Disclaimers: niente mi
appartiene; Attack on Titan (Shingeki No Kyojin) e tutti i suoi
personaggi sono di proprietà di Hajime Isayama.
Titolo della one-shot:
Leave Out All The Rest
Personaggi: Levi
Ackerman, Hanji Zoë
Timeline: post 4x18
Note
dell’autrice: il titolo è tratto da una canzone
dei Linkin Park. Nonostante sia una post 4x18, ci tengo a precisare che
non tiene conto di alcuni avvenimenti e dialoghi presenti in
quell’episodio; nello specifico, Hanji non sa che Levi ha
sentito tutto il suo discorso a voce alta mentre
“dormiva” e Levi non le dice che fuggendo e
nascondendosi non otterranno nulla. Secondariamente, a discapito di
ciò che succederà nella storia, Levi ed Hanji non
li shippo come coppia.
Spero che la one-shot
vi piaccia e le recensioni, così come le critiche
costruttive, sono sempre ben accette. -Martina-.
LEAVE
OUT ALL THE REST
«Levi?»,
flebile e bassa, una voce ben conosciuta – stranamente
morbida e dolce – lo
stava chiamando. «Levi, svegliati»,
continuò quella voce inconfondibile alle
sue orecchie e ad essa si aggiunse una mano a scrollargli leggermente
la
spalla.
Levi,
ancora mezzo intontito, si scosse pian piano dal torpore in cui era
caduto da
parecchie ore e aprì la palpebra sinistra, unico lembo di
pelle scoperto dalle
bende. Incontrò lo sguardo di Hanji, che lo stava fissando
con la testa
inclinata da un lato.
«Finalmente
ti sei svegliato», gli disse, sorridendo. «Per un
attimo ho creduto avessi
tirato le cuoia.»
«Che
diavolo vuoi, quattrocchi?»,
sbottò
subito lui, con voce roca, alzandosi leggermente con il busto e
reggendosi
quindi sui propri gomiti.
«Sei
sempre il solito scontroso, vedo», Hanji scosse il capo,
ridacchiando. «Devo
controllarti le ferite e cambiare le bende»,
decretò, con tono ora autorevole e
serio.
Levi
sospirò, quasi scocciato, ma evitò di protestare.
Si raddrizzò con la schiena, gemendo
sommessamente di dolore; spostò la coperta e
incrociò le gambe, rimanendo in
vigile attesa. Hanji si sedette accanto a lui e cominciò a
togliergli le
fasciature dal viso e dall’occhio destro, delicatamente. Gli
prese il mento fra
due dita e attenta, scrutandolo a fondo, osservò tutti i
punti di sutura che
lei stessa, con una maestria degna di nota, gli aveva cucito sulla
pelle.
«Le
ferite stanno guarendo», sentenziò con un sorriso,
prendendo le fasce e
srotolandole con abilità, pronta ad iniziare col nuovo
bendaggio. «La
cicatrizzazione procede bene anche se a rilento, ma almeno non
c’è alcun segno
di infezione.»
Levi
la guardò con l’occhio sano, poi lo chiuse. Hanji
era veloce ma delicata mentre
gli passava le fasciature intorno al volto sfigurato, una delicatezza
che mai
avrebbe creduto potesse appartenerle.
«Ecco
fatto!», esclamò lei non appena ebbe finito,
soddisfatta del proprio lavoro, e
fece per alzarsi quando Levi la bloccò per un polso.
«Cos…?», farfugliò, presa
in contropiede, ma lo sguardo che le stava rivolgendo il Capitano era
così
indecifrabile ed intenso che le parole le morirono il gola.
L’occhio
sinistro di Levi – grigio come una giornata di pioggia, ma
imperturbabile come
una notte serena – era incatenato all’occhio destro
color nocciola di Hanji –
ora sbarrato, la pupilla dilatata come una crepa nel tempo –,
la quale anelava
una risposta a quel gesto repentino ed inaspettato.
«Ti
ringrazio, quattrocchi»,
le disse
infine lui, la voce calda e profonda di chi non mente. «Mi
hai salvato la vita rischiando
di perdere la tua e adesso ti stai prendendo cura di me ogni
giorno», concluse
mentre, non senza fatica, cominciava a rimuoversi le bende con
la mano sana,
sotto lo sguardo esterrefatto e sbigottito della Comandante, che si
vedeva tutto
il perfetto lavoro di bendatura andare in completa rovina.
«Levi,
brutto nanerottolo che non sei
altro!», strillò, piuttosto adirata, le mani
chiuse a pugno sui fianchi. «Te le
ho appena messe! Non puoi…», tentò di
ribattere, ma il Capitano era stato fin
troppo svelto e il suo volto sfigurato era tornato libero, illuminato
dal fuoco
acceso nella penombra della foresta in cui erano nascosti.
Levi
le prese la mano e, dolcemente, ne fece appoggiare il palmo aperto
sulla propria
guancia offesa.
«Queste
cicatrici saranno per sempre testimoni di ciò che hai fatto
per me», le disse,
quasi schernendosi; non era per niente facile per uno come lui
– il soldato più
forte dell’umanità, l’uomo tutto
d’un pezzo che non si faceva piegare da niente
e nessuno – lasciarsi andare a quel tipo di dichiarazioni ed
emozioni, e ciò gli
costò un enorme sacrificio. «Queste cicatrici sono
la prova della persona straordinaria
che sei, Hanji Zoë.»
Hanji
rimase di stucco a quelle parole. Deglutì a vuoto,
sentendosi sottosopra; poi,
per sbrogliare la tensione che le aveva annodato lo stomaco, si
lasciò andare
alla sua tipica risata sfrontata, goliardica e a dir poco spaventosa.
«Oh,
Levi!», scoppiò, sbellicandosi. «Il
tè che tanto adori ti ha dato alla testa?»,
lo prese in giro, tenendosi la pancia contorta dalle risate.
«Per fortuna non
hai bevuto il vino di Marley, altrimenti chissà cosa saresti
stato capace di
inventarti da ubriaco!»
Levi
la fulminò con lo sguardo, indignato.
«Tsk,
maledetta quattrocchi»,
sbottò,
incrociando le braccia al petto.
«S-scusa»,
cercò di dire Hanji, mentre le sue risate stridule, a poco a
poco, si
placavano, fino a cessare del tutto. «Cerca di capirmi, non
ho mai avuto il piacere
di vederti a cuore così aperto.»
«Sei
proprio un’idiota, quattrocchi di
merda»,
la apostrofò, borbottando. «Mi rimangio tutto
ciò che ho detto prima.»
L’ultima
risatina giocosa della Comandante, allietata dallo scambio di battute
con
Levi, si librò nell’aria, spandendosi man mano in
un’eco sempre più remota. Un refolo
di vento leggero ma deciso sopravvenne improvviso, innalzando un
sottile strato
di polvere dal terreno, e le foglie frusciarono danzanti fra gli alberi
alti e
fitti, i quali rivelarono il primo timido scorcio argenteo di luna
nascente,
incastonata in quell’oceano di inchiostro blu che era il
cielo.
«La
sai una cosa, quattrocchi? Poco
prima
che mi risvegliassi, durante il dormiveglia, sono riuscito ad ascoltare
quel tuo
strambo discorso sull’essere costretti a vivere come dei
fuggitivi, a
ritrovarsi dentro una gabbia nonostante ci si sforzi continuamente di
fare la
cosa giusta», snocciolò Levi, rompendo bruscamente
il silenzio in cui erano
entrambi piombati, sdraiandosi su di un fianco e puntellandosi sul
gomito, la
tempia appoggiata contro il palmo aperto della mano mutilata.
«Ma ti ho sentito
dire anche un’altra cosa.»
«Quale?»,
chiese lei, quasi timorosa.
«La
proposta di voler vivere qui, insieme a me.»
Hanji
lo scrutò un attimo, poi abbassò lo sguardo.
«Parlavo
sul serio quando l’ho detto», ammise, tormentandosi
le mani. «A te
dispiacerebbe?», continuò, prendendo il coraggio
necessario per rialzare il
viso e tornare a guardarlo. «Non piacerebbe anche a te vivere
qui e…»
«Sì»,
la interruppe subito Levi, una fermezza nella voce che non ammetteva
repliche.
«Sono stanco, Hanji. Sono stanco di combattere quei Giganti
del cazzo, di quel
lurido figlio di puttana di Zeke e di quel moccioso presuntuoso di
Eren. Sono stanco
di tutto il sangue che viene versato, dei nostri compagni che muoiono
in
battaglia, compagni che io stesso ho visto morire e che sono stato
persino
costretto ad uccidere», confessò tutto
d’un fiato, in un tumulto misto di
rabbia, rancore, dolore e frustrazione. «Sono stanco di
questa vita schifosa in
cui non c’è un solo fottuto attimo di
pace», batté un pugno a terra, serrando
le mascelle, e fissò Hanji. «Ho visto solo morte e
distruzione per troppo tempo,
sin da quando ero un bambino. Quindi sì, quattrocchi:
io vivrei qui, lontano da tutta la merda che c’è
là fuori, insieme a te.»
La
Comandante non disse niente; qualsiasi parola sarebbe risultata
superflua,
inutile. Si limitò quindi ad assorbire lo sfogo di Levi,
portando le ginocchia al
petto ed appoggiandovi sopra il mento.
“Io
vivrei qui, insieme a te.”
Sorrise
e lasciò che quelle parole risuonassero nella sua testa,
cullandola come la più
dolce delle ninne nanne, portandola via, almeno per un po’,
dai suoi stessi
tormenti.
****
Quando
si accorse che l’aria era diventata più fredda, Hanji dovette scuotersi dal torpore che
l’aveva sovrastata. Si
alzò per ravvivare il fuoco aiutandosi con qualche rametto
secco, si scaldò le
mani davanti ad esso per qualche minuto, poi si voltò verso
il proprio compagno
d’armi, ancora steso sul lato destro, la palpebra chiusa
nonostante fosse
sveglio e la fronte aggrottata, perso in chissà quale
pensiero.
«Dovresti
coprirti», gli suggerì, premurosa. «A
breve farà buio e la temperatura si
abbasserà… rischi di prenderti un
malanno.»
«Sto
bene così», tagliò corto lui, senza
nemmeno aprire l’occhio. «E tu dovresti
imparare a farti gli affari tuoi, quattrocchi.»
La
Comandante alzò gli occhi al cielo e scosse la testa,
esasperata.
«Nanerottolo impertinente», lo
rimproverò, beffarda.
«Quattrocchi di merda»,
replicò subito
lui, ma l’angolo della sua bocca era piegato in un sorriso
piuttosto divertito.
Hanji
si stiracchiò la schiena, portando in alto le braccia, e
tornò a sedersi vicino
al suo compagno. Rimase a guardare come le fiamme crepitanti e vivaci
del fuoco
creavano uno strano gioco di luci ed ombre sui suoi capelli corvini dal
taglio
militare e sul suo viso deturpato, rendendo la sua peculiare
espressione –
glaciale, seriosa, impenetrabile – inspiegabilmente dolce.
«Levi?»,
lo chiamò piano.
«Che
c’è ancora?»
«Niente,
volevo solo…», si bloccò, mordendosi il
labbro inferiore con i denti. «Volevo
solo fare questo», mormorò infine, circondandogli
un fianco discinto con il
braccio e tirandoselo piano addosso, con estrema delicatezza, attenta a
non far
male al suo corpo già molto provato.
Levi
sgranò l’occhio, colto alla sprovvista, ma non
fece niente per opporsi, anzi, ricambiò
quella stretta disordinata, quasi goffa, e vi annegò dentro
con tutto il suo
essere, sospirando rilassato.
Hanji
gli passò le dita fra i capelli, sorreggendogli la testa, e
lo strinse un po’
più forte a sé, petto contro petto, cuore contro
cuore, anima contro anima.
Quell’abbraccio le ricordò il terribile momento in
cui lo aveva cinto per
proteggerlo quando lo rinvenne esanime, con la carne del volto
scheggiata
dall’esplosione della lancia fulmine, imbrattato del suo
stesso sangue e due
dita strappate via, ancora incastrate nel grilletto
dell’impugnatura del
movimento tridimensionale. Le lacrime salirono e lei strizzò
l’occhio per
contrastarle, un nodo alla gola a mozzarle il respiro.
«Levi»,
sussurrò, il viso nascosto nell’incavo del suo
collo niveo. «Oh, Levi, non sai
quanto io sia felice che tu sia
ancora vivo!», rivelò infine, in un singulto che
non fu in grado di bloccare,
traboccante di sentimenti misti ed indecifrabili. «Non
credevo saresti
sopravvissuto, non questa volta.»
Il
Capitano sbuffò una risata di scherno dal naso.
«Riponi
così poca fiducia nei miei confronti da avermi dato subito
per spacciato, quattrocchi?»,
ribatté sardonico,
sciogliendo l’abbraccio e rivolgendole uno sguardo insolente,
sfrontato.
«L’erba grama come me non muore molto
facilmente.»
Hanji
si asciugò in fretta e furia una lacrima che era sfuggita al
proprio controllo,
sentendosi un’emerita sciocca.
«Perdonami,
sono la solita cretina che ha reazioni sconclusionate.»
Levi
ridacchiò di gusto – cosa che non faceva mai
– e improvvisamente, mosso da una
volontà più grande di lui, allungò il
braccio per accarezzarle una gota con i
polpastrelli. Vide Hanji avvampare subito sotto il suo tocco, la pelle
bollente
come un tizzone ardente. Senza interrompere il contatto visivo, fece
scivolare
il pollice sinistro sulla sua bocca dischiusa, lambendone il labbro
inferiore
come ipnotizzato. Non seppe come successe, tantomeno perché,
ma si sporse in
avanti e, delicatamente, poggiò la propria bocca contro
quella di lei.
Hanji
si sentì spiazzata, disorientata, la testa che le vorticava
e il cuore che,
galoppante, le batteva talmente forte che credette volesse spaccarle la
cassa
toracica ed uscirne fuori. Ci fu un attimo – un brevissimo attimo – in cui ebbe
l’istinto di toglierselo di dosso, magari
schioccandogli anche un sonoro schiaffo, ma le labbra di Levi erano
così morbide
e calde, così accoglienti ed invitanti da mandarle in
arresto immediato il
cervello, spegnendo ogni suo più piccolo barlume di
razionalità. Gli cinse il
collo con le braccia, completamente rapita, dominata da
un’emozione mai provata
prima di allora, un’emozione che le donò un
brivido lungo la schiena ed una scossa
di piacere lì – proprio
lì – nel
basso ventre, nel più profondo recesso di sé
stessa.
Fu
in quel momento che Levi, sentendola ormai così lasciva, si
fece più audace: la
costrinse ad aprire la bocca, spingendo la lingua ed incontrando la
sua, divorandola
affamato e bramoso, saziandosi di lei, beandosi dei suoi gemiti
sommessi.
Hanji
fece scorrere la punta delle dita sul torace nudo del Capitano e ne
saggiò i
muscoli massicci e forti, la carne tesa, la pelle rovente; infine,
premendo i
palmi delle mani sui suoi pettorali, lo spinse dolcemente per
allontanarlo.
«Piano,
Levi», mormorò, il respiro affannato,
le bocche gonfie e tumide che ancora si sfioravano. «Non
voglio che la
cicatrice sul labbro si riapra e…»
«Non
m’importa», decretò Levi, afferrandola
per la nuca e facendo collidere di nuovo
le loro labbra in un bacio feroce, fatto di denti che si scontravano,
di lingue
che lottavano, di salive che si mischiavano.
Non
erano baci d’amore quelli che si stavano scambiando, lo
sapevano entrambi.
Erano baci per non sentirsi più calpestati ed annullati
dalla solitudine di
quel mondo che li aveva resi infelici e miserabili, per tenersi
ancorati a
quella esistenza tanto odiata quanto preziosa. Erano baci per
aggrapparsi alla
speranza che, in quella realtà crudele e disumana, ci
potesse essere ancora qualcosa
– qualcuno – di
buono per cui valeva
la pena combattere.
****
La
notte calò e con essa anche il buio. Hanji, non senza
guerreggiare contro
repliche e proteste di vario genere, convinse Levi a sistemarsi sotto
la
coperta.
«Devo
rimetterti le bende che hai tolto», sancì lei,
categorica. «Se si infettano…»
«Più
tardi», la bloccò Levi, con voce roca.
«Più tardi mi rifarai il bendaggio, ma
adesso vieni qui», e la prese delicatamente per un polso,
trascinandola verso
di sé. «Dormi con me, stanotte.»
Hanji,
ritrovatasi in ginocchio, arrossì candidamente, spiazzata da
quella richiesta.
Lo scrutò in volto e non le ci volle poi molto per capire
che non stava affatto
scherzando.
«Va
bene», acconsentì, stendendosi accanto a lui e
sorridendo, prima di puntargli
addosso un indice. «Però ti avverto: io
russo.»
«Oh,
questo lo so fin troppo bene, quattrocchi»,
ghignò Levi, ormai forgiato da tutte le memorabili russate
cui la Comandante,
ogni qualvolta erano costretti a dormire all’addiaccio,
sottoponeva le povere
orecchie di chiunque, fossero essi semplici sottoposti o valorosi
soldati.
Hanji
gli diede un colpetto divertito sulla spalla nuda e la mano sinistra di
Levi
corse a spostarle una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
Abbozzò un sorriso
e, prendendole il mento fra le dita, si sporse per baciarla di nuovo,
ancora
una volta, grato di avergli donato – anche se solo per pochi
giorni – la
parvenza di una normalità a lui sconosciuta.
Fu
un bacio delicato, tenero. Un bacio che volle dire tutto e niente,
pieno di giuramenti
e menzogne, gioia e dolore, paradiso ed inferno.
In
quel bacio, però, Levi riversò anche tutta la
propria sofferenza, una
sofferenza che Hanji, meglio di chiunque altro al mondo, aveva provato
sulla
sua pelle. Si aggrappò a lei, a quel bacio disperato, e gli
vennero in mente
Furlan ed Isabel, Petra ed Erwin, Varys e tutti i suoi soldati caduti;
pensò a
quanto era stato straziante dover dire addio alle persone a lui
più care, uno
strazio che non riusciva più a sopportare, come un dannato
macigno che gli
schiacciava continuamente il cuore e le viscere.
Con
quel bacio Levi si ritrovò a pregare. Pregò pur
non credendo in niente e in
nessuno. Pregò nonostante fosse consapevole di quanto la
vita è bastarda e li avrebbe
rincorsi col suo carico di merda fino a quando non
gliel’avesse sbattuta in
piena faccia, impedendo loro di poter essere finalmente liberi, di
poter restare
lì, insieme, senza il
costante fetore
della morte insidiato fin dentro le narici.
Con
quel bacio, Levi pregò affinché Hanji potesse
trovare la felicità, affinché la
stessa sorte toccata ai suoi vecchi compagni non toccasse anche a lei.
*