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Autore: summers001    11/04/2023    5 recensioni
Missing moment sulla sera del ballo, quando Oscar decide di indossare un vestito, raccontata dal punto di vista di Andrè.
Dal testo
Rosicai la poltrona con le unghie per torturarmi il corpo come la mente un poco alla volta. Volevi essere bella per lui. Volevi attirarlo, incuriosirlo con la lussuria, fargli vedere la tua carne, immaginarne altra, sentire il tuo odore. Tu, che da tutto questo eri sempre fuggita. Sei una donna e me lo dimentico sempre.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: André Grandier, Oscar François de Jarjayes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Maschere


La casa era in gran fermento quella sera. Tutti volevano vedere la contessa. C’era un gran via vai nella tua stanza: la nonna, la servitù, una sarta e persino la povera gente, ingaggiata dalle boutique di Parigi per consegnare i pacchi. Sì, perché una donna, una contessa soprattutto, ha bisogno di un vestito alla moda, di scarpe che si abbinano perfettamente, gioielli, di fermagli e pinzette per l’acconciatura, della cipria e del profumo giusto che la rispecchi.
 
“Ma come, proprio tu non sei curioso di vedere la contessa?” Mi domandò Colette. Lavorava per la tua famiglia da qualche tempo ormai. Fu assunta per aiutare la nonna, che presto la prese sotto la sua ala. La nonna, poverina, provò anche a lasciarmi solo con lei più di una volta. Ma Colette era molto sveglia, capì tutto e questo mi piaceva. Mi ricordava te. 

“La vedo tutti i giorni.” Le risposi parlando di te. Ero così abituato ad incontrarti in divisa e pantaloni che mai avrei saputo immaginarti con un vestito lungo. E poi, Colette non sapeva che i pantaloni bianchi lasciano poco all’immaginazione. 

Agitò le braccia lei, sorrise e le scappò un ricciolo bruno eccitato dalla cuffietta. “Vedrai!” Disse e se ne corse di nuovo di sopra nella tua stanza.

Di cosa avrei dovuto essere curioso? Di come il conte De Jarjayes, così orgoglioso, rinnega sé stesso per diventare quella che vuole qualcun altro? Di come l’amore per un altro ti annebbiava la mente e ti trasformava in… in cosa? Una donna qualunque? Una donna come un’altra? Una donna. Già, che cosa avrebbe aggiunto un bel vestito? 

Rosicai la poltrona con le unghie per torturarmi il corpo come la mente un poco alla volta. Volevi essere bella per lui. Volevi attirarlo, incuriosirlo con la lussuria, fargli vedere la tua carne, immaginarne altra, sentire il tuo odore. Tu, che da tutto questo eri sempre fuggita. Sei una donna e me lo dimentico sempre. 

“Andrè!” Mi chiamò la nonna. Me ne stavo ad aspettare davanti ad un camino, perso in pensieri cattivi, d’invidia e gelosia. Mi tirai su mal volentieri. Per la prima volta ti immaginai: goffa, strana, diversa dalle altre anche in quelle vesti; fasciata in un vestito che ti stava troppo largo o troppo stretto, pericolante sulle scarpe alte, col viso ridicolmente macchiato ed i capelli tirati su di qualche metro, come era d’uso a Versailles. Risi di quell’idea balorda che mi ero fatto. No, non sarebbe cambiato niente dal solito. 

“Andrè!” Chiamò di nuovo. La sentivo andare avanti e indietro in pieno fermento.

“Arrivo, arrivo!” Le risposi. Mi avviai verso la scalinata, camminai pochi passi, mi appesi al marmo, figurandoti di nuovo in quel modo buffo. 
Fu un attimo. Sollevai gli occhi piano. Credo di aver saputo già allora. Lo feci così piano che diedi il tempo al cuore di accelerare. Fu un attimo. Rimasi folgorato.

Dio, se solo ci ripenso. 

Avevi le spalle dritte, la schiena pulita, inarcata in una curva perfetta. La vita stretta, i fianchi appena pronunciati.  Ti ammiravo più che guardarti davvero. Ti adulavo. Non riuscivo a parlarti, non ne avevo il coraggio. Avrei dovuto farti qualche complimento, incitato da mia nonna, ma mi avevi lasciato senza parole.

“Avanti, Andrè, non dici niente alla mia Oscar?” Fece lei, mettendosi tra di noi. Io ai piedi della scalinata, tu che con un passo elegante per volta ti avvicinavi. 

E cosa avrei dovuto dirti? Aspettai, ammirai, guardai. Esterrefatto, disarmato. Alzasti lo sguardo che tenevi basso e nascosto. Cercasti me, mi stavi guardando. Mi si chiuse la gola e le parole non vollero uscire. Credevo avrei balbettato, di fare la figura dell’idiota. Come uno dei tanti che si incontrano a corte. Temevo che ti avrei delusa, così cercai di articolare qualche parola.
“È bellissima.” Dissi alla nonna, sentendone lo sguardo alle spalle. Il tuo invece s’abbassò, dovesti credere che fosse solo cortesia la mia. Ma alla nonna bastò, perché s’affrettò a correre per ordinare di prepararti la carrozza.
Rimasi davanti a te, che profumavi di fiori e cipria. Cercai di ricordarmi cosa stavi facendo, la forza del sentimento che coltivavi dentro, il destinatario di quel gesto tanto dolce quanto avventato. Oh, sarei voluto davvero essere lui per una volta. Ti avrei notata subito in quel palazzo. Sarei stato cortese, ti avrei invitata a danzare, ti avrei stretta, abbracciata, fatta volteggiare, stancata e riaccompagnata alla tua carrozza senza dire una parola. La tua bellezza non lo richiedeva. Non ti avrei sporcata di desiderio. Ero puramente ammirato, così tanto che non mi aspettavo di essere alla tua altezza neanche nelle mie fantasie. Eri di porcellana. Bianca, liscia, appena spruzzata di un rosa imbarazzo. Continuavo a guardarti mentre nascondevi gli occhi. Il tuo timore mi animò di coraggio, ti cercavo mentre continuavi a nasconderti. Mi chiesi se avessi freddo, con quella stoffa leggera, le braccia scoperte e la scollatura in petto. Cominciai ad abbassare gli occhi deboli, quando mi salvò la nonna.

“La carrozza è pronta.” Disse. Ti prese per i fianchi e ti allontanò da me. Mi sembrò di riprender fiato, mi accorsi solo allora del battito così accelerato del mio cuore che dovetti fermarlo con una mano al petto. Il mio corpo mi tradiva. L’amore che provavo per te era fisico e doloroso. Lo sentivo nel petto che martellava, nella pancia vuota, nel respiro fermo, nei pensieri voluttuosi e confusi. La nonna ti accompagnò fin all’ingresso, camminando con una lentezza languida. La guardai allontanarsi con te, non mi persi un passo. 

“Andrè!” Mi chiamò poi “Che fai lì impalato? Chi credi che debba accompagnarla?”

Io? Mi puntai anche un dito al petto. Corsi da te. Insieme alla nonna ti aiutai a salire in carrozza. Ti porsi la mano, tu l’afferrasti. Era delicata, morbida. Mi dimenticai persino dei calli della spada che di giorno ti scorticavi con le unghie. Ti guardai sederti, aiutarmi a spostare i lembi del tuo vestito e chiudere la portiera. Sentii la nonna tornare in casa e spiarci dalla finestra. Ci girammo entrambi a guardare. Per la prima volta quella sera sorridesti. Forse ti riconobbi già allora. Con quel sorriso tornasti un po’ tu.

Quella piccola emozione mi sciolse la lingua. Sentii di nuovo il cuore martellare. Mi appesi al finestrino della carrozza e ti guardai appena illuminata dalle luci del palazzo. Gli occhi cangianti erano diventati di un azzurro perlaceo. Aperti, grandi, li muovevi come se non capissi cosa stessi facendo: un altro pezzo di te che tornava al suo posto. “Sei stupenda.” Riuscii a dirti con la voce rotta.

Mi aspettavo che mi ignorassi o ringraziassi, invece sbuffasti. Rividi il bambino, la ragazza e la donna con cui ero cresciuto. C’eri tu sotto quella seta e quella cipria, la donna che amavo. Sbuffasti come quando ti ostinavi a nascondere una risata in mezzo a tutta quell’etichetta. Ti riconobbi allora in ogni gesto. Ti stringevi le mani l’una con l’altra come fai quando le nascondi a cena con tuo padre sotto al tavolo. Prendevi pesanti respiri come quando punti la pistola per mantenere ferma la mira. Corrucciavi le sopracciglia fissando un punto, come quando ti concentri e pensi alla prossima pedina da muovere sulla scacchiera.

Da lontano sentii delle campane suonare. Si stava facendo tardi. Lasciai quel posto privilegiato per portare la carrozza. Mi sedetti, afferrai le redini e mi guardai indietro. Oh, venere ammaliatrice! Avrei voluto vederti di sfuggita con la coda dell’occhio, ammirarti ancora un attimo prima di portarti a Versailles e doverti stare lontano. Ti immaginai mentre guardavi le stoffe del tuo stesso vestito, indecisa tra il piacere di sentirti donna ed il disagio di non riconoscerti. Pensai che dovesti sentirti sola là dietro, seduta in carrozza. Sola, tu con il tuo vestito. 

Ti portai a Versailles in una specie di esaltazione ed ipnosi. C’era buio e profumo di erba e fiori notturni. Le poche luci lasciate ai lati del viale ci avvolgevano come in una fiaba. Ti aprii la portiera, attesi la tua mano porgendoti la mia e ti guardai andar via. Davanti alle porte qualcuno mi salutò. Sapevano che io guidavo quella carrozza, sapevano che la dama eri tu. Ti guardavano increduli, indecisi se credere o meno ai loro occhi. Ed io avrei voluto solo rispondere con orgoglio “sì, è proprio lei”.

Attesi. 

Sperai di veder passare il conte Fersen, di poter contare il tempo che rimaneva dentro, con te. Chissà che stavi facendo, chi ti stava guardando. Chissà se avevi scelto di danzare questa volta, se portavi in alto la gonna con la mano o se ti affidavi con tutte le dita alla guida esperta di qualcuno. Chissà come ballavi quando la donna da portare eri tu. Chissà in quanti avrebbero voluto ballare con te. Mi ingelosii. 

Pensai che non era necessario essere lui, essere Fersen, per ballare con te. Sarebbe bastato esser nobile ed essere in quella sala. Mi sarei girato e ti avrei vista arrivare. Le luci oniriche mi avrebbero diretto a te. Mi sarei scusato con i miei accompagnatori, avrei posato il bicchiere e ti avrei raggiunto. Mi sarei presentato come conte, lo stesso rango. Incredibile, no, quando le cose sono fatte per accadere? Forse avresti cercato gentilmente di sottrarti, eri pur sempre là per un altro. Io mi sarei arreso, ma avrei citato prima Catullo o Cicerone. Avremmo parlato di poeti, di diritti, di politica e di storia. Avremmo guardato gli altri ballare. “Non fa per me.” Mi avresti detto e forse ti avrei creduto, ma ti avrei domandato quanto è bello spingersi appena un po’ oltre il limite? Fare cose che altrimenti non avresti mai fatto? Ti avrei preso per mano, coraggioso, disinvolto, disinibito dal vino. Ti avrei portato al centro della pista in mezzo a tutti gli altri. Avresti avuto le guance rosse, imbarazzata ed anche accaldata. Avrei sentito l’odore della tua pelle, del profumo di tua madre o della nonna, della cipria. Ti avrei confidato che odio ballare anch’io. Accaldati, col sudore che sapeva di vino, avremmo cercato una finestra o un balcone dove l’aria fresca della sera ci avrebbe asciugati e rinfrescati. Sarei stato goffo, per niente attraente, forse ti avrei divertito ed avrei scoperto il suono della tua risata e mi sarei innamorato anche stavolta. 

Fersen non passò mai di lì, ma sentii parlare di lui da tutti quelli che entravano ed uscivano. Non riuscii a capire da nessuno con chi avesse ballato e quante donne l’avessero invitato. Nessuno parlò di te. Versailles dimentica appena volta lo sguardo. 

Più tardi sentii dei passi frettolosi. Ti riconobbi dalla cadenza dei passi sui gradini della reggia. Tornasti di corsa. Sconvolta. Ti fermasti appena prima di raggiungermi, dopo esserti ricordata di me. Mi spiasti da dietro un angolo, sperando forse che non ti vedessi così, con il fiato corto, le lacrime ed il naso che cola. Oh, Oscar, non ebbi bisogno di vederti quel giorno. Ti avevo già vista e consolata così tante volte. Sono stato con te quando tuo padre ti sgridava, quando il nostro precettore ci bacchettava sulle mani per insegnarci il latino e tu nascondevi le lacrime, tiravi su col naso, trattenevi il dolore per poi piangere da sola. Conosco quel viso ed i tuoi sentimenti. Soffrivo con te e per te, mentre una piccola parte mi consolava il fatto che lui non ti volesse. 

Appena mi raggiungesti, finsi di essermi appena accorto di te. Ti guardai ancora. Ardevano in me quel giorno due sentimenti opposti ed ambivalenti. Da un lato, la voglia di imprimerti a fuoco nella mia memoria: tu bellissima, donna, malia, femmina, la tua figura esaltata, slanciata, un tripudio di bellezza, pudore ed amore. Dall’altro, volevo quasi scacciare via quell’immagine e ricordarmi di te come sei: sorridente, sensibile, arrogante, coraggiosa, intraprendente. Non mi importava del vestito. Ti studiai però, non lo nascondo. Avevi i capelli in disordine, cedevano da entrambi i lati del viso. Gli occhi rossi di pianto ed il trucco colato sotto le ciglia, tra la polvere stesa della cipria. La manica del vestito ti scopriva una spalla, rovinosamente tirata giù da chissà quale sentimento furente. Mi ripetei che eri pur sempre una donna, da sola ad un ballo, e lo sembravi quel giorno più degli altri. Cercai su di te i segni delle mani di un altro che non ti conosceva. 

“Oscar.” Mormorai. 

Mi guardasti solo un attimo con gli occhi tristi e gonfi. Mi ricordasti di quel pomeriggio quando corremmo in giardino dopo le lezioni, quando mi mostrasti i segni delle stecche di legno sulle mani. Tornasti in te, riprendesti contegno, proprio come allora. Raddrizzasti la schiena e camminasti verso la carrozza. Guardasti dritto ignorandomi. Aspettavi che ti aprissi le porte che ti avrebbero riportato a casa. 

Ti vidi solo allora per quello che eri, rimettendo correttamente in ordine i pezzi, ignorando quella parte gelosa e velenosa del mio amore: una donna innamorata, che coraggiosamente si era fatta avanti in un mondo troppo ottuso per accettarla. Rifiutata. Provai tenerezza e profonda tristezza per la mia migliore amica. Volevo consolarti, farti ridere, sedermi accanto a te e guardarti piangere. 

Ti ammirai. Tu con quelle spalle dritte, le braccia stese lungo i fianchi con le dita che si torturavano le unghie, mentre brividi di freddo ti percorrevano la pelle nuda. Pensai a te, freddolosa, che ti nascondi sotto le coperte di notte per dormire; alle giacche pesanti durante i nostri pomeriggi al mare ad Arrais. Mi sfilai la casacca e te la porsi senza neanche pensarci. La guardasti come se fosse un’offesa, come se ti stessi dicendo che non riusciresti a sopportare il freddo senza. 

“Prendila.” Ti dissi, mentre la guardavi come se scottasse. Dovetti insistere. “È un gesto di affetto che faccio per la mia amica, non è galanteria.”

Capisti che io sapevo tutto di te senza che tu me lo dicessi. Che sapevo tutto di Fersen, del tuo grande amore per lui, del suo rifiuto, di cosa sei disposta a dare per un sentimento. Ti dovesti sentire nuda. Allora allungasti la mano per prenderla e mi ringraziasti con un fil di voce. Avrei potuto toccarti la mano, accarezzarti il polso o sfiorare la punta delle dita. Non feci niente di tutto questo. Ti aprii la porta della carrozza e ti porsi la mia mano per aiutarti a salire. Quella sera volevo essere quello che ero, il tuo amico. Mi sentii addirittura privilegiato nella mia posizione. 

“Contessa.” Feci come riverenza. Ti voltasti di scatto. Mi guardasti come se potessi trafiggermi con gli occhi. Forzai un inchino e ti sentii sbuffare, proprio come a casa. Quello sbuffo però nascondeva un sorriso. Ero riuscito a farti ridere e per me valeva più di una carezza. 

Ti riportai a casa con una strana allegria in petto. Tu stavi male, io per te, ma col tempo ti potevo aiutare a guarire. Ti sarei stato accanto, ti avrei sopportata arrabbiata, triste e delusa, fino a vedere quella scintilla, di quel fuoco d’orgoglio che brucia sempre nella tua anima.

Arrivammo a casa che era tutto buio. Persino la nonna si doveva essere addormentata mentre ci aspettava. Feci per avvicinarmi ed aprirti la carrozza, ma avevi già fatto da sola. Toccasti terra coi piedi nudi, mentre in mano tenevi le scarpe con quel ridicolo tacchetto che a malapena riuscivi a portare. Ti eri sciolta già i capelli, per sentirti di nuovo tu. Recuperasti la mia giacca, che se ne stava stropicciata, appena tolta nella carrozza. La sistemasti meglio che potessi, la ripiegasti e me la restituisti.

“Non era necessario.” Ti dissi, forse un po’ deluso, sperando di poter sentire il tuo odore fresco sul tessuto.

“Un gesto per il mio amico.” Mi rispondesti facendomi eco. 

La presi. Avrei voluto rispondere. Avrei dovuto farlo. Ero confuso: fino a pochi minuti prima ero fiero ed orgoglioso del ruolo che mi ero ritagliato. Con poche semplici parole avevi di nuovo cambiato tutto. Mi facevano sentire stretto, mi mancava di nuovo l’aria. Mi ripetevo che dovevo farmelo bastare, come sempre. Che dovevo soffrire o morire al posto tuo, ma non sperare di averti per me. Non sperare di portarti a danzare. Non sperare di vederti così, pazza d’amore, per me. 

Ti guardai allontanarti, gettare le scarpe con disprezzo in un cespuglio accanto alla porta e rientrare in casa. Lasciasti andare via quelle scarpe come il travestimento che ti eri concessa per quella sera, che credevi piacesse ad un altro, per nascondere l’identità che credevi tuo padre ti avesse attaccato addosso. Le guardasti cadere, nascoste nell’erba, seppellendo in te quella parte fragile che non volevi gli altri vedessero. 

Seguii la scia di luci che ti lasciavi dietro. Un candela in salotto, una tra le tue mani che si muoveva fin sopra alle scale e poi nella tua stanza. Non volevi esser silenziosa e neppure furtiva. Volevi che anche la nonna ti sentisse e ti vedesse. Volevi colpevolizzarla di averti dato corda in quella farsa. Ma non successe nulla. Rimanesti sola col tuo dolore nella tua stanza. 

Raggiunsi la porta e mi protesi ad ascoltare. Non sentii niente e seppi che eri là dietro anche tu ad ascoltare me, infastidita dalla mia sola presenza che ti impediva di piangere.

“Ti serve solo del tempo.” Avrei voluto dirti, ma sarebbe stato più corretto pensare che sarebbe servito ad entrambi. 

Ti lasciai sola coi tuoi pensieri ed io coi miei. Nella mia stanza pensai a te. Mi addormentai ripensando a quella sciocca fantasia di vederti danzare tra le mie braccia, delicata e rosa sul viso di emozione. 

 


Angolo dell'autrice 
Bu!! A volte ritornano! 
Salve a tutti ragazzi e ragazze. Mi scuso in primo luogo dell'assenza. Ultimamente il lavoro e questioni familiari mi stanno tenendo molto lontana dalle fan fiction. Non credo di avere ancora il tempo necessario per avvicinarmi ad una long, così ho deciso di cimentarmi in qualcosa di semplice. Non riesco a stare senso scrivere niente!
Comunque sia, si tratta di una storia semplice, di uno dei momenti più iconici della serie, scritta per mettere nero su bianco la gelosia, il sollievo, l'affetto da amico è l'amore in ogni sfaccettatura si Andrè. I pochi dialoghi però vogliono sottolineare l'esistenza di un legame, a volte che supera le parole. 
Questo è tutto. Vi ringrazio di essere arrivati fin qui.
A presto!! 
Summers
  
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