testardaggine.

“Pensi davvero questo di me?”. Erwin gli aveva inaspettatamente risposto.

“Si che lo penso.”. Non ci aveva pensato, aveva risposto di getto e basta.

“E mi aiuteresti?”.

Levi aveva perso un battito.
“Si, cazzo.”.

“Ok. Manda il numero a mio padre.”.

Levi era rimasto con la forchetta a mezz’aria.
Ce l’aveva fatta. Forse.
 
Erano passati un paio di mesi da quando Erwin aveva iniziato il percorso di riabilitazione.
La sua amica fisioterapista gli aveva organizzato un programma coi fiocchi, che Levi aiutava a completare trascinandoselo in giro come poteva.
Zoppicava molto meno, la mano sinistra non tremava più e la destra stava recuperando in modo significativo.
Avevano iniziato a studiare insieme la lingua dei segni.
Levi era contento di andare da Erwin, e spesso cucinava per i due uomini restando a cena, insieme alla sua Hanji, che era diventata la coccola di casa, conquistando il cuore degli Smith.
Il padre di Erwin ogni tanto guardava Levi con gli occhi lucidi, sapeva che il cambiamento del figlio era solo merito suo, e non finiva mai di ringraziarlo.
Levi, dal canto suo, si era affezionato in modo profondo ad Erwin, anche se non lo avrebbe mai ammesso con nessuno.

Il biondo gli aveva chiesto più volte se fosse o meno impegnato sentimentalmente, e lui si era sempre mantenuto sul vago.
Aveva avuto solo un ragazzo, ma era passata una vita e la storia era finita così male che non aveva più voluto averne niente a che fare, chiudendosi a riccio e non permettendo a nessuno di entrare.

La sera, quando erano soli ognuno nella propria stanza, Levi ed Erwin iniziavano a chattare: spesso parlavano della loro giornata oppure delle cose da fare, dei film che volevano vedere e delle passeggiate da fare.
Il padre di Erwin doveva fare un piccolo intervento che aveva prorogato per anni ma che non poteva più essere rimandato, e si era finalmente deciso ad andare, organizzandosi con Levi per non lasciare il figlio da solo.

Parlavano proprio di questo, quando Erwin aveva iniziato a scherzare con Levi su quella convivenza imprevista: “Sono anni che non dormo con nessuno, mi fa un certo effetto. Tu non russi, vero?”.
L’uomo aveva iniziato a ridacchiare: “Credevo di prendere il divano, o la camera di tuo padre… cos’è una proposta, Smith?”.
Erwin ci aveva messo un po’ a rispondere.
“Mi piacerebbe. Ma non so se la cosa potrebbe essere di tuo gradimento… hai mai dormito con un altro uomo?”.
Levi era rimasto senza fiato.
“Si, ma è passato tanto tempo.”.
Era diventato improvvisamente nervoso.
Non immaginava, davvero, che le cose potessero prendere quella piega. Il suo smartphone si era illuminato.
“Possiamo ordinare cinese per cena.”. Erwin aveva cambiato discorso. Levi aveva ripreso aria. Il cinese era il suo preferito.
 
La sera dopo, Levi era davanti alla porta di casa Smith con la valigia e la sua Hanji, che oramai entrava e viveva da padrona nell’appartamento.
Il padre di Erwin lo aveva abbracciato, ringraziandolo ancora e raccomandandosi di avvisarlo di qualsiasi cosa, per poi andare in ospedale accompagnato da un amico.
Erwin si era affacciato dal bagno per andare a vestirsi, ancora bagnato dopo essere uscito dalla doccia, ed aveva salutato Levi con la mano destra.
Il moro aveva sorriso per quello.
Erwin gli aveva sorriso di rimando, facendolo arrossire.

Aveva sistemato Hanji, come al solito, però stavolta mettendo la sua cuccia in sala da pranzo, poi aveva preso la sua valigia e… non sapeva se chiedere ad Erwin dove mettere le sue cose oppure fare di testa sua ed andare in camera del padre.
Erwin si era affacciato, senza più bisogno della stampella, e gli aveva fatto cenno di andare con lui.
Lo aveva scortato nella sua stanza, dove aveva sistemato i suoi vestiti in modo da lasciargli l’anta dell’armadio e due cassetti vuoti, per lui.
Appariva sorridente, ma era un po’ nervoso.

Levi era arrossito, e lo aveva ringraziato a bassa voce, per poi dargli le spalle e iniziare a disfare la valigia.
“Sarà solo per tre giorni, non ti darò fastidio.”. Gli aveva detto. Erwin gli aveva sorriso, scuotendo la testa.
Levi lo aveva guardato interrogativo: “E’ un modo di dire che non ti dà fastidio?”.
Erwin aveva annuito, e aveva detto “Sì” nella lingua dei segni.
Aveva preso lo smartphone ed il menù della rosticceria cinese, indicandoli a Levi.
“Faccio io, ti fidi?”. Gli aveva chiesto, conoscendo già la sua risposta.
Aveva preso delle cose che Erwin amava. Poi aveva scelto un paio di piatti per sé, ed un paio di biscotti della fortuna.
Erwin aveva deciso di apparecchiare in sala da pranzo, per mangiare direttamente dal divano. Levi aveva sorriso immaginando quanto per lui fosse speciale una cena simile, in un modo completamente diverso e con una compagnia inusuale come quella di lui e di Hanji.
Gli aveva chiesto se fosse preoccupato per il padre, ma aveva fatto un cenno di diniego con la testa.
“Sono tranquillo, è solo un intevento di routine.” Gli aveva scritto velocemente sulla tastiera dello smartphone.
Levi al contrario, era un po’ teso, le brutte esperienze con il male della madre non lo facevano stare del tutto sereno.
“Che succede, Levi? Sei nervoso?”.
Gli aveva scritto con lo smartphone, preoccupato.
“Scusa ma… sai, ho passato l’inferno quando mia madre si è ammalata. Ma hai ragione, in questo caso è tutto sotto controllo… scusami davvero.”.
Erwin lo guardava, intensamente.
Levi si sentiva dannatamente insicuro.
“Ma tu vuoi… davvero vuoi dormire insieme?”.
Glielo aveva chiesto così, di getto.
Ed Erwin gli aveva risposto nella lingua dei segni in modo inequivocabile: “Si, è quello che voglio.”.
 
Si erano messi a guardare un film horror di quelli cult e datati, ma che aveva il suo fascino e che a Levi faceva sempre parecchia paura. Erwin lo aveva notato, e con la scusa di stirarsi, lo aveva abbracciato cingendolo a sé.
Levi si era lasciato avvicinare, abbracciare, stringere… e si era girato verso Erwin.
Non ci era voluto molto, prima che i due uomini in modo lento e delicato, si dessero il loro primo bacio.
Levi era titubante, non sapeva e non ci credeva di poter piacere ad Erwin, ma lui lo teneva a sé baciandolo in modo sempre più deciso, e sospirando si era lasciato andare fino a fargli capire che si, provava davvero una forte attrazione per lui.
Senza dire altre parole.
Senza che nessun gesto fosse lasciato a sé stesso.
E alla fine, si erano confessati, con un dolcissimo “Ti Amo”, nel linguaggio dei segni. Muto.
   
 
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