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Autore: Child_of_the_Moon    23/08/2023    5 recensioni
"Avevano entrambi aperto gli occhi nello stesso istante, svegliati dal torpore come dopo una lunga notte insieme, abbracciati l’uno all’altra in un intrico infinito."
Intrecciati alle sottili corde del destino, due amanti percorrono il sentiero con le mani congiunte.
Storia partecipante al contest “Emozioni incrociate” indetto da mystery_koopa sul Forum di EFP.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Fantasia finale
 

Rallenta.

Respira.

Apri i tuoi occhi.


La ragazza di carminio vestita si era voltata, accarezzata da quella melodia familiare, che discretamente le aveva solleticato le corde della memoria.
Gli occhi madidi e imperlati di gocce cristalline erano ora fissi sul ragazzo dalle gote pallide, vestito d’abiti dorati, la cui ombra si stagliava al suolo, incrociandosi con la sua in forme vibranti, evanescenti.
Pareva divina, quell’apparizione; sul labile e fumoso confine tra il concreto e l’immaginazione vi era lui, con uno sguardo indecifrabile in quei mari verdi sul suo viso.
La ragazza aveva chiamato il suo nome.
Lentamente e con estrema delicatezza si era accostata a lui e gli aveva preso le mani con la stessa grazia con la quale si maneggia il cristallo, tanta era l’angoscia di poterlo perdere di nuovo.
Preso il coraggio a due mani, le dita della giovane si erano intrecciate a quella matita consunta che portava sempre con sé e aveva iniziato a disegnare.

Lei amava tratteggiare la sua realtà con matita e ago.
I capelli biondi sempre tenuti legati al capo con un fiocco le ricadevano sulle spalle minute come seta, la stessa seta che le sue abili mani trasformavano in abiti dalla beltà soave.
Ligia e assorta, ella soleva disegnare e cucire per ore alla flebile luce della sua lampada e poi, stanca, s’assopiva con ancora in mano le sue splendide stoffe.
Si poteva dire, posando lo sguardo attento sulla sua arte, che riflettesse la sua luce più intima.
Le vesti erano specchio divino, con panneggio quasi ultraterreno, confezionati con infinito amore.
Un prisma custodito gelosamente nell’identità più celata di sé. Nessuno oltre lei, aveva mai potuto godere di una vista tanto sublime. Nessuno, a parte lui.

Lui amava tratteggiare la sua realtà con obiettivo e diaframma.
Con vista acuta immortalava attimi eterni di infinita armonia; catturava la luce con il fare sapiente di un alchimista, con la destrezza d’un mago e poi faceva ritorno nel suo nido dalla luce rossa battendo le sue ali da airone, per imprimere sulla carta le impressioni della sua percezione.
Nei suoi scatti si leggeva la sua visione del mondo, si amplificavano i sensi e si sfogliava l’animo umano nella sua accezione più pura.
Seppur tremendamente modesto, si era spinto con coraggio oltre la linea della comoda quotidianità ed era riuscito a vedere una delle sue “fantasie”, così era solito chiamare le fotografie, sulla prima pagina di una rivista importante.

Rallenta.

Respira.

Apri i tuoi occhi.

Quel mattino lei si era alzata di buon umore.
Le mancava solo qualche metro di stoffa, un morbido chiffon, per concludere il suo ultimo lavoro.
Si era preparata con la meticolosità che la rendeva teneramente disciplinata e aveva lasciato la sua abitazione perdendosi nei suoi disegni mentali, conciliati dalle forme contorte ma pulite delle nuvole.
I suoi occhi avevano fugacemente incontrato quelli verdi di un giovane dai capelli ricci, che cortesemente le aveva sorriso; tra le sue mani una macchina fotografica dall’aspetto quasi solenne.
In un semplice batter di ciglia la ragazza aveva udito un frastuono sordo e si era ritrovata, senza realizzare prontamente l’accaduto, a soccorrere quel ragazzo, che ora giaceva al suolo con aria frastornata, con la sua macchina cattura fantasie miracolosamente illesa. Sembrava essere inciampato e caduto dal nulla.
Lui le aveva sorriso ed era avvampato di rosso, evidentemente imbarazzato, mentre le loro mani per la prima volta si sfioravano in maniera disinteressata, altruista.
Il giovane, allo scorgere di quella figura così sobriamente affascinante, aveva sbattuto le palpebre, certo di trovarsi di fronte alla sua fantasia finale.
Il suo viso terso, i suoi abiti semplicissimi, ma che parevano ricordare quelli di una dea della mitologia classica; tutto di lei faceva pensare a una costellazione dipinta nell’immensità del firmamento, che osservava gli uomini con affabile benevolenza.
Un po’ goffamente si era presentato e le aveva umilmente domandato di prestarsi come soggetto per i suoi scatti; nonostante lei a primo impatto fosse rimasta un po’ spiazzata, al vedere il rossore sul viso del giovane che si faceva sempre più strada tra le sue pallide gote e il suo sorriso un po’ sciocco dipinto sul volto, aveva percepito una stretta al cuore e un’onda di semplice tenerezza la aveva portata ad accettare.

Avevano esplorato l’uno la vita dell’altra e lei gli aveva concesso di entrare nell’atelier celato, permettendogli di bearsi di quella vista celestiale, preclusa agli occhi del mondo esterno.
Il ragazzo, affascinato da quella lavorazione incantevole, le aveva chiesto di posare per lui, indossando le sue stesse creazioni.
Pareva una stella nella notte buia.

Era nato così il loro amore: un’impressione di luce emersa adagio tra le pieghe di un foglio di carta illuminato dal bagliore intenso della camera oscura, sigillando le loro sagome indelebili in attimi interminabili di splendore.
Parevano un capolavoro immortalato finemente e con dedizione; i loro animi appuntati e legati insieme dal più esperto e abile sarto.
Lei amabile e dolce, ma anche un po’ testarda, aveva ritrovato in lui un confidente sincero ogni qualvolta non le sembrava di comprendere certi cambiamenti dell’animo umano; il suo amato le offriva un giaciglio e si dedicava alla sua tenera cocciutaggine con empatia e delicatezza.
Lui sensibile ed emotivo, ma anche un po’ insicuro, aveva ritrovato in lei un punto fermo ogni qualvolta sentiva le sue forze cedere e percepiva di dover piangere; la sua amata gli offriva un giaciglio e si dedicava al suo tenero smarrimento con coraggio e premura.

I loro sguardi si inseguivano lungo le strade, cercandosi incessantemente perdendosi tra le increspature delle foglie degli alberi, perpetuamente in movimento; la delicata brezza si insinuava tra le loro dita, che con discrezione si univano seguendo la melodia distante di un flauto, soffiata dal vento in lontananza tra le colline.
Giorno dopo giorno, come goccia di pioggia in un lago, il sentimento permeato d’amore si spandeva in loro, vibrando e risuonando da dentro, come il rintocco puro e sacrale di una campana.
Fino a collimare quella sera al tramonto, dove le energie dalla forza mistica convergevano allo zenit dei sensi.

Passeggiavano lungo un viale alberato, costeggiato dalla spiaggia; cullati dalle onde del mare, malinconiche nel loro inestinguibile moto, i loro passi procedevano seguendo il ritmo di una melodia armoniosa.
Una nota stonata si era percepita a spezzare l’incantesimo: senza rendersene conto il giovane, adorabilmente maldestro, era caduto a terra e aveva trascinato con sé anche lei.
Aperti gli occhi, lui aveva realizzato il terribile errore.
L’abito di lei era irrimediabilmente rovinato.
Aveva osato macchiare quell’opera amorevole con un gesto di tale sconsideratezza.
Improvvisamente, calde e candide lacrime gli avevano solcato le guance e, mortificato, aveva pianto.
Lei si era chinata con benevolenza su di lui e con diletto e leggiadria, gli aveva asciugato le lacrime da quel viso innocente. Sorridendo lievemente alla vista di quello che ora pareva un bambino spaesato a cui era appena caduto il gelato a terra, gli aveva posto con gentilezza un dito sotto al mento e lo aveva baciato. Era la prima volta; una sensazione indescrivibilmente eterea. E là dove il sole s’andava ad eclissare all’orizzonte specchiandosi nelle acque cristalline del mare, ora una luce ancestrale da loro sorgeva; si levava nel cielo la scia stellata d’amore che rischiarava il cammino, mentre quell’attimo di eterna lucentezza rappresentava il centro dell’intero universo e ogni cosa s’abbandonava al moto e ruotava attorno ad esso.

Le lacrime avevano smesso di scendere, lasciando spazio a un rossore timoroso e a un’espressione deliziosamente perplessa, intrisa di timidezza.
Gli occhi di lei avevano incontrato quelli di lui e si erano assaggiati, come se si stessero baciando a distanza; la stessa distanza che cessava di intercorrere nuovamente tra le loro labbra che, con ansia mista a desiderio, si erano incontrate piano ancora e ancora.
Lui, balbettando con esitazione, le aveva detto di amarla e aveva deciso di battezzarla con la prima cosa che aveva pensato quando la aveva vista.

“Fantasia finale”.

Lei, sorridendo indulgente, aveva stretto le sue delicate braccia attorno al collo dell’amato ricambiando quella promessa d’amore, sussurrando piano all’orecchio di lui quelle parole intrise di sentimento, solleticandogli i pori della pelle in un brivido che arrivava sino al cuore.

Rallenta.

Respira.

Apri i tuoi occhi.

Il ragazzo si trovava ora in un deserto dalle sabbie dorate.
Immacolato, incontaminato dalla corruzione dell’uomo.
Viaggiava tra le dune dalle forme utopiche, ideali; nessuna traccia di civiltà.
Il giovane continuava a camminare ineluttabilmente, senza meta, mentre il suo sguardo si perdeva tra i granelli d’oro che rilucevano alla luce abbagliante del sole.
Aveva ora scorto delle orme innanzi a sé e aveva deciso di seguirle, sperando di intravedere una figura familiare, in quel mondo che sembrava essersi arrestato, che pareva non seguire nessuna legge fisica o chimica a lui conosciuta.
A piedi nudi sulla sabbia calda, procedeva seguendo quello che si augurava fosse un sentiero di speranza; la sensazione dei granelli sulla pelle irrorava il suo corpo di un tepore dall’energia ermetica e ignota che, con sibillino mormorio, lo invitava a perdersi in quell’oceano infinito d’oro.
Era giunto a un sacrario, sperduto tra la vastità sospesa senza tempo e lì, genuflesso, aveva pregato.
La sua essenza si inondava di un sentimento pregno di nostalgica malinconia; le mani giunte e le dita intrecciate innanzi al volto si intersecavano con quel flusso di emozione, scaturendo un bagliore tenue intorno alla sua figura, mentre una lacrima era scesa lungo il suo viso.
Raccolto in preghiera sentiva la sua coscienza trascendere, il suo corpo sdoppiarsi, mentre la sua mente si svuotava completamente, giungendo a una meditazione profonda; mettendosi in relazione con il suo io più profondo, aveva sentito una flebile voce che, sussurrando, gli aveva fatto tintinnare l’anima.

Nel sogno irrequieto, giace un miraggio

La voce era scomparsa repentina, assieme al deserto e le sue irreali atmosfere.
Era tutto svanito, fluendo via dalla mente e dissolvendosi come fumo nel torpore della notte.
Il ragazzo si era svegliato: accanto a lui nel letto, la sua amata dai capelli biondi, ora sciolti.
Le si era avvicinato e aveva posato la fronte contro la sua schiena, cingendole la vita con le braccia, mentre la sua mente era ancora avvolta dall’oro della sabbia.
Scivolando nuovamente tra le mani dell’incoscienza, nelle sue orecchie ancora risuonava la voce e la frase misteriosa pronunciata con un sibilo distorto, spirale intangibile.

I raggi del mattino imperlavano tenui le pareti della stanza e attraverso gli ornamenti ricamati sulle tende, proiettavano impronte lucenti, fregiando le superfici di rose e di viole.
Quel dolce e discreto tepore li abbracciava in una morbida stretta mentre le loro coscienze si svegliavano all’unisono, destandosi dalle astrazioni pindariche notturne dipinte ancora sui loro volti un po’ offuscati dal torpore.
In un moto di flebile incertezza le dita delicate di lui la avevano sfiorata, saggiandone le forme aggraziate con gesto amorevole, premuroso; gli istanti si smarrivano e lo scorrere del tempo svaniva, volatilizzandosi come foschia al chiarore d’alba.
Avevano dimenticato la concretezza di ciò che è tangibile, fondendosi in un unico respiro, alito che riecheggiava nei loro corpi vibrando in sospiri d’amore.
Si erano insinuati nell’altrui percezione, scorgendo i recessi intimi più reconditi delle loro anime; queste ultime andavano ad armonizzarsi all’unisono come melodia incisa nella carne: spartito di esemplare complessità e bellezza.
Erano rimasti così, sospesi per interminabili minuti, mentre cercavano di riprendere fiato, smarrendosi nella dolce gioia degli sguardi, dei corpi sinuosi intrecciati come edere.

Erano seduti ora abbracciati l’uno all’altra, consumando una colazione dal profumo di famiglia, amabile quotidianità. L’odore agrodolce del caffè impregnava ogni anfratto di quella casa, in una coccola squisita e accogliente.
Erano in programma delle nuove “fantasie” da realizzare quel giorno.
Avevano lasciato la loro dimora e, dopo un tragitto in auto che li aveva condotti in un’area collinare, avevano proseguito a piedi.
Tra quei dolci pendii aveva sede un pittoresco borgo dal sapore antico che si sposava a regola d’arte con le creazioni di lei: avrebbe risaltato i sentori che si percepivano tra le pieghe di quella stoffa.
Con quella contentezza che animava i loro animi, si erano incamminati lungo le strade; il cinguettio dei passeri sui rami, cui era possibile scorgere i nidi e il bagliore dei raggi solari rendeva quella vista un dipinto splendido, rifinito con letizia condita da una tenera fitta al petto: sensazioni tipiche della primavera.

Rallenta.

Respira.

Apri i tuoi occhi.

La ragazza aveva socchiuso le palpebre, incerta su dove si trovasse.
Era persa, stordita e un fischio assordante le inondava le orecchie.
Il corpo pareva non rispondere al suo comando, anzi, pareva non esserci affatto: si percepiva annegare in un oceano di pece; tutto quello che risiedeva al di sotto del suo capo era stato inghiottito da una voragine nera.
Smarrita, aveva provato a voltare il capo e il suo sangue si era istantaneamente raggelato.
Una folata glaciale, artica era soffiata forte dentro di lei e il suo cuore giaceva nel suo petto agonizzante.
Il suo amore era disteso a qualche metro da lei: non sembrava riuscire a muoversi.
Una scintilla di adrenalina le era scattata dentro, destando il suo corpo da quella stasi stagnante in cui si trovava.
Lo aveva raggiunto, tra le lacrime e la voce spezzata che avevano chiamato il suo nome con tutto il fiato che i suoi delicati polmoni potessero permettere di scagliare fuori.
Si era chinata su di lui e lo aveva chiamato ancora e ancora.
Il piccolo spiraglio di vita che albergava in lui aveva risposto all’invocazione di lei: le aveva sorriso incurvando le sue labbra in quella smorfia sciocca che le aveva fatto battere il cuore la prima volta.
Era solo un brutto sogno.
Lui era solito inciampare e cadere dal nulla; accadeva costantemente tutti i giorni. Non sarebbe finita in modo diverso da tutte le altre volte.
Questo lei continuava a ripetersi, non riuscendo a razionalizzare quell’auto sopraggiunta a velocità folle che non li aveva degnati di un singolo sguardo; di quella spinta improvvisa ricevuta da lui, che l’aveva sbalzata sino al ciglio di quella strada impervia; di quel sacrificio frutto d’amore che le aveva risparmiato la vita, clemente, ma che la stava portando via alla persona che amava con tutte le sue forze.

Il suo tanto adorato e timido cacciatore di fantasie attraversava il sottile filo tra la vita e la morte: un funambolo sospeso su quella corda esile, tenue, come quei dettami che stabiliscono gli equilibri del mondo.
Giaceva in quel letto asettico e dai lenzuoli bianchi attraversato da interminabili cavi come rami d’edera avviluppati al suo corpo inerme, mentre i macchinari tentavano in tutti i modi di restituirgli la linfa vitale che aveva perduto.
La ragazza si era disperata ogni giorno della sua fragile vita, ripercorrendo in ogni istante della sua vuota e stanca esistenza quegli attimi di puro terrore; la sua mente le faceva rivivere ogni dettaglio, da infida e meschina doppiogiochista, mentre il suo cuore si struggeva immaginandosi al posto di lui e rimpiangendo ogni secondo di non essere lei quella avvinghiata al mietitore.
Gli occhi scavati dal pianto, non lasciava praticamente mai il fianco e la mano del suo amato: religiosamente gli stava accanto e pregava per lui in qualunque istante, persa nei ricordi passati di quegli interminabili attimi di amore.
Gocce di memoria che fluivano calde sulle sue gote, mentre visioni pregne di nostalgia raggiungevano la sua mente affollandosi in grovigli pasticciati.
Ricordava, si perdeva nei recessi delle sue reminiscenze celandosi al loro interno; imbevuta di quella melanconia ammaliante sprofondava sempre più in basso nelle rievocazioni del passato.
Quel fugace, inusuale primo incontro, riflesso negli altrui occhi come tenue scintilla.
Quella prima carezza per consolare un cruccio che ora pareva così marginale da non necessitare una reazione così spropositata, ma che allora aveva generato un dolore che solo quelle mani sottili potevano lenire.
Quella prima foto, scattata per immortalare la bellezza nella sua intimità più pura; essenza autentica dell’armonia di una stella.
Quel primo bacio per alleviare le pene da un errore frutto di innocenza; lacrime sopite dall’integrità di quel sentimento che non conosce corruzione.
Quegli sguardi scambiati al tramonto, laddove quella pallida e timida luce riverberava all’unisono con i loro cuori, mentre scendeva la sera e la luna s’apprestava a rischiarare la via verso casa.
Le coccole sotto alle morbide lenzuola.
Le serate d’inverno allietate dalla cioccolata calda e dal proprio film preferito in televisione; abbracciati, stretti l’uno all’altro consumando attimi di intima condivisione.
E quelle volte che i loro corpi si erano fusi, spinti da quello sguardo che tacitamente riusciva a comunicare più di quanto le loro parole potessero fare.
In quegli istanti in cui il resto spariva.
In quegli istanti in cui il male non esisteva.
In quegli istanti dove il dolore non poteva penetrare come goccia di veleno a turbare gli animi.

L’istantanea si stava consumando, le pagine del libro ingiallendo.
Lentamente, inesorabilmente, quegli echi remoti cessavano di diffondere le loro cristalline vibrazioni. Tutto andava logorandosi: si scioglieva ai margini della percezione di lei che, pregando per mantenere vivo il proprio amore, vedeva la cera della candela ricadere a terra goccia dopo goccia; la fiamma si tormentava per riuscire a sopravvivere, ondeggiando disperata per non esaurire quel bagliore ormai tristo e cupo.
Mese dopo mese la certezza di una speranza si dissolveva tra le scritte e i numeri incomprensibili degli schermi in quella stanza d’ospedale; loculo freddo e gelido e quella piccola candela tra le mani della ragazza lottava ogni giorno per riscaldare quelle pareti ormai perse nel baratro infernale del dolore.

Lei rimaneva lì.
Ora dopo ora.
Giorno dopo giorno.
Mese dopo mese.

Aveva vegliato su di lui ogni notte e il sonno l’aveva abbandonata: temeva che se si fosse allontanata, cullata dal torpore avrebbe dimenticato quei dolci ricordi o che lui sarebbe scomparso per sempre.
Non voleva e non doveva dimenticare.
Aveva scostato una ciocca di capelli dagli occhi di lui e aveva nuovamente preso posto al suo fianco, tenendogli saldamente le mani.
Erano passati sei mesi da quell’evento infausto che aveva segnato quelle due anime congiunte.
Le palpebre si facevano pesanti, il suo corpo stava ormai cedendo al peso di quel dolore; quella stanchezza che attanagliava ogni fibra del suo essere reclamava il dominio su quel fragile corpo.
Senza rendersi conto aveva perso la battaglia, era scivolata tra le braccia di Morfeo in una transizione tra il sonno e la veglia impercettibile e, ormai, tutto era silente. Lontano. Ovattato.
Aveva visto la mano del suo amato raggiungerla, sfiorarla.
Aveva visto i suoi occhi verdi.
Aveva visto le sue dita insinuarsi nel suo petto, fino al cuore.
Aveva visto un deserto immenso e ne aveva respirato un sentore solenne.
Aveva sentito un calore dalla bellezza indescrivibile sulle sue mani.

Lui navigava in un oceano di catrame; viscoso vuoto che si annidava in profondità dentro di sé cercando con veemenza di cancellare l’identità di lui e il suo sciocco, ma amabile sorriso.
Non rimaneva molto di lui se non un guscio che galleggiava inerme in un malinconico naufragare nel suo non esistere.
La sua coscienza si sbiadiva come parole di una vecchia canzone che si fatica a ricordare, la sua voce aveva smesso di riecheggiare tra le sciocchezze della gioventù.
I suoi occhi aperti e catatonici fissavano la vacuità immensa del nero; orecchie tappate non udivano nulla se non un distante mormorio troppo impastato per poter associare ad esso un significato intelligibile.
Per quanto tempo era rimasto lì?
Un giorno? Un mese? Un anno? Dieci anni?
Non aveva senso porsi questi quesiti ora che si era lasciato annegare in quella perenne e inconsistente stasi. Perché provare? A cosa sarebbe servito continuare quel conflitto che pareva non avrebbe mai potuto vincere? L’indomabile catrame lo stava avvolgendo e lo avrebbe condotto sempre più in basso, fino a trascinarlo sull’orlo del non ritorno; abisso imperscrutabile d’oblio.

La sua mente stava cedendo alla tentazione di quel pozzo nero, ma all’improvviso aveva parso di sentire qualcosa smuovere una ciocca dei suoi capelli ricci, ormai intrisi di quel fluido diabolico.
Quella voce. Quella voce era tornata a riecheggiare nella sua memoria, assieme alla visione di quella sabbia scintillante d’oro.

Nel sogno irrequieto, giace un miraggio

Dapprima debole, impercettibile, aveva preso a risuonare con frequenza sempre maggiore nella sua mente, spandendosi come un sassolino a contatto con la superficie cristallina delle acque di un lago.
E come si trovasse lui stesso in quel lago aveva cercato disperatamente di risalire in superficie, nello stesso istante in cui la sua coscienza si destava da quella melanconica paralisi che lo aveva incatenato nella notte senza stelle.
Ricordava la ricerca in quel deserto utopico; le orme trovate sulla sabbia ritornavano a illuminare il cammino e allora, come in quel sogno, aveva deciso di seguirle.
Ricordava la preghiera al sacrario e allora, nuotando furiosamente seguendo la luce, aveva pregato con tutte le forze che aveva; il catrame si insinuava nei suoi occhi gonfi e arrossati, nei suoi polmoni e nel suo stomaco, ma la forza atavica della preghiera lo spingeva verso quel bagliore accecante con la forza di un fiume in piena.
Quella preghiera, lo avrebbe condotto alla verità.
Con sforzo inenarrabile, aveva balzato con tutta l’energia di cui disponeva e attraversato quel tunnel di luce, aveva visto la mano di lei e la aveva stretta alla sua.

Rallenta.

Respira.

Apri i tuoi occhi.

La ragazza schiudeva i suoi occhi ora dopo molto tempo, rimasti vigili per un periodo interminabile.
Si era alzata frastornata, avvicinandosi alla finestra: chissà quanto tempo era passato?
E lui?
Lui era ancora lì?

La ragazza di carminio vestita si era voltata, accarezzata da quella melodia familiare, che discretamente le aveva solleticato le corde della memoria.
Gli occhi madidi e imperlati di gocce cristalline erano ora fissi sul ragazzo dalle gote pallide, vestito d’abiti dorati, la cui ombra si stagliava al suolo, incrociandosi con la sua in forme vibranti, evanescenti.
Pareva divina, quell’apparizione; sul labile e fumoso confine tra il concreto e l’immaginazione vi era lui, con uno sguardo indecifrabile in quei mari verdi sul suo viso.
La ragazza aveva chiamato il suo nome.
Lentamente e con estrema delicatezza si era accostata a lui e gli aveva preso le mani con la stessa grazia con la quale si maneggia il cristallo, tanta era l’angoscia di poterlo perdere di nuovo.
La matita le era caduta dalle dita andando a incidere un ultimo segno su quel disegno, la cui visione si spandeva a macchia d’olio innanzi a lei. Ora poteva osservarlo nella sua interezza.

Avevano entrambi aperto gli occhi nello stesso istante, svegliati dal torpore come dopo una lunga notte insieme, abbracciati l’uno all’altra in un intrico infinito.
La percezione di quel momento sembrava irreale, calma sconcertante: nel silenzio di quelle figure che parevano bloccate nel tempo, si percepiva una frenesia senza voce, un’irrequieta tranquillità.

Lei aveva preso a piangere e il suo singhiozzo strozzato aveva rotto quella quiete illusoria.
Il tempo era ritornato a scorrere mentre i medici si affollavano in quelle pareti che ora riacquistavano il loro colore, la vita che cercavano di preservare.

Lui la aveva guardata e inspirando profondamente le aveva sussurrato:

“Fantasia Finale”


Hey, finalmente ritorno per pubblicare qualcosa dopo eoni.
I contest sanno darmi la giusta ispirazione anche in momenti un po' scarni di idee e sono felice di avervi preso parte anche questa volta.
Mi sono ispirata a molte cose per questa storia. Ci ho messo in mezzo un po' di elementi che mi hanno particolarmente influenzata nell'ultimo periodo: il mio aver giocato ed essermi innamorata perdutamente di Final Fantasy IX, da cui ho ripreso il titolo, e un duo folk chiamato The Oh Hellos quelli di Soldier, Poet, King.
Ringrazio chi si fermerà solo per leggere, anche se gradirei molto un riscontro.

   
 
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