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Autore: wanderingheath    10/08/2023    0 recensioni
Gli incubi di Luca, barista notturno in un pub, si ripresentano, vanificando gli anni trascorsi in cura nelle migliori cliniche svizzere. E qualche volta si avverano.
Emilia invece, che non sogna mai, gli incubi degli altri li vive, volente o nolente: nella sua anonimità quotidiana viene risucchiata in un attimo negli errori ed orrori altrui.
I due sembrerebbero non avere nulla in comune, se non il ricordo della classe di cui un tempo hanno fatto parte, ma dopo anni di silenzio una notte le loro vite si incrociano nuovamente e mentre vengono circondati da strani eventi, le fantasie di Emilia cominciano ad assumere una consistenza sinistramente reale. Ad unirli c'è un segreto, sepolto nelle loro memorie, che saranno chiamati a svelare.
Genere: Drammatico, Sovrannaturale, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Triangolo
Capitoli:
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Capitolo 2. – Parte I
 
I Trattati di Versace

 
 
L’aria era secca e insolitamente calda quella sera.
Con le strade deserte, l’odore insistente di arrosto e mele cotte, il ronzio di qualche televisione accesa, quel venerdì sera sembrava solo l’ennesimo giorno feriale e non il tanto atteso inizio di un week-end da sballo.
Luca si rigirava fra le mani il mazzo di fiori e il vassoio di dolci che sua madre gli aveva affibbiato.
Era ancora convinta che il figlio passasse i fine settimana in compagnia di qualche amichetto che le piaceva, con una composta cena in famiglia con il tovagliolo sulle ginocchia e le posate del servizio buono. Lui glielo lasciava credere, dato che fungeva da sedativo per ulteriori domande.

In effetti, stava andando ad una cena. Aveva solo omesso la parte dei trenta invitati, stipati in un salotto affumicato dalle sigarette – i più audaci avevano portato qualche spinello – e quella dei superalcolici sottratti al minibar del padre dell’ospite.
Luca indugiò ancora qualche istante davanti alla porta d’ingresso. Attraverso l’uscio in noce filtravano i battiti dell’impianto stereo – le solite tre o quattro canzoni straniere che martellavano in discoteca – e da sotto la porta un tappeto di luce.
Mentre lui valutava se disfarsi o meno di fiori e dolci, qualcuno gli strusciò accanto e suonò il campanello. La porta venne aperta e il viso radioso di Elena Costa si materializzò in una nuvola grigiastra di fumo. La sagoma della ragazza, tutta ricci e paillette, si stagliava nella penombra del corridoio, avvolta dall’odore pungente di marijuana. Accolse gli invitati con un abbraccio caloroso, includendo anche Luca.
«Ma che carino, questi sono per me?»
Elena annusò il bouquet; sembrava una principessa uscita per errore da un cartone animato.
«Forza, non state lì impalati. Venite dentro.»

Un’ora più tardi, Luca era rimasto uno dei pochi a non aver toccato neppure una goccia di alcool.
Dal momento che gli invitati si erano moltiplicati, aveva preferito defilarsi in cortile insieme a Lorenzo e ad Alice. Con quest’ultima, in realtà non aveva molta confidenza, ma Lorenzo teneva banco da più di quaranta minuti e non c’era pericolo di essere coinvolti nella conversazione.
Era sufficiente lasciar cadere un monosillabo ogni tanto, per cavarsela.
Osservandola nel corso della festa, Luca aveva notato che Alice, per certi versi, assomigliava ad Elena; entrambe ugualmente inclassificabili sulla scala sociale. Non si trattava di questioni economiche, ma di popolarità scolastica. Sia l’una che l’altra ragazza si trovavano al confine tra ciò che veniva considerato “figo” e ciò che non lo era.

Alice gli stava simpatica, ma aveva il sospetto che piacesse un po’ a tutti in classe: con quel caschetto indomito era una delle poche ragazze a scuola a tenere i capelli così corti e, come diceva sua mamma, il caschetto ti donava solo se avevi un bel viso. Qualche volta aveva sperimentato con delle tinte, ma Luca trovava che il suo colore naturale, quel neutralissimo color castagna, fosse perfetto.
Adesso stava fumando una sigaretta nello stesso modo in cui si mangi un biscotto, mordicchiandone appena i bordi, fingendo di seguire il discorso di Lorenzo sul calciomercato.
Quando il portone d’ingresso venne di nuovo aperto, Luca pensò che si trattasse del fattorino con le pizze, lo stesso che poco prima aveva chiesto informazioni sull’interno in cui abitava la famiglia Costa, ma dovette ricredersi. Scongiurato il pericolo di qualche vicino di casa adirato per i festini abusivi, riconobbe la figura minuta di Emilia Scafi, traballante sugli scalini.
Cercava una ringhiera o un altro supporto a cui aggrapparsi.
«Ah, Elena ha messo Kesha finalmente.»
L’osservazione di Alice fu accompagnata da una delle hit degli ultimi anni, sparata al massimo.
Le note si riversavano in giardino dalle finestre spalancate dell’appartamento al penultimo piano, accompagnate da drappelli di ragazzi che accartocciavano in bocca spezzoni della canzone.
Emilia scese, esitante, gli scalini e si fermò qualche istante come a riflettere. Voltava lo sguardo in tutte le direzioni, in cerca di qualcuno.
«Alza!»
Era un grido uniforme: decine di preadolescenti che urlavano all’unisono e con rabbia di aumentare ancora di più il volume, fino a far tremare gli edifici del quartiere.
TiK ToK non solo sembrava non passare di moda, ma esprimeva le urgenze di quei dodicenni schiacciati tra il bisogno di crescere e il rifiuto di qualunque regola adulta.
Mentre i suoi coetanei ballavano, esultavano e saltavano sul posto con pugni e bicchieri protesi verso la finestra di Elena Costa, nella speranza che quest’ultima si affacciasse, Luca ebbe l’impressione di trovarsi in qualche manifestazione o ad un’arringa un po’ nostalgica dell’Italia passata.
A strapparlo da simili riflessioni fu il braccio con cui Lorenzo lo aveva accalappiato. Messosi in punta di piedi per annullare la loro notevole differenza d’altezza, Lorenzo, nel suo perfetto inglese maccheronico, gli urlò nelle orecchie: «Cds... parties... ow, ow, ow, wooooh!»

«Emilia, che fai?»
Alice guardava interrogativamente la loro compagna di classe.
La diretta interessata pareva risucchiata in un’altra dimensione: l’espressione trasognata, i capelli mossi quasi del tutto sfuggiti alla mollettina che li raccoglieva. Se non si fosse trattato della Scafi, Luca e gli altri avrebbero detto che era appena uscita da una zuffa.
«Cerco... Cercavo il...»
Emilia tentò di mimare qualcosa di incomprensibile con le mani, ma quando realizzò che era tutta fatica sprecata, se ne portò una alle tempie, scuotendo il capo. «Gira tutto», biascicò. «Troppo... Troppo...» Una pausa per deglutire. «In fretta.»
Alice la scortò fino al basso muretto che costeggiava il palazzo e la aiutò ad accomodarsi sul bordo, sorreggendola da dietro. A Luca parve un gesto encomiabile ma strano, data la considerazione che tutti in classe avevano della Scafi.
«Ti senti male?» le stava domandando.
Emilia annuì, allacciando le braccia attorno allo stomaco. La sua voce si spegneva, fievole, sotto il frastuono circostante, eppure non dava segno di resa. Unì le mani a coppa attorno alla bocca, proprio come se stesse riparando una fiammella dal vento, e difese le poche parole che riuscì a pronunciare: «Credo che...»
«Cazzo, non ci credo», gracchiò Lorenzo. «La Scafi ubriaca? È assurdo.»
Alice ridacchiò, imitata da altre due amiche, attirate dalla situazione insolita. Gloria, la più alta del trio, rincarò, facendo notare agli altri che non si poteva essere ridotta in quello stato da sola: qualcuno le aveva sicuramente spacciato dell’alcool per una bevanda innocua o le aveva corretto il drink.
«Hai ragione», confermò Alice. «Ma poi, chi diamine l’ha invitata?»
Fu Lorenzo a rispondere con decisione: «Sicuramente Elena. La Scafi le sta appiccicata come un cagnolino».
«Ah, certo! Allora le avrà fatto un po’ pena.»
Luca, intanto, non aveva distolto lo sguardo dall’oggetto del discorso, che oscillava tra brividi e nausea. Lottava contro la tentazione di abbassare le palpebre e contro la naturale tensione del suo corpo ad afflosciarsi a terra.
Era evidente non solo la sua bassa tolleranza dell’alcool, ma anche la disabitudine a bere alcolici. D’altra parte, cosa ci si poteva aspettare da una ragazza modello, cresciuta da un padre stralunato e da familiari a dir poco apprensivi?

A differenza della quasi totalità di ragazzini che riempiva la festa, Emilia Scafi non aveva probabilmente toccato una goccia d’alcool in vita sua, neppure il solito assaggio di spumante alle feste.
«Stai molto male?»
Emilia alzò gli occhi su di lui con una certa difficoltà, lottando contro le luci dei lampioni che la ferivano e i rigurgiti che le raschiavano l’esofago. Annuì, senza aggiungere altro.
«Vuoi chiamare i tuoi?»
«Luca!»
Lorenzo gli assestò una gomitata, aggrappandosi al suo orecchio: «Ma che stai fuori? A parte che lo sai benissimo che è orfana, quindi sei pure indelicato...»
«Di madre. Orfana di madre, ma un padre ce lo ha.»
«Sì, okay, ma», Lorenzo gli picchiettò un dito contro il petto, «tu lo sai che se qualche adulto scopre del festino, Elena si prende un cazziatone? Anzi, non solo lei, tutti.»
Le tre ragazze continuavano a sghignazzare e, insaziabili avvoltoi, ad infierire sulla malcapitata, chi cercando di indovinare con cosa l’avessero fatta ubriacare, chi annusandone capelli e alito con disgusto, chi invitandola a rimorchiare un perfetto sconosciuto che stava ballando nel mucchio.
E poi c’era Lorenzo, gli occhi da lince che lo minacciavano.
Nel branco c’era un peccato più grave degli altri, forse l’unico che valesse la pena considerare e che era riconosciuto universalmente: il tradimento.

«Tu non sei un traditore, vero?»
Lorenzo non aprì bocca, ma a Luca bastò quel silenzio per comprendere il monito. Non si sarebbe macchiato di tradimento.
«Okay», concesse infine. «Ma non possiamo lasciarla così, Lorè.»
L’amico cambiò immediatamente atteggiamento e con disinvoltura gli assestò una pacca sulla schiena, dicendo: «Tranquillo, ci penso io».
Luca sapeva fin troppo bene cosa significasse quella frase, ascoltata molte volte in passato e che aveva portato ad esiti quasi sempre disastrosi, ma lasciò che facesse a modo suo.
Il ragazzo si accovacciò accanto ad Emilia e, mani conserte, le domandò se volesse stendersi in camera di Elena, per riprendersi dalla botta. Per tornare lucida le sarebbero bastate un paio d’ore – che si dava il caso fosse il tempo prefissato per terminare il festino – dopodiché sarebbe stata libera di tornarsene a casa.
Emilia scosse la testa con risolutezza. Era impressionante come il colorito della sua pelle, di per sé molto chiaro, apparisse slavato, identico ad un lenzuolo stropicciato. C’era del malsano nelle guance esangui e nelle labbra lattee, come se qualcuno le avesse risucchiato tutto il sangue che le scorreva nelle vene e fosse rimasta solo un’imbastitura del suo corpo a sorreggerla.
Era sfiorita.

«Voglio...»
«Vuoi tornare a casa? Ti chiamiamo un taxi.»
Lei dissentì di nuovo, ma Lorenzo sovrastò le sue proteste con una valanga di parole: adesso sarebbe salito da Elena e le avrebbe chiesto di chiamare un taxi per farla riaccompagnare.
Non doveva assolutamente preoccuparsi, il prezzo della corsa lo avrebbero dimezzato, anche se lei abitava fuori Roma e da lì ci sarebbe voluta più di un’ora e mezza per portarla a destinazione. Quella appariva l’unica soluzione sensata.

«Che ne dici?»
Lei rimase a fissarlo in silenzio, apatica.
Gloria ipotizzò che forse “si era impallata”, ma prima che provassero a scuoterla, Emilia fu colta da un conato e, rovesciata in avanti, rigettò buona parte di ciò che aveva assunto in serata sulle scarpe di Lorenzo.
«Oh, che schifo!»
Gli acuti delle ragazze si mischiarono all’immobilità del ragazzo, troppo scosso per reagire in alcun modo. La scena aveva richiamato l’attenzione di qualche altro presente, voltatosi con un bicchiere di coca-cola corretta in una mano e una manciata di patatine al formaggio nell’altra.

Lorenzo sbottò in un’imprecazione, mentre le urla tutt’intorno si trasformavano in risate graffianti, affamate di nuovi scandali e nuove prede da sbranare.
Fu solo quando iniziarono a fioccare insulti che Emilia si forzò ad alzarsi in piedi per uscire dal giardino, oltre il cancello, in una corsa traballante. Nella fuga disperata, si scontrò con dei corpi per lei senza volto, dei birilli impilati sulla via a rendere ancora più difficile la sua uscita di scena. 
«Dove è andata?» domandò Luca.

«Che cazzo ne so! Non me ne frega niente. Ma hai visto come mi ha ridotto le Vans?»
Luca lo ignorò, così come ignorò i commenti feroci e le battutine delle ragazze, focalizzate solo sulla pessima figura della Scafi. Avevano trovato carne fresca per i prossimi due mesi.
«Dove cazzo stai andando, Lù?»
«A cercarla.»
«E mi lasci così?»
Lorenzo spalancò braccia e bocca, incredulo. «Dammi una mano a pulire ‘sto casino, almeno.»
L’altro scosse il capo: «No, scusami. Fatti aiutare da Alice oppure chiedi ad Elena».
Si precipitò sulla strada principale, ma non vedendo nessuno, accelerò ulteriormente il passo.
Erano quasi le sette di sera, ma in quel periodo dell’anno aveva ricominciato a far buio molto presto e i marciapiedi erano rischiarati dalla luce dei lampioni, stridente con gli ultimi bocconi di tramonto all’orizzonte. In quartiere come quello, dove tutti si conoscevano, un evento del genere era clamoroso, eppure nessuno dei passanti che incrociò fu in grado di dargli indicazioni.
Una ragazzina che correva via ubriaca? No, non l’avevano vista.

Luca cercava di tenere d’occhio entrambi i lati della strada. Proprio quando era sul punto di gettare la spugna e tornare indietro, individuò un’informe figura nera, per metà coperta da una siepe. Si era rifugiata nel giardino di un altro comprensorio – il cancelletto, aperto, strideva ad ogni minima ventata – interamente fasciato da siepi basse, ben tenute, che fino alla stagione precedente dovevano essere state rigogliose di fiori. In compenso, due grandi aiuole di marmo torreggiavano ai due lati del cancello, occupate da ciclamini che con le loro testoline fucsia studiavano i visitatori.
Emilia se ne stava carponi sul prato umidiccio, a stento sorretta dagli stecchini che aveva come braccia, la matassa di capelli scuri riversa in avanti. Dagli inequivocabili gorgoglii, Luca dedusse che stava ancora liberando lo stomaco.
Esitò.
Quale sarebbe stata la decisione più giusta?
Forse Lorenzo non aveva tutti i torti a volersene lavare le mani e parcheggiarla in una stanza, in attesa del taxi. Forse aveva solo bisogno di essere lasciata da sola. Soprattutto, come pensava di poterla aiutare, se anche solo l’idea del vomito gli ingarbugliava le budella? Per non parlare dell’odore. Chissà come avevano fatto i suoi genitori a tollerarlo, quando si era beccato quel brutto virus intestinale.

Si ricordò anche di tutte le volte in cui gli era successo di dare di stomaco senza apparente motivo, in seguito ad una delle sue forti emicranie. C’era sempre stato qualcuno a soccorrerlo, mentre Emilia non aveva nessuno, adesso.
Forse essere codardi significava questo: stipare una compagna di classe sul primo tassì, sbarazzandosi del problema, e ignorare una tacita richiesta di aiuto.
Luca osservò la gonnellina a balze che portava la sua compagna, la calzamaglia rosa che ne sbucava fuori, poi di nuovo la chioma che rischiava di imbrattare.
Non indugiò oltre. Con uno scatto era accanto a lei e, chinandosi in avanti, le raccolse i capelli all’indietro, tenendoli lontani dal viso.
Come previsto, Emilia sussultò, ma non riuscì a voltarsi.
Parve rasserenarsi solo riconoscendo la sua voce.

«Sono Luca. Tranquilla, ti voglio aiutare.»
Qualche minuto dopo, che a Luca parve un’eternità, i conati diminuirono e la ragazza riuscì a riprendere fiato. Continuava, però, a tossire di tanto in tanto e quando fu in grado di parlare, lo fece con una venatura roca, consumata. «Mi fanno male i polsi.»

In effetti, le braccia tremavano come trivelle, sobbarcandosi il peso dell’intero corpo.
«Prova a sederti.»
La aiutò a risistemarsi con la delicatezza e l’attenzione che avrebbe riservato ad un neonato.
In quel momento, Emilia gli sembrava spoglia di ogni presunzione, arroganza e intellettualità.
Era fragile e totalmente in sua balìa.
Avrebbe potuto farle credere qualunque cosa, se solo avesse voluto. La ragazza che aveva tutte le risposte del mondo – così si presentava in classe – la secchiona del gruppo, non lo intimoriva come prima. Aveva sempre avuto soggezione di lei, delle sue capacità, del suo aspetto così pulito da brava ragazza, della sua mano, perennemente alzata come un’antenna, in aula. Aveva la lingua biforcuta, dicevano alcuni insegnanti, era una “secchia” sostenevano i compagni, ma a lui in quel momento appariva solo piccola e spaurita.
Il suo mormorio lo riportò alla realtà.

«Ho fatto un disastro.»
«Stai male, non sentirti in colpa. Poteva capitare a chiunque.»
«Sì, ma è dovuto capitare proprio a me.»
L’astio nella sua voce gli fece capire che c’era qualcos’altro sotto. Teneva il mento incollato al petto, lo sguardo basso, evasivo.
«Ehi,» le posò una mano sulla spalla, incerto, «va tutto bene. È stato un momento così, ma è passato ora».

Emilia scosse il capo. «No, non è passato. Questa è esattamente una di quelle cose che non passerà mai. Ne parleranno per anni e anni e anni...»
Sentiva che avrebbe dovuto contraddirla, giusto per alleviare una parte di quel senso di colpa così ingombrante, ma non ci riuscì. Era stato sempre un disastro nel consolare le persone.
Quando sua madre scoppiava in lacrime, non sapeva mai cosa dire o fare, si sentiva goffo e di troppo; così, preferiva rintanarsi nella propria stanza e aspettare che il ciclone si calmasse.
Tutto ciò che riuscì a proferire fu: «Mi dispiace».

Il silenzio si trascinò per alcuni minuti, prima che Emilia si decise a parlare di nuovo.
«Grazie. Non so ancora perché lo hai fatto,» aggiunse, «ma grazie.»
«Figurati.»
La ragazza parve riflettere su un altro aspetto della sua tragedia personale.

«Ho rovinato le scarpe di Lorenzo.»
«Ne voleva comunque un nuovo paio», sdrammatizzò lui. «Se ne farà una ragione.»
Emilia accennò una risatina amara: «Gli ho dato un pretesto, allora».
«Esatto. Altrimenti, le pulirà e basta. Pensa che vuole sempre dei vestiti nuovi, lui, ma alla fine non riesce a disfarsi di quelli vecchi, anche se non gli entrano più.»

«Un ossimoro», commentò lei.
Stavolta Luca preferì tacere. In quei due anni ancora non aveva ben capito il significato degli ossimori. Quando li trovava nelle analisi del testo dei manuali, lasciava l’esercizio in bianco e poi chiedeva ai genitori di finire i compiti per lui. All’inizio lo facevano pure, poi si erano tirati indietro e lui era stato costretto a ripiegare proprio su Emilia, che in genere la mattina, appena arrivata in classe, gli cerchiava gli ossimori in rosso.

Luca ebbe per un attimo un moto di stizza: lo stava provocando? Voleva umiliarlo?
La ragazza, però, guardava per terra, davanti a sé, inespressiva. Sembrava solo spenta.
«Vorrei non aver mai accettato l’invito di Elena.»
Forse sarebbe andata diversamente, rifletteva Luca. Forse avrebbe preservato la sua reputazione da incorruttibile cocca della prof, o forse sarebbe successo in un’altra occasione, diversamente ma con lo stesso risultato.
Negli ultimi tempi si era fissato con l’Effetto Farfalla e gli piaceva rigirare le situazioni nella propria mente, capovolgere gli eventi eliminando solo un elemento dall’equazione.
Ad esempio, chissà cosa sarebbe successo, se Emilia Scafi avesse trovato il cancello chiuso o se avesse combinato quel pasticcio davanti agli occhi increduli di chi potava quelle siepi con tanta dedizione. Chissà cosa sarebbe accaduto, se lui non le fosse corso dietro e soprattutto se non l’avesse trovata.
Le tese una mano, aiutandola a rimettersi in piedi.
«Dai, andiamocene prima che i proprietari ci becchino.»



 
Luca richiuse le ante della finestra.
Quell’episodio gli era tornato in mente, senza apparente ragione. Forse era stato l’inaspettato incontro in metro, ma rivedere Lorenzo prima ed Emilia poi sembrava aver aperto un vaso di Pandora nel suo cranio.
Stava finendo di riordinare la camera. Lo scatolone addossato alla parete era per metà vuoto e gli occhi pizzicavano con tutta quella polvere in giro. Le urla dalla stanza accanto trapassavano il muro. Si ricordò del perché voleva anticipare il turno della serata. Doveva smetterla di perdersi in fantasie nostalgiche sui dodici anni: lui era lì, presente, di nuovo nella vecchia abitazione e aveva delle responsabilità, verso se stesso e verso i suoi familiari. Emilia Scafi restava relegata al passato, mentre Lorenzo era andato avanti con la sua vita e non era più una persona di un tempo.
Lui stesso era cresciuto, fortunatamente, in tutti quegli anni. Allora perché si comportava come un insetto rimasto impigliato in una tela di ricordi?
Uscì di casa e, ignorando il richiamo della madre, si tirò la porta dietro.




Il manuale era un volumetto rosso, dalla copertina lucida, con i titoli in Arial e sottotitoli di un giallo canarino. In primo piano spiccava una foto dell’Acropoli ateniese.
Le prime cinquanta pagine erano ricche di evidenziazioni, ma solo il primo capitolo poteva considerarsi un campo di guerra: sottolineature a matita, ghirigori, asterischi, annotazioni e disegnini vari occupavano tutto lo spazio residuo.
Emilia tornò sulla definizione in grassetto, sottolineata talmente tante volte da aver bucato il foglio. Non le entrava in testa, proprio come le date. Una volta, l’anno precedente, all’esame di civiltà italiche preromane, la professoressa le aveva chiesto perché avesse scelto un corso di laurea come quello, pieno zeppo di date, e che si basava sull’attività mnemonica degli studenti, se non riusciva a mandare a memoria nemmeno gli eventi principali.
Alla fine l’aveva promossa, perché l’esposizione era impeccabile e perché le stava simpatica dagli interventi fatti in aula, ma non aveva tutti i torti. Emilia sapeva che la propria scelta conteneva una molteplicità di contraddizioni, ma per ricordarsi date, le aveva provate tutte.
Suo padre diceva che pretendeva troppo da se stessa, ma era difficile concordare con un uomo di mezza età che sembrava avere davvero “la scienza infusa”, come si soleva dire. Le informazioni gli approdavano comodamente nel cervello, all’apparenza senza la minima difficoltà.
Peccato che quella genialità fosse stata esclusa dall’eredità paterna: a lei erano toccati solo un fisico robusto, ingombrante, e una pessima capacità nei rapporti sociali.
«Sempre a studiare, ma non ti riposi mai, tu?»
L’ombra proiettata da Giulietta Fontana entrò nel suo campo, oscurando la riga, laddove stava tenendo il punto. Era come al solito curata e ordinata, i capelli lunghi fino alle spalle brillavano della nuova tinta lunare e il cappotto, a fantasia Principe di Galles, le conferiva un nonsoché di professionale. Emilia notò che indossava anche il paio preferito di stivali, quelli neri e alti, che le abbracciavano le gambe fino al ginocchio. Ad occhio esterno sarebbe parsa in ghingheri per un evento speciale, ma lei, che aveva fatto l’abitudine a vedere l’amica in tenuta formale, non si stupì.
Sollevò il libro da terra, dove si era acciambellata come un gatto.
«È un mattone di novecento pagine. Chi si ferma è perduto.»
Giulietta lanciò uno sguardo al titolo. Archeologia greca: l’origine di un mito non prometteva niente di buono. «Non ti invidio, ciccia.»
«Posso?» domandò, poi, accomodandosi a sua volta sull’erba.
Emilia le fece spazio, sebbene ce ne fosse in abbondanza sul pratone al centro della città universitaria. Gettando la testa all’indietro, inspirò a pieni polmoni l’aria autunnale: lo scroscio delle foglie sul terreno, il baccano di gruppetti studenteschi vicini a loro, il dolce scorrere delle ruote d’automobile sull’asfalto, che sgranocchiavano ciottoli.
«Questo è l’esame di cui mi parlavi?»
Giulietta aveva estratto dalla borsa, firmata Valentino, un portapranzo ermetico che scimmiottava un bentō e lo stava aprendo con delicatezza, prestando attenzione a non sporcarsi con il poco olio usato come condimento. Come ogni giorno, preferiva portarsi il pranzo da casa, per contare le calorie ed evitare gli sprechi. Emilia attese che rimuovesse il coperchio per una conferma, ma sapeva già cosa aspettarsi: il solito riso insipido, scondito, con verdure al vapore tritate sottili e un frutto.
«Sì,» sospirò Emilia, «è Archeologia e Storia dell’arte in Grecia. È del primo anno, spero di riuscire a liberarmene prima possibile.»
L’altra si limitò ad annuire, estraendo le posate dal cellofan. «Immagino che noia. Io volevo spararmi, quando facevamo storia greca al liceo, e tu devi sorbirtela di nuovo. Ma poi, queste cose vi serviranno davvero? In futuro, intendo.»
Se l’era chiesto un milione di volte, se fosse necessario tutto quello sforzo per sentirsi meglio – con se stessi, con gli altri, con il mondo che si sarebbe ritrovata ad abitare di lì a tre o quattro anni –  ma dato che aveva scelto una triennale in archeologia delle civiltà classiche e medievali, qualcosa ci avrebbe pur fatto con tutte quelle nozioni.
«Immagino di sì.» Si corresse:« Spero di sì».
Giulietta la studiò di sottecchi. «Hai bisogno di una pausa», decretò infine.
Quasi li avesse evocati per errore o per volontà, tre ragazzi – due in giacca di pelle, uno con la felpa rossa – si avvicinarono a passo deciso. In controluce era difficile distinguerne i volti, ma la voce di Lorenzo De Cesare giunse più chiara e squillante di qualunque altro indizio.
«Ehi, Giuls, come vieni, poi, sabato sera? Ti serve uno strappo?»
La diretta interessata li salutò con la mano, chiamandoli per nome ad uno ad uno.
«No, Lorenzo, grazie. Andrò in macchina. A proposito, mi ripeti l’indirizzo preciso di Versa?»
Lorenzo estrasse il cellulare dalla tasca posteriore dei jeans. «Aspetta, te lo mando.»
Di Emilia parve accorgersi solo in un secondo momento, ma dopo una prima occhiata disinteressata, tornò a guardarla con stupore. Sapeva che la sua amica la frequentava da un annetto –  sebbene non se ne spiegasse la ragione – ma incontrarla due volte in un lasso di tempo così ristretto lo destabilizzava. Pensò a cosa fosse più naturale fare e alla fine si decise a rivolgerle un saluto.
«Okay, allora... Ti è arrivato il messaggio?»
Giulietta annuì, mostrandogli lo schermo.
«Perfetto. Ci vediamo sabato, allora. Mi raccomando, porta qualche amica fregna
«Lorenzo, quante volte devo ripetertelo? Non c’è assolutamente un’unghia di possibilità che una delle mie amiche venga da Versa e, comunque, non ti degnerebbero della loro attenzione.»
Lui le puntò l’indice contro, iniziando ad allontanarsi con il resto del trio. «Ne riparliamo.»
Giulietta si mostrò serafica: «Certo, ma la realtà rimarrà invariata».
Quando i ragazzi si furono dileguati, la colse un’illuminazione. Si voltò di scatto verso l’amica e con un’aria complice, chiese: «Tu lo conosci Andrea?»
Emilia aggrottò la fronte. «Andrea... Chi?»
«Andrea Versace, il fratello di Diana. Lei era iscritta al nostro liceo, mentre lui è di un paio d’anni più grande, ma ha cambiato facoltà un centinaio di volte. Adesso sta terminando la triennale in Economia, credo, o Management di qualcosa.»
Man mano che Giulietta ne tratteggiava il profilo, l’altra realizzò di chi stesse parlando.
Lo conosceva, eccome, ma ad inizio anno aveva giurato a se stessa di tenersi alla larga da quel giro. Le aveva bollate come persone tossiche e, per quanto Giulietta faticasse a vedere del male nel prossimo, faticava a credere che le scivolasse tutto addosso.
«Sabato dà una festa a casa sua», proseguì la ragazza. «Stacca la spina e vieni con noi.»
Anticipò qualunque obiezione che Emilia stava per accampare, attingendo al lungo repertorio.
«Ti ci porto io, non devi pensare a niente. Questo e la festa di Halloween a casa di Elena Costa.» Sembrava che stesse partecipando ad una trattativa. «Due weekend di pausa e poi torni alla tanto amata archeologia.»
L’altra provò a replicare, ma Giulietta la zittì, agitando la forchetta in modo plateale.
«Tre giorni in totale. Sei prenotata, punto e basta.»
   
 
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