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Autore: Quella Della Pasta    11/04/2023    0 recensioni
Camille, prima e dopo l'essere diventata una vampira. Non che fosse durato molto, comunque.
E cosa ne pensa Klaus di tutto questo.
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Ha partecipato al COW-T #13 col prompt (sesta settimana) (...ed ultima): Missione 3 (uniti per le cronache) - 02. vampiro.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Camille, Klaus
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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(Titolo e citazioni provengono da più canzoni del musical Notre Dame de Paris, ma che al momento non ho la sbatta di andare di nuovo a cercare. Magari tornerò a segnalarle a COW-T finito.)


 

Qui crolla il tempo delle cattedrali

La pietra sarà dura come la realtà

In mano a questi vandali e pagani

Che già sono qua…

 

Camille non sa davvero perché si ritrova lì, quella mattina sonnacchiosa di un giorno di nebbia leggera su New Orleans, seduta, zitta e composta, in un banco della chiesetta di St. Anne. La navata è vuota, fatta eccezione per una vecchina curva sul suo rosario, e stranamente silenziosa pure lei per essere in preghiera. Ma potrà pur essere una strega, per quel che le riguarda, tutta intenta a meditare su chissà quale maledizione o rimedio salvifico da sbolognare al suo prossimo cliente. O è una vampira, pure, in tarda età per un pentimento dell’ultimo minuto. O tutta presa da una vecchia abitudine. Non servono i suoi manuali di psicologia per sapere che sono dure a morire, proprio come nel proverbio. Che possano appartenere a vampiri o umani, per sua fortuna il cervello funziona alla stessa maniera per tutt’e due. Dedito alla bontà più assoluta come pure all’egoismo più efferato.

E come la sua, di vecchia abitudine, di cercare conforto tra quelle quattro mura di pietra, odore d’incenso sfumato nella polvere del tempo e nella cera delle candele consumate, e quel vago sentore di ferro che un tempo Camille avrebbe attribuito ai vecchi, vecchissimi candelabri che fanno bella mostra di sé ai lati dell’altare deserto. Ora non riesce a non pensare che sia l’odore del sangue. Di secoli e secoli di vittime, innocenti o colpevoli che fossero, sacrificate sulle pietre della navata, sgozzate sugli stessi banchi dove lei sedeva o scagliate a impalarsi contro la ricca decorazione del crocifisso appeso. 

Quel terribile Gesù Cristo cogli occhi rovesciati e le vene blu, e le ginocchia spellate, la fissa come a volerla giudicare di tutti i suoi peccati, proprio come Klaus le aveva confessato che il suo terribile padre faceva con lui. Camille ricorda di essersi sentita fortunata, a ripensare a come suo zio si era preso cura di lei. Da piccola, quel Cristo in croce le metteva una paura enorme. Suo fratello la prendeva in giro, per quello. Solo lei sapeva che ne era terrorizzato parimenti. Ed ora ne era spaventata perché conosceva di persona le tremende creature che avrebbero saputo ridurre allo stesso aspetto una persona fino a non molto tempo prima pulsante di vita e sangue.

Cinque minuti di riposo. Camille lo ricorda appena in tempo, il motivo per cui si è trascinata sin lì, quasi quella mattina fosse stata richiamata giù dal letto da un incantesimo, un raptus che le ha afferrato polsi e caviglie. Come per l’ipnosi di un vampiro. Ormai, conosceva bene pure quella.

Lo ricorda appena prima di alzarsi dalla panca e ritirarsi verso l’uscita, sperando di non incrociare nessuno che conosca. Nessuno che possa riconoscerla come la sventurata sorella del seminarista pazzo assassino, la parente del prete che si era rivelato ancora più folle del nipote. Non era esattamente così, che erano andate le cose. Ma Camille non vuole ricordarlo, non anche quello. Non in una mattinata così bella, poi. Così poetica. La luce traspare dalle vetrate colorate del rosone, sfidando quella nebbiolina pigra, e creando un arcobaleno lieve che sfiora anche lei. Camille se ne sente quasi benedetta.

Le servivano cinque minuti tutti per sé, in totale pace e solitudine. Due cose che non avrebbe potuto trovare al suo bar, a meno di rivolgersi al fondo di qualche bottiglia. E spiegarne poi la sparizione al suo capo, e pagare di sua tasca quell’infrazione alla sua ottima condotta di cittadina morigerata e totalmente umana. Una quotidianità che non ha più lo stesso sapore, anche se è passato un solo giorno da quando il suo mondo è stato messo sottosopra.

Vampiri, streghe, lupi mannari e chissà cosa diavolo altro ancora. Creature da favola che camminano fuori dalla notte e dalle leggende che le confinavano ai momenti in cui il buio calava e i mostri uscivano da sotto al letto. Zio Kieran diceva loro di pregare, in quei casi. E, se non funzionava, potevano sempre scendere di sotto per una cioccolata calda. Tempi così lontani che hanno un retrogusto ferroso persino sulla sua lingua. Neanche avesse lei stessa morsa il collo della dura realtà per succhiarne ancora un poco di quella felicità, di quella serenità, che ormai le pare appartenere a qualcun altro. Il segno biancastro del morso sulla sua pelle glielo ricorda, giorno e notte. Le favole, purtroppo per lei, sono reali. E false. I vampiri girano alla luce dello stesso sole sotto cui Camille ha deciso di scaldarsi un poco le ossa raggelate da quella consapevolezza.

Si trattiene ancora un poco sotto uno dei finestroni istoriati. Non ha voglia di tornare alla realtà, la sua nuova realtà, che la aspetta fuori da lì. Klaus Mikaelson le ha promesso che non la disturberà, quando immersa nelle sue sciocche meditazioni sul bene e sul male, né se le prenderà la altrettanto sciocca voglia di rifugiarsi nel luogo che per lei ha rappresentato soltanto dolore, e nient’altro. Un ventre di matrigna fatto di pietra fredda, e statue di santi in cui non crede, e splendide vetrate colorate ora impolverate e sbiadite.

Ma Klaus non capisce, neppure con tutti i secoli che si porta sulle spalle. Per questo, Camille non si preoccupa. E non solo perché le ha manipolato la mente, regalandole una pace che lei sente estranea, come un’infezione. Come lo charme dei vampiri, belli oltre ogni ragione. Ma è tutta una facciata per nascondere i mostri di denti aguzzi e sangue seccato da una sete innaturale. Puro istinto bestiale celato da un grammo appena di raziocinio. O Camille avrebbe dismesso Klaus dalla sua psicanalisi settimane addietro.

Non riesce a non pensarci. Un bel vampiro è soltanto come quella chiesa vuota, bella all’esterno…e una tomba di pietra fredda al posto dell’anima. Nessuna di quelle statue, per quanto meravigliose, è viva. E per quanto i vampiri si sforzino di imitare una vita che ormai non appartiene più loro, la loro vera natura prevarrà sempre. Così per Camille e il suo stupido senso di colpa verso gli altri, che le fa tenere ancora il re di New Orleans, il vampiro più potente di tutti i tempi, nel suo studio, sul suo divano, a chiacchierare con lei di una lunghissima vita mal spesa, di tutto il sangue che ha bevuto e versato. E dei rimpianti per non essere ancora vivo. Per non essere morto prima. Camille lo trattiene ancora con sé, perché solo Klaus la capisce. Nessun altro ci riesce. E quel suo senso di colpa inestinguibile non è forse quanto di più simile alla sete di sangue dei vampiri? Una dipendenza che solo un suo simile capirà.

La chiesa di St. Anne è la sua personale catarsi. L’unico luogo in cui può ancora rivivere una traccia di quel dolore. E di cui non può né vorrebbe mai liberarsi. Non le servono i suoi manuali nemmeno per capire che si tratta effettivamente di dipendenza. Non le importa.

Resterà ancora qualche attimo lì, seduta a quel banco, con le incisioni di seminaristi annoiati che rovinano il legno reso gommoso dall’umidità. Dovrebbero ancora esserci le iniziali sue e di suo fratello, da qualche parte. Le cercherà, ha deciso. E solo dopo essersi inferta quella nuova ferita, imboccherà la navata ancora completamente vuota, uscirà dal portone e tornerà ad affrontare la vita che ancora le si snoda davanti. Per poi andare a rinchiudersi ancora una volta nella sua vampirica tomba di sensi di colpa.

Ma magari davanti a un buon bicchiere di bourbon. Il vantaggio di essere ancora umana, pensa, stupendo persino se stessa per quello sprazzo di ilarità, se non altro è il saper ancora apprezzare il sapore del buon cibo.

 

Ave Maria

Perdonami

Non so che ho fatto

Ma tu lo sai…

 

Quando Cami torna a rifugiarsi tra i banchi di St. Anne, ha la gola sporca di sangue. Sangue non suo. E non importa quanti rosari e atti di dolore si china a pregare, a supplicare, faccia in giù su quel legno polveroso come le è stato insegnato sin da piccola. Il suo peccato è troppo grande e non potrà mai riscattarsi. Mai.

Ha aiutato un assassino. E non è lì dentro, in una chiesa spoglia, austera, che persino i suoi officianti evitano – troppo sangue, troppo, è stato versato lungo la sua navata, lo stesso che ora ricade sulle sue mani – che troverà la redenzione che dispera così tanto.

Prega che suo fratello arrivi e la porti via da lì. Ma è solo suggestione, come bussano alla sua mente i vecchi ricordi di tutto quel tempo passato sopra i manuali di psicologia. I miracoli non sono altro, probabilmente, che suggestione e coincidenze fortuite incasellate da una mente tendente all’immaginazione. La sua, invece, tende a spaccarsi in mille pezzi. E nemmeno l’ipnosi vampiresca di Klaus la può aiutare. Vorrebbe essere un vampiro, Camille, in quel momento, e provare l’ebbrezza di poter staccare definitivamente dalle sue emozioni, da quella testa rotta che pulsa, e pulsa, e pulsa ancora…proprio come Camille immagina facciano i canini di un vampiro quando ha sete. E lei ha sete, ma di oblio. Un’arsura immensa. Klaus, una volta, le ha descritto quella stessa, esatta sensazione - e Camille spera tanto che non glielo racconti di nuovo.

Alzandosi dal banco, calpesta un vetro rotto. Alza lo sguardo. Per quello, fa più freddo del solito: una delle vetrate istoriate s’è rotta, forse per colpa di un sasso lanciato da qualche perdigiorno. Il crocifisso spaventoso e i candelabri che puzzano di sangue, invece, sono esattamente dove li ha lasciati.

Per un attimo, Camille immagina di rinchiudersi nel confessorio. Di trovarvi suo zio, di parlare con lui. Ma è solo altra suggestione. Più di tutto, le serve un lungo bagno ed un sonno ancora più lungo. Questo, le suggerisce il suo cervello razionale. E non di rievocare brutti ricordi al gelo di una vecchia chiesa polverosa.

Ma le sue gambe non si muovono. I piedi restano incollati a quella vecchia pietra, gli occhi fissi verso l’altare. Sempre vuoto, sempre così privo di vita. Eppure, c’era un tempo in cui Camille guardava verso di esso con occhi speranzosi. Che finisse presto quella messa barbosa e potesse uscire a comprare i dolcetti che tanto le piacevano. Ma non è più una bambina, ormai. E quella pasticceria ha chiuso da anni. Nessuno le offrirà più i suoi dolci preferiti. E come potrebbero? Ora è un’assassina.

Il karma è una stronza. Avrebbero dovuto incidere questo, tutt’intorno al basamento dell’altare, e non una preghiera in un latino che a New Orleans nessuno sa leggere. Di chierici, non ne è rimasto più neanche uno. E Camille è piuttosto certa che quei vampiri che conoscono di lingue morte, non hanno particolare piacere a sgranchirsi le gambe in chiesa. Soprattutto, non a St. Anne. Klaus l’ha dichiarato come suo territorio, suo fratello vi ha versato sangue per primo, e solo una strega tanto pazza o vendicativa - o ambo le cose insieme, perché no - s’arrischierebbe tanto, per una mossa che verrebbe bollata come puro suicidio dal resto della comunità. Persino Marcel se ne tiene alla larga, ora che la sua pupilla è relativamente al sicuro. Lontana dalle zanne avvelenate e dalle mire di dominio universale del suo vecchio signore.

La soffitta dove Davina era rinchiusa, ora è sigillata da un robusto catenaccio. E con su inciso uno di quegli incantesimi di protezione di cui Camille non ne capisce francamente niente. Klaus le ha parlato di grimori e di residui di magia, tutta roba che, a quanto pareva, i vampiri millenari come lui si mangiano a colazione. Magari accompagnandoli al sangue della strega da cui li hanno estorti. Per quel che le riguarda, poteva anche raccontarle la favola del coniglio pasquale. Ma quel sigillo non ha impedito a tutti i demoni rimasti in quel posto di scivolare fuori dalla serratura, e venire a infestarle la testa. Superstizioni, suggestioni…Camille non saprebbe spiegarsi altrimenti. Non senza guardarsi allo specchio, e vergognarsi di se stessa.

Le statue della Madonna e del suo corteo di devote e apostoli la guardano con disprezzo. Come se potessero davvero corrucciare i volti di legno scolpito, la pittura squamata per il tempo, e il logorio del calore delle candele accese.

Si è innamorata di un assassino. Di un vampiro, di un essere maledetto, e che non dovrebbe nemmeno esistere. Perché non dovrebbe esistere in natura una creatura capace di compiere così tanto male. Ha compiuto atti immorali anche lei, che vampira non è. Non è più il suo posto, quello. Il pavimento di quella chiesa dovrebbe bruciarle sotto i piedi, se solo non fosse stato sconsacrato secoli addietro. Od anche solo qualche anno prima.

Suo fratello gemello, un coltello rimediato chissà dove, schizzi di sangue che ancora incrostavano i piedi di quei candelabri. Sangue maledetto. E una strega che rideva, celata dal sibilare del vento che faceva sbattere le persiane. Quelle che tanto hanno dannato Rebekah nelle sue ricerche. Camille ne riderebbe, persino. Una vampira millenaria, capostipite persino di una sua personalissima linea di sangue, a caccia di quel che amano tanto gli appassionati di bricolage! Tanto, non le resta più molto altro per essere allegra.

Klaus, invece, le organizzerebbe una festa. Oh, Camille se lo immagina perfettamente, vivido come in una delle sue tele impressioniste. Comprese di pennellate rabbiose e strappi ai margini. Magari anche fatti coi suoi canini, avrebbe dovuto chiederglielo durante una delle sue visite…

Addobberebbe quella stramaledetta chiesa solo per lei. Festoni dorati e color rubino ovunque, un concerto di violini nella conca del coro, un ricco buffet al posto dell’organo – quell’aggeggio secolare, le cui note farebbero tremare e rompere le vetrate ancora rimaste in piedi – e, come tocco finale, una squadra di vampiri ballerini, ipnotizzati per l’occasione, e impegnati in coreografie da far schiattare d’invidia Fred Astaire e Ginger Rogers. Spogliarellisti, anche. Se Rebekah avesse potuto metter becco nell’organizzazione. Sarebbe bastato rinchiudere Elijah da qualche parte, magari con l’aiuto dell’ascendente che Hayley aveva su di lui.

Certo. Come no. E le streghe avrebbero provveduto all’erba magica con cui farci gli spinelli di festeggiamento. E faremmo così tanto casino da spaccare tutte le vetrate in un colpo solo, da far crepare le colonne, e venire giù il tetto…

Ride, Camille. Finalmente. Sola in mezzo alla chiesa, con la sua voce squillante che raggiunge le volte e torna indietro. Proprio come un fantasma. Come quello di suo fratello, del suo gemello impazzito. Reso folle da una magia di vendetta che lei non avrebbe saputo spiegare se non passando per folle ella stessa. E ha solo potuto chinare la testa davanti alla diagnosi, errata, di psicosi latente. Non ha potuto impedire ai ragazzini del quartiere di inventarsi storie su quel fatto terribile. E per attirare più turisti, ovviamente il comitato ha dovuto marciarci sopra. Vanno tutti pazzi per i tour di omicidi efferati, adesso. Nessuno si cura più del fatto che i vampiri sono reali, fintanto che le casse son sempre piene del denaro sonante degli sciocchi turisti all’avventura, che invece di cartoline con cui riempire i loro bagagli, torneranno a casa in un sacco per cadaveri, e il loro sangue a riempire invece le vene sempre riarse dei millenari padroni di quella città.

Camille rinuncia ad elaborare la cosa dal lato psicologico. Non ora che è un’omicida anche lei. Adesso, più di tutto ha bisogno di un lungo bagno e di un’ancor più lunga dormita. Magari proprio in una bara. Rebekah diceva che faceva miracoli, per la sua pelle.

E di uscire da quella vecchia chiesa, e da tutti i brutti ricordi che ancora essa genera.

 

È da tre giorni che

Non suona le campane

Sta soffrendo, è triste

E non ragiona più…

 

Camille non ha tempo di tornare in chiesa, una volta rinata come vampira. Non ha tempo neanche di vivere la sua nuova vita. Quella che immaginava libera e selvaggia, da padrona della notte e di tutte le esistenze che vi respirano. Perché sì, si è concessa il lusso di immaginarsi vampira, bella e forte, con un paio di canini da far schiattare tutti gli idioti che per strada si sarebbero permessi anche solo il pensiero di sopraffarla perché in gonnella. Coi capelli sempre perfetti, come Rebekah, e come lei un controllo mentale solidissimo. Niente più sensi di colpa, niente più psicosi da deprivazione del sonno. Avrebbe triplicato il suo incasso come psicologa a leggere direttamente nel cervellino dei suoi pazienti, e ‘fanculo il giuramento di Ippocrate. Sarebbe saltata da un tetto all’altro, come nei cartoni animati che da piccola guardava la mattina con suo fratello, si sarebbe confusa con le ombre di New Orleans fino a scivolare nel bayou, permettersi di guardare la luna dei lupi da vicino e poi tornare a casa, a ingioiellarsi, non curarsi più di quanto potesse sembrare invece piccola e patetica, ed uscire ancora, a godersi una lunghissima non-vita che avrebbe pensato lei a riempire di passione.

Avrebbe avuto così tante cose da fare, Camille. Ma persino da vampira, il caso non è stato galantuomo con lei.

Così ci torna col pensiero, quando Klaus le regala un ultimo sogno. Il suo ultimo giorno da umana. Piuttosto misericordioso, da parte sua. E strano. Ma ha fatto parecchie cose strane, negli ultimi tempi. Come crescere un cuore, per esempio. Laddove i vampiri non ne hanno nemmeno uno che batta regolarmente. E piangere per lei, quando l’hanno ammazzata a tradimento. Come un gatto randagio che la padrona era troppo pigra per far sverminare. Come l’ostacolo che ha sempre rappresentato per quella bizzarra stirpe che, ormai sa bene, calca la stessa terra degli umani sin dal loro stesso principio.

Non che a Camille sia mai importato qualcosa, della genesi dei vampiri. Non più del necessario per imparare a sopravvivere ad essi. E avrebbe dovuto prevedere una rappresaglia di quel tipo.

Non il giorno di Natale, s’era detta. Sbagliando. Solo suo zio teneva ancora a certe cose. Come la preghiera al mattino, un regalo a testa sotto l’albero e che non avrebbero potuto aprirli se prima non fossero andati a messa.

Sembra tutto così futile, ora che sta morendo. Bello, luccicante e distante. Come il rosone di St. Anne, Camille lo rivede chiaramente. E pensa di essere appena entrata nel delirio che la scorterà velocemente verso la fine di tutto. O i vampiri hanno diverse esperienze di pre-morte? Non che le chiacchiere col suo paziente fisso gliel’hanno rivelato. Pazienza. Lo scoprirà in prima persona.

Le hanno tagliato la gola. Razionalmente, Camille sa che ha pochi istanti ancora da vivere, qualche secondo in cui potrà sperimentare se è vero che ti passa davanti tutta la vita, nell’istante prima di morire, anche se non sei più un essere umano e chissà se è vero che hai un’anima ancora da salvare o è tutto sangue che scorre e impulsi nervosi. Vedrà il buio siderale? O tutte le storie del catechismo su dannati tra le fiamme e angeli sulle nuvolette saranno vere, in fin dei conti? O non sentirà nulla, sarà come spegnere un interruttore e neanche ci penserà più, a quelle domande esistenziali?

Un istante prima, stava bevendo un caffè con Klaus, circondata dal carnevale del martedì grasso. Un’illusione piuttosto vivida, doveva riconoscerglielo. Camille riusciva persino a sentire l’afrore del caffè tostato e quello dei dolci fritti, il prurito del pulviscolo e dei coriandoli, e le mille e più voci, canti e grida che le ferivano le orecchie. Le pareva di essere a casa. La sua vera casa, tra la gente viva e di sangue pulsante.

L’istante dopo, è di nuovo bambina. Ha freddo, è in chiesa e suo fratello, il suo gemello, sta officiando la messa. Nessuna strega l’ha maledetto, e i vampiri sono soltanto una fiaba lontana nei suoi ricordi.

Suo zio è all’altare, fa le benedizioni ma rivolgendo le spalle alla folla. Tutte le persone che Camille conosce, riempiono i banchi. C’è gente persino ammucchiata ai piedi del coro, come non ne vedeva da anni.

C’è il tutto esaurito, direbbe Marcel, solo che non è lì con lei. Quello è un sogno soltanto suo, e che Klaus pare non avere intenzione di violare.

Camille pensa invece che, se si voltasse indietro, lo vedrà comunque sulla soglia del portone, anche se a braccia conserte ed espressione annoiata in volto. Ma lo stesso presente. A tener d’occhio la situazione, che tutto vada come deve andare. O se qualche particolare di quel sogno necessita di un colpo di forbice, o meglio ancora, di pennello e trementina. Certe paranoie non vanno via così facilmente. Specie se sei un maniaco del controllo da più di trecento anni e passa.

Le viene da sorridere, ed è così facile. Perché è un sogno, le suggerisce la sua mente razionale di psicologa mancata. Se non si trovasse in un sogno, non sarebbe tutto così bello.

Le vetrate sono tornate luminose e pulite, con le immagini dei santi che gettano un delicato arcobaleno su tutti loro. Come una benedizione tardiva. O una carezza data distrattamente. La mano di Dio che non si dimentica dei suoi fedeli, le avrebbe detto suo zio. A Camille non importa. Si sente in pace col mondo, e chi se ne frega se è soltanto un sogno. L’ultimo della sua vita.

Non c’è più odore di sangue e morte nell’aria. Solo incenso profumato, che si spande fino alle volte sul soffitto, dove l’affresco di un cielo stellato sorride a tutti loro. L’aria vibra della fremente attesa dell’alleluia libera tutti, e della musica che preme contro il portone e si infiltra da ogni fessura. C’è il carnevale, fuori, si sta riversando nelle strade di tutta New Orleans e forse anche oltre. Neanche lei vuole mancare.

Per cui, da brava bambina, Camille aspetta fino alla fine che suo zio benedica l’ostia sacra e il vin santo, sforzandosi di non fare smorfiacce a suo fratello. Anche perché immagina che si sarà rubacchiato due ostie, giù in sacrestia, prima dell’inizio della messa. Se le divideranno dopo, riparati dai carri festanti, dalle lunghe falde e gonne dei costumi carnevaleschi e con la pioggia di coriandoli e collane a rendere quel martedì il giorno più magico di tutto l’anno. Il migliore della sua vita.

Un lieve riverbero di luce colpisce il candelabro di fronte a lei, e il riflesso la acceca appena. Un istante solo. Quanto basta a farle ricordare che sta morendo, e che la sete che ancora avverte non è naturale. Il morbo del vampiro - perché di questo, si tratta - non la abbandona ancora.

E che da sotto il suo banco, dove le nonne della chiesa custodiscono bibbie, rosari e biglietti che lei da piccola non riusciva ad aprire, ma che ora sa che contengono potenti incantesimi, mischiato all’odore aromatico dell’incenso e quello altrettanto forte dei profumi di cui tutta quella folla s’è cosparsa, arriva anche un lieve odore di…fritto?

Camille caccia le mani sotto il legno, badando bene a non farsi vedere da suo zio. La fila per la comunione sta quasi giungendo al termine, deve fare in fretta.

Le tira fuori stringendo un cartoccio caldo, appena inumidito sul fondo dall’olio di cui s’è imbevuto nell’attesa. E sorride ancora, Camille. Non le serve aprire quel regalo inaspettato per sapere cosa contiene. Né mangiare uno dei dolcetti fritti custoditi all’interno, per ricordare il buon sapore che hanno.

Il sapore di casa, di ricordi felici, di benedizioni arrivate senza che nessuno le chiedesse. Come quel sogno. Come quell’ultimo giorno più bello della sua vita.

E c’è solo una persona che deve ringraziare, per tutto quello, ed è chiudendo gli occhi, a trattenere le lacrime, che Camille gli rivolge un ultimo pensiero. Immaginando che Klaus, ormai, se ne sia andato da un pezzo. I finali lieti non fanno per lui, le aveva detto una volta. Lei pensa semplicemente che gli piaccia fare la figura dell’eroe tormentato che cavalca solitario verso il tramonto. Dopotutto, ha un anello solare per proteggersi dal sole. Alla fine, ha scoperto che non tutte le dicerie sui vampiri erano false. Ma soltanto alla fine, e non le è servito un granché. Camille si scopre anche non essere poi così risentita come prima.

Quando suo zio dà la benedizione alla folla, e le campane suonano a festa, il portone viene spalancato di colpo. Una luce forte, calda, invade la navata, rende quasi incandescenti il ferro lucido dei candelabri e i vetri colorati del rosone. E una musica splendida, la più bella che Camille abbia mai udito, invade con essa la chiesa. Devono andare, pare dire a tutti loro, il carnevale è iniziato. Non possono mancare.

Camille stringe la mano di suo fratello, e si avvia lungo la navata. Verso quella luce. Fuori dalla chiesa, e da tutto ciò che essa ricorda e manterrà custodito. Per lei. E per nessun’altra. Anche se Camille non può saperlo.

 

Gesù Cristo che adoriamo

Quali figli preferì?

I Re Magi e il loro oro

O noi, che strisciamo qui?

 

La chiesa di St. Anne è stata sigillata dalla polizia, dicono giù in città, tra le bettole di vampiri diurni e quei pub che gli stessi vampiri lasciano liberi da frequentare ai turisti. Quegli sciocchi conigli a caccia di un mistero occulto, di incantesimi di lavanda e origano, che non riveleranno mai loro il senso della vita, né faranno mai per davvero innamorare la persona amata e che non li guarderà mai come desiderano.

Dicono che il consiglio comunale voglia persino abbatterla. Questa voce è più insistente, è arrivata fino alle orecchie delle streghe asserragliate nelle vecchie cripte, giù al cimitero di Lafayette, e ai branchi di lupi mannari ancora dispersi nel bayou, alla ricerca di una guida che non troveranno mai. Mai. Ed è bene che non succeda.

Solo Klaus ha la forza di compiere un ultimo sacrilegio. Lo faccio perché posso, si era detto, uscendo dalla sua prigione a forma di villino coloniale. Lo faccio perché sono maledetto, e nel pensarlo, gli era arrivata un poco di quella malevola soddisfazione, unico suo conforto nelle nottate infinite da che si era mutato in una bestia assassina. La stessa che compariva nei grimori di sua zia, e che lui derideva. All’epoca, la chiamava in maniera diversa. Credendo che i vampiri sarebbero rimasti impressi solo e soltanto in quelle vecchie pagine di pelle di pecora. E che non ne avrebbe mai visto uno per davvero, e soprattutto non nel proprio riflesso.

Scardina i sigilli che lui stesso ha persuaso il tenente di polizia locale ad applicare sul portone di quella chiesa maledetta. Maledetta in più di un senso. E non solo per una stradannata ironia della sorte. No, quella Klaus preferisce lasciarla a Marcel. Detesta ammetterlo, ma è bravo quanto lui a gestire il quartiere francese e le loro piccole, sciocche scaramucce. Lo distraggono quanto basta dall’allentare la presa sulle sue stesse mire espansionistiche, ogni giorno di più. E in quel giorno, il povero, caro Marcel ha scelto di vestire i colori del lutto. Gli fa pena, ma sotto sotto, Klaus lo invidia. Non tutti i vampiri possono permettersi di abbandonarsi a certe debolezze con un’ingenuità così estrema. Lui non può permetterselo.

E non è forse quello che sto invece facendo?

Si dà dello sciocco, chiaramente. Ma già a mettere un piede su quelle pietre fredde e rese lise dal tempo, la lunga navata che lui ha visto ricoperta di più sangue di quanto non immaginano le adorabili vecchiette che fino a qualche giorno prima si recavano lì, in quei banchi stretti e scomodi, a recitare i loro bravi rosari e ave Marie – be’, non può nascondere a se stesso di sentirsi un poco meglio. Ma solo un poco. Un minimo. Quel tanto che lo lascerà vagare per tutta New Orleans, sbronzarsi in una bettola qualsiasi, ripulita da quelle streghe maledette, ed evitare di uccidere quanti più umani possibile.

Si chiude il portone dietro di sé. Meglio evitare altri scocciatori. La dannata porta cigola, come in uno stradannato film dell’orrore. Elijah riderebbe di lui, Klaus lo sa. Lo riterrebbe ancora un moccioso che ha paura delle ombre sotto al letto. O dentro la bara, per quel che può valere. Per un vampiro, non fa mai molta differenza.

Si avvia verso l’altare spoglio e vuoto, nella speranza di mettere a zittire anche quei pensieri del diavolo. Ma sa già che lo farà più tardi, con l’aiuto di una bottiglia di buon vino e due o tre streghe dissanguate. Marcel non ne avrà a male, in fondo gli farà un mero favore averne di meno in giro, di quelle parassite so-tutto-io. Anche se adesso è più preso da un lutto che difatti gli appartiene poco, per tenerlo d’occhio e sotto controllo, neanche fosse lui il maggiore, tra i due.

Tutto il quartiere è in lutto, in verità. Perché non c’era anima che non arrivasse a voler bene a Camille. Klaus lo sapeva. E l’aveva intuito persino Lucien. Ma non ‘stasera, no. Klaus penserà a lui da domani. Quando il sole sorgerà, il primo filo dell’alba che salirà a rischiarare l’orizzonte, e Klaus lascerà libero il pazzo assassino che dorme assopito dentro di lui, al momento ancora stravolto da un dolore che né lui stesso, né la sua rivoltante famiglia, credevano fosse ancora in grado di provare.

Non c’è luce, in quella chiesa. I candelabri sono privi di candele. E la luce dei lampioni elettrici, di fuori, non arriva fino alle vetrate, neppure per far intuire a Klaus il cammino che sta seguendo, trascinando un piede dopo l’altro. Rischia di metterne uno in fallo e inciampare contro una statua. Molto sciocco, per un vampiro millenario dai sensi ultra-amplificati e super-allenati.

Per cui, Klaus preferisce sedersi a un banco, uno qualsiasi. Per lui, non ha mai fatto differenza: quelle lunghe panche in legno, il trono del prete, le sedioline ridicole dei seminaristi...non erano nulla, dopotutto, in confronto al potere di cui un re non ha bisogno di avere un trono, per esercitare.

Era entrato in chiesa una volta sola, in tutta la sua vita impossibilmente lunga. E certo non per sposarsi. Oh, forse a Katerina sarebbe piaciuto. Prima di rivelarsi ancora più strega di quelle che non hanno fatto altro che dargli il tormento sin da che è tornato a New Orleans.

Dicevano di agire per un fine più alto. Di agire per portare la pace tra le varie fazioni. Baggianate. Tutti discorsi che mascheravano il più bieco interesse egoistico. Klaus aveva visto da vicino le crociate, i cavalieri segnati dalle croci rosso sangue che di sangue ne facevano scorrere quanto e come durante una delle sue cacce personali. Uccidevano in nome di Dio. Un paradosso più sacrilego, secondo la loro folle dottrina, non poteva esistere. Ed eppure, non erano poi così dissimili da lui.

Gli occhi gonfi, Klaus alza lo sguardo verso il rosone buio. Non distingue un solo colore dei vetri in quegli spicchi. Aveva visto opere come quella, colonnati intarsiati, statue di santi, altari magnifici, venir portati in alto da macchinari ancora più immaginifici, e con altrettanta rapidità, rovinare al suolo e spaccarsi in mille pezzi e più mille ancora, fino a diventar cenere. Chiese come quella venivano costruite e demolite nel tempo che per Klaus rappresentava un mero giorno di vita di un fragile, sciocco essere umano. Com’era lui, un tempo. Com’era Camille, neanche un giorno prima.

Perché, vorrebbe chiedere. A quel Dio che i preti dicono lo starebbe guardando da lassù, da dietro quei grandi vetri colorati e che la sera tinge di nero pece. La sua personalissima grata del confessorio. Ma più grande, chiaramente. Cos’è un re in confronto a un dio, dopotutto…

Perché me l’hai portata via?!

Anche a urlarlo, con tutta la forza che ha, Klaus non riceve risposta. E non importa quanto urli ancora, la sua voce non arriverà mai a spaccare quei muri di pietra, né incrinare il ferro di quei candelabri, non avrebbe reso in cenere quei banchi di preghiera né le bibbie o le ostie o i calici. Dio sarebbe rimasto indifferente al suo stupido, insolente, umanissimo dolore, esattamente come la sua adorata casa di pietra. Una casa fredda per un padre insensibile. E se Klaus fosse un attimo appena più lucido, apprezzerebbe il paragone col suo, di padre.

Cade in ginocchio davanti all’altare. Non sa nemmeno com’è arrivato fin lì. Né come finisce a singhiozzare, aggrappandosi alla dura pietra, quasi a incidervi le sue unghiate.

Camille è morta. Una sola cosa buona, Klaus credeva di fare. E non è riuscito neppure in quella. Nella più semplice di tutte. Far restare Camille in vita. Lei e la sua bontà. E la sua sincera, fastidiosa, oh così nostalgica umanità. Dio non s’era fatto anche lui uomo, dopotutto?, gli torna alla mente. Parole vuote di una dottrina che non ha mai seguito per davvero. Ma se così fosse stato, perché non aveva avuto pietà di Camille? Perché aveva risparmiato invece lui, mostro che meriterebbe le pene infernali?

Klaus alza gli occhi, ancora una volta. Cristo inchiodato lo guarda dalla sua croce. Indifferente, volto di legno in tutto e per tutto. Non importa che abbia gli occhi rovesciati, il sangue che gli cola sulle guance e i lividi sulla pelle. Non avrà mai pietà di lui. Nessuno ne avrà.

Solo Camille ne aveva, e adesso è morta.

 

Il giorno dopo, saranno tre ragazzini a trovare il portone di St. Anne aperto, i sigilli della polizia sciolti. Volevano entrare per tirare sassi alle vetrate, magari anche per rubarsi due calici d’oro e rivenderli per un po’ di roba con cui sballarsi il sabato sera, ma scopriranno che ci ha già pensato qualcun altro, prima di loro.

I banchi di legno sono rivolti, dilaniati neanche fossero stati di carta velina. L’altare è graffiato, la pietra incisa violentemente, come fosse stata burro in cui un perditempo vi avesse infisso un coltello. Tutti i frammenti di vetro costellano il pavimento della navata, e alle pareti non c’è più una sola immagine di santo a rischiarare quel luogo di pace tramutato in una notte in un antro infernale. Il rosone è ridotto a un buco, pare l’occhio ingordo di un gigante. Il crocifisso appeso al soffitto non c’è più. I poliziotti ne troveranno i resti sul retro della chiesa, smembrato come fosse stato una vittima sacrificale, la testa dilaniata in più parti. Decreteranno ufficialmente che è stata l’opera di vandali notturni, mentre al consiglio riferiranno di incrementare la sorveglianza su streghe e vampiri. Che a loro volta se la prenderanno coi lupi mannari.

A Klaus non importerà nulla comunque.

La corona di spine di quel crocifisso, se l’è tenuta per sé.

 

Luna

Come sei lontana

Così

Silenziosa e vana

Ma qui

Ruggisce il cuore della bestia umana

 
   
 
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