Storie originali > Generale
Segui la storia  |      
Autore: Cleo_de_Merode    06/08/2023    0 recensioni
Sono una docente di scuola media e ho scritto questo breve diario per raccontare, in una manciata di capitoli, alcuni dei momenti più significativi dell'anno scolastico appena trascorso. Il destino mi ha portato in un ambiente che mi ha dato tantissimo a livello umano, con colleghi dai caratteri sicuramente diversi (in questo caso condizione ideale per creare un bel gruppo assortito e affiatato). E mesi fa ho pensato: "Perché non scrivere qualcosa in merito? A volte sembriamo quasi i personaggi di una sit-com!". Ed è così che è nato questo piccolo diario... spero sia piacevole!
Genere: Generale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
1.  Sul treno

Ogni mezzo pubblico è una specie di microcosmo mobile, una piccola realtà che, per pochi minuti o qualche ora, riunisce persone destinate a rivedersi ogni giorno oppure, spesso, a non incrociare più i propri cammini. Il mio treno era un regionale, uno di quei famigerati regionali che nell’immaginario comune “non arrivano puntuali neanche per sbaglio” oppure “se si fermano vanno a spinta”. Mezzi di svariati decenni fa, con addosso i segni del tempo trascorso e dei chilometri macinati, ma che ancora oggi svolgono il lavoro di traghettare qualche sporadico passeggero: anziani, studenti o semplicemente gente che, come la sottoscritta, si ostina a tenere la patente nel cassetto da anni.
Sono le sei e un quarto del mattino e sulla banchina non c’è nessuno, fatta eccezione per un addetto alle pulizie che, con invidiabile buonumore, comincia la sua giornata fischiettando. Nonostante manchi circa un quarto d’ora alla partenza, le porte del treno sono già aperte. Salgo e, prima di prendere posto, mi guardo attorno. Qui i problemi di spazio che affliggono di solito i mezzi pubblici non esistono: anche la mia borsa da lavoro ha un suo posto e, se mi facessi qualche problema in meno, potrei addirittura stendere le gambe sul sedile davanti. Come d’abitudine mi accomodo vicino al finestrino che, per una come me, è sempre un compagno di viaggio ideale. Silenzioso, discreto, eppure al tempo stesso mai banale, con un susseguirsi di argomenti che non impediscono di avere in testa un sottofondo a scelta, che si tratti di un brioso brano degli anni Ottanta, di un malinconico Battisti, di un Venditti degli anni d’oro o, più semplicemente, di pensieri in libertà. Spesso si dice che guardare fuori dal finestrino stimoli la fantasia, induca a vedersi “protagonista” di una storia. Quale storia? Una storia che è tutto un viluppo di “se” e “chissà”, in cui il nostro vissuto passato e presente si intreccia a fili di futuro che immaginiamo diversi a seconda dell’umore con cui guardiamo attraverso quel vetro, tacito testimone di chissà quante e quali fantasie prima delle nostre… E intanto le note - o i pensieri - accompagnano lo scorrere di montagne, alberi, vecchi casolari, animali al pascolo o, se si è fortunati, qualche esemplare di fauna selvatica…
Poi, a un certo punto, l’attenzione può essere catturata da un dettaglio, insignificante certo, ma che a volte è testimone di altre vite passate in quello stesso vagone, lì, di fianco al nostro medesimo finestrino. Incisi maldestramente con chissà quale strumento di fortuna, appena sotto la cornice del vetro leggo i nomi “Barbara e Luca”, accompagnati da un cuore un po’ spigoloso e da una data che non ricordo precisamente, ma comunque risalente all’autunno del 1990. Più di trent’anni fa. Pochi mesi dopo quella mitica estate del ‘90, che in molti conosciamo come qualcosa di leggendario dai racconti di chi quelle “notti magiche” le ha vissute. Ebbene, dopo tre decenni e oltre i nomi di Barbara e Luca campeggiano ancora lì, in stampatello incerto, senza dirci altro se non la voglia di voler restare, indelebili, sfidando lo scorrere degli anni. Impossibile sapere se quell’amore, forse adolescenziale e magari sbocciato proprio in quella mitica estate, sia riuscito a resistere e a concretizzarsi in qualcosa di importante, così come è inevitabile chiedersi se, dopo tanto tempo, Luca e Barbara si ricorderanno ancora l’uno dell’altra. In tutto questo resta però una certezza: quella dei loro nomi che, su quel treno, il tempo non ha scalfito, esattamente come il fresco entusiasmo giovanile che li ha incisi.

Intanto il treno parte e scorrono le prime stazioni: talvolta può persino succedere che salga qualche altro passeggero. In un mezzo affollato, con spazio vitale ridotto al minimo, non capita quasi mai che qualcuno ti rivolga la parola. E’ la mancanza di comfort a non favorire la conversazione? O forse a popolare i mezzi affollati sono studenti e lavoratori troppo concentrati sui propri impegni per scambiare due chiacchiere? Sì, questo è vero, ma c’è anche dell’altro. Di solito, sui mezzi con posti a sedere allineati nella stessa direzione (come sui più comuni autobus), non c’è modo di creare un contatto visivo, fondamentale per invitare al dialogo anche persone perfettamente sconosciute. In un’atmosfera silenziosa come quella del regionale, invece, spesso capita che un passeggero, dopo aver preso posto in un sedile di fronte, magari anche della fila di fianco, cerchi di avviare una conversazione con uno dei pochi altri avventori del vagone. Su cosa? In quei casi non è importante l’argomento: quando incontri chi ha voglia di dialogo non ci sono limiti, dalla più banale osservazione sul meteo a confidenze, anche intime, su personali scorci di vita.
La voglia di dialogo, ovviamente, non vale per tutti, ma conosce precise distinzioni. Anzi, una distinzione in particolare, quella anagrafica.
Dopo qualche fermata salgono un paio di adolescenti con zaino in spalla, con tutta l’aria di essere degli studenti, forse dei liceali. Con la coda dell’occhio li osservo: si siedono l’uno dinanzi all’altro ma, una volta preso posto nei sedili di fianco, dopo un paio di battute sfilano dalla tasca i loro smartphone, che assorbono interamente la loro attenzione e li catturano in due mondi paralleli, mentre le loro dita picchiettano freneticamente sugli schermi.  Quei due ragazzi sono sicuramente dello stesso paese e si conoscono da sempre, eppure hanno già esaurito ogni argomento di conversazione: da lì a un’ora suonerà la loro prima campanella dell’anno scolastico, eppure quel momento non serve a condividere alcuna ansia o aspettativa in merito, semplicemente perché notifiche, like e follower sono già lì, a esigere attenzione alle sette del mattino. Mi torna in mente un post che gira sui social da un po’: “Tutti attaccati ai telefoni perché non siamo mai dove e con chi vorremmo essere”. Bella frase? Sicuramente. Un po’ di sentimentalismo stucchevole per giustificarci a ogni costo? Forse.
Torno con gli occhi al finestrino e abbandono queste riflessioni per scorrere distrattamente qualche storia su Instagram, in quello che in fondo anche per me – una “signora” a cui dare del “lei”, nella prospettiva dei miei due giovani compagni di vagone – è una sorta di rituale mattutino.
Nella stazione successiva si aggiunge un quarto passeggero. E’ un uomo anziano, che avrà da poco superato i settanta, con un quotidiano arrotolato sotto il braccio e l’aria di chi lo compra ogni mattina, per leggerlo davanti a un caffè o semplicemente per una rapida sfogliata di rito. Si muove ignorando i tanti posti liberi, fino a sedersi proprio davanti a me. Accenno appena un sorriso, per poi dirigere nuovamente lo sguardo sulla banchina fuori. Dopo qualche secondo lo distolgo. Il nuovo passeggero mi sta parlando: sfilo le cuffiette e istintivamente mi scuso (di cosa?), già pronta ad aprire l’app degli orari e delle fermate per dargli l’informazione richiesta. Ma l’informazione è una di quelle che non richiedono app per rispondere: “Signorina, non l’ho mai vista qui sul treno e io lo prendo tutti i giorni: di dov’è?”. Arrotolo le cuffiette e le ripongo nella borsa, cercando di nascondere un sorriso, questa volta divertito. Il signor Francesco – nome di fantasia, come tutti quelli che seguiranno – è quasi ansioso di classificarmi, di catalogarmi in qualche modo, di dare una plausibile giustificazione a quel suo “non l’ho mai vista qui sul treno”. La mia risposta è piuttosto breve ma, a quanto pare, è soddisfatto di sentire che qualche giovane frequenta quelle zone per lavoro, anzi, per il primo anno di lavoro stabile, il tanto agognato tempo indeterminato: “Quando si lavora va sempre bene, il posto fisso ci vuole!”. Dopo quel primo fugace scambio di battute, ecco un altro vezzo degli anziani, cioè la voglia di rendere l’interlocutore partecipe del loro passato. Per qualche minuto, così, il signor Francesco ridiventa un giovane irrequieto, “uno che ha girato l’Italia da sopra a sotto”, “che non stava un attimo fermo”, uno che amava i piaceri della vita, in primis le donne. E con bonaria ironia mi accenna di sua moglie (“una pazza, come me!”) e del divorzio di trent’anni prima, dei lavori in cui si è cimentato con alterna fortuna, mentre il suo sguardo si fa tenero ricordando i suoi nipoti, soprattutto i più piccoli “che sono già furbacchioni e chiedono soldini”. E mentre racconta di sé non ti guarda. Guarda verso il finestrino dove forse, per qualche istante, anche lui vede proiettata la sua storia, con il suo gomitolo di esperienze rivissute con un pizzico di nostalgia: il suo è un viaggio di pochi minuti fino al paese vicino, eppure sufficiente per ripercorrere una vita, come un nastro che si riavvolge a ogni nuovo incontro. E’ arrivato a destinazione. “Allora buon inizio, professoré, alla prossima!”: eh sì, ormai ho anch’io il mio piccolo posto nel suo mondo.

Un paio di stazioni e, con pochi minuti di ritardo, sono anch’io a destinazione. Scendo proprio dinanzi al fabbricato viaggiatori che, com’è tipico dei piccolissimi centri, versa in un evidente stato d’abbandono. E’ un edificio risalente agli albori del secolo scorso, ora quasi interamente murato, con le finestre del piano superiore ormai consunte e la facciata con numerose scritte. L’unica apertura rimasta è quella della sala d’aspetto: vedo con piacere che è una stanzetta dalle pareti pulite, rimbiancate di fresco, che contrastano vistosamente con il deperimento dell’esterno. Ovviamente non c’è nessun addetto, solo un paio di macchinette per convalidare i biglietti e due panchine, disposte sulle due pareti lunghe. Mi giro e l’occhio si posa su quella che, in passato, era la fonte di riscaldamento della stanza: un piccolo camino, ora murato anch’esso, di cui si può soltanto riconoscere la sagoma in un angolo.
Inevitabile provare a immaginarselo acceso, quel caminetto, in qualche giornata invernale di più di un secolo prima, quando quel tratto di ferrovia rappresentava il coronamento di un progetto cominciato all’indomani dell’Unità. Era l’alba del XX secolo, l’Italia intera arrancava verso la modernità anche se, in quelle zone interne di contadini e pastori, la modernità sembrava ancora un miraggio e molti tentavano la fortuna altrove. Gente umile, spesso povera, quella che entrò in quella sala per la prima volta, quando ancora si sentiva l’inconfondibile odore della vernice fresca e la via ferrata sembrava finalmente allargare l’orizzonte. Altri tempi e altra gente. Un’altra Italia che, ancora tutta da costruire, si sforzava di costruirsi un tassello alla volta.
   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Generale / Vai alla pagina dell'autore: Cleo_de_Merode