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Autore: Vella    25/08/2023    2 recensioni
Francis è nata a Mountain Lake nella grande tenuta di famiglia assieme alla sorella Adele e ai cugini, Harlem e Karl. È il 1958 e l’estate non è più quella dell’infanzia. La famiglia è stata per loro il primo luogo di convivenza, ma ora faticano a riconoscersi, ognuno legato a qualcosa di diverso. Tutto si complica quando i segreti dei più anziani si intrecciano con le vite dei giovani ragazzi. Le decisioni vacillano e gli orrori che si perpetrano da generazioni, diventano per loro un macigno pesantissimo.
Francis ha ricevuto la sua vocazione a dieci anni ma tutto cambia con l’arrivo dei gemelli che non si vedono da anni. Il cugino Karl è distruttivo, schernisce, non si lascia abbindolare da nessuno. Adele è irriverente, crede di essere innamorata di Harlem. Si muovono tutti, lucidi, sul filo del rasoio, vittime e carnefici di coincidenze, amori, ingiustizie e bugie.
Genere: Azione, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago, Storico
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Una storia d'amore

Prima parte

 
 
 
1. Estate, arrivi, menta

Settembre 1948

Il morto era steso sulle lenzuola bianchissime. Sembravano riflettere una tenue luce nella camera da letto. Le tapparelle delle finestre erano abbassate quasi del tutto, solo da una lampada laterale si espandeva una calda atmosfera nel mezzo della morte. Francis era una bambina, al tempo, non capiva molto bene certe cose ma sapeva che suo nonno non si sarebbe più alzato da lì. Dov’era andato?  Il corpo era circondato da un’aura fumosa che arrivava pungente alle sue narici. L’incenso era profuso dall’uomo della chiesa. Lo stesso che ogni domenica allargava le braccia davanti alle panche della comunità. Era un prete che sorrideva spesso, ricordava vagamente, ma ora, in quell'atmosfera asfissiante, non lo vedeva quasi più. C’erano due signore, rugose in volto, di fianco a lei che si lamentavano senza mai trarre fiato. Urlavano per alcuni minuti, poi tornavano a mormorare parole sottili che si componevano attorno alla salma e si spezzavano un attimo prima di essere comprese dalla bambina. Una di loro si tirò anche i capelli e Francis fu allontanata con una mano dalla madre in nero. Le donne stavano lì, ammucchiate attorno ai loro pensieri, misti ai ricordi di una vita intera. Il capofamiglia non c’era più. Francis uscì sulla terrazza, dall’alto vide suo padre assieme ad altri uomini e ai suoi cugini, Harlem e Karl, che erano di qualche anno più grande di lei e con cui non riusciva mai a parlare perché derisa. Vide il padre che allungava la mano sulla spalla di Karl ma fu per troppo poco tempo. Fumavano sigari e poi sparirono nell’androne. C’era un muro invisibile a dividerla da quel mondo che si diffondeva lì sotto e i segreti che si sussurravano tra di loro erano solo immaginabili. Dov’era andato il nonno? Non sentiva più la sua voce baritona. Cosa sarebbe accaduto in paese?... Perché sua madre piangeva già prima che il nonno smettesse di parlare?
Sulla terrazza il sole era cocente e Francis udiva ancora quel pianto infernale uscire dalle tapparelle della stanza. Avrebbe sognato quei visi lunghi, con le mani aperte in aria e i denti anneriti dalla tristezza per lunghe estati della sua vita.
«Francis… Francis dove sei? Francis…?» la voce materna le giunse lontana come un’eco. Poi fu spazzata via dal luogo dei suoi pensieri con violenza: «L’abate, devi salutare l’abate» le sussurrò velocemente.
Quel momento Francis lo ricordò in mille modi diversi. Gli odori si mischiavano: sudore, incenso, una leggera fragranza di menta e poi lo struscio di una guancia lungo la sua. Il ritrarsi improvviso del corpo davanti alla stazza di un uomo. Lo sguardo ricadde per un attimo al di là delle spalle del prete e lo vide. Karl era paonazzo, le labbra tremavano, bianche come il latte. I suoi occhi erano concentrati sulla schiena dell’abate Perez. Una paura viscerale si irradiò dallo stomaco, tremante il ragazzino strinse i pugni. Perez prese la testa di Francis tra i palmi delle mani e l’immagine sparì rapida dai suoi ricordi. L’ultimo ricordo della veglia funebre fu un crocifisso che penzolava sull’addome dell’uomo. C’erano pietre azzurre e rosse e alcune che si coloravano di fucsia al muoversi della luce. L’oro era intarsiato negli angoli e la figura del Cristo era piegata in avanti dal martirio. Sembrava che si stesse buttando su Francis, che volesse caderle addosso. Allora, in un istante di risposte, boccheggiante tra le mani di quell’uomo, Francis capì dov’era suo nonno e la strada della sua vita si spalancò nel mezzo della devastazione.
«Che il Signore ti protegga sempre» le sussurrò.
           
            Estate 1958
 
Ferme, davanti al bancone della cucina, mescolavano insieme una ciotola di panna. Francis era seduta su uno sgabello in legno e Adele dall’altro lato, in piedi. Folate di vento caldo entravano dalla porta anteriore e le mosche giravano a zig-zag tra l’ingresso e una cassa di piccoli pomodorini gialli. C’erano teglie sporche e un impasto appiccicoso al centro. L’aspetto non era allettante, giallastro, poco compatto, dei grumi d’aria si erano formati in superficie ed era stato adagiato in una teglia con poca cura. La pelle della fronte di Francis si era fatta sempre più spessa e lucida, il sudore si condensò in una piccola gocciolina lungo la tempia. Nel mentre, le due sorelle cominciarono a muoversi a disagio per via di quella confidenza.
«Finiamola qui, non dobbiamo continuare a parlarne».
«Dico solo» ribatté Adele «che è sconveniente per alcuni e per altri… meno».
«Per altri meno? Ma ti ascolti?»
«Hai letto Rebecca, la prima moglie? Il fascino di Rebecca. Ammaliava tutti solo con la forza dello sguardo. Gli uomini erano in trappola da… qualcosa che le apparteneva. Anche suo cugino».
La spatola che Francis aveva tra le mani cadde con un tonfo sul tavolo, tamburellò spazientita le dita sulla superficie: «Se mi permetti, tu non sei Rebecca De Winter e i tuoi occhi dovrebbero essere molto lontani da ogni forma di seduzione». Adele spalmò la panna su dei dolcetti colorati che sembravano bignè, ne prese uno e lo morsicchiò: «Non ci credo che lo hai letto! Francis la Santarellina, mi sembra già di sentire Karl» rise Adele.
«Ti prego smettila. È una cosa… impensabile, Adele».
«Sei ingiusta. Io mi sento febbricitante e…» la panna le scivolò sul mento.
«Non voglio sentire altro» Francis si alzò davanti all’eccitazione della sorella. La sua smania di superare i confini della casa, le dava alla testa, qualcosa le premeva tra la scapola e il collo. Era un dolore lieve che si aggirava nelle giornate troppo calde e poteva non darle tregua anche per settimane.
«Era meglio non parlartene».
«Sì, forse era meglio» un’ombra si affacciò sull’ingresso della cucina, aveva una maglia sporca di fango e il viso rosso sugli zigomi, in evidente imbarazzo: «Scusate, io…» Ralph era l’aiuto-giardiniere, alle volte diventava anche il postino della cuoca che quel giorno però era giù, al villaggio, in cerca di “ottimi prodotti di stagione”, come diceva lei per qualunque cena che non prevedeva la sola presenza di Mr. Hapkins.
«Ralph, entra, che fai lì sull’uscio, prendi un bignè» Adele non si tratteneva molto dal mantenere dei rapporti cordiali con chi aiutava al mantenimento della tenuta. Era talmente cordiale che dimenticava sempre di stabilire quei confini necessari. Francis lo sapeva. Li vedeva. Erano linee che si scontravano e giravano in tondo e la notte li disegnava per aria, distesa sul suo letto.
«Me ne vado».
«Te ne vai? E io cosa faccio con questi dolci?»
«Li porterò alla Caritas domani» la bruna si alzò dalla sua postazione che ora le sembrava ridicola: «Scusaci Ralph. Abbiamo solo sporcato qui giù».
«Si figuri, s-s…signorina» l’aiutante si grattò in testa e cominciò a spazzare la polvere attorno al tavolo: «O-o…ora arr-r-riva Gu-uendalina» balbettava nelle situazioni di alta tensione emotiva. Quando la pressione attorno a sé si faceva insostenibile e la famiglia che viveva nella Villa lo scrutava nei movimenti. Un lungo senso di spossatezza gli tagliò la schiena a metà e, per questo, abbassò lo sguardo. Francis era già salita al piano superiore, aveva sorriso a Ralph ma ora c’erano troppi pensieri che si muovevano nella sua testa in più direzioni. Non sapeva come tenerli legati di seguito l’uno all’altro ma il filo logico era uno. Non aveva mai dubbi. Chiuse la porta dietro di sé nella sua stanza e si distese su un letto a baldacchino di un azzurro intenso mentre attorno non c’era niente. Solo una scrivania e un cassettone in legno, con venature di un marroncino più chiaro. La libreria era piccola e i libri erano pochi, monotematici.
Una brezza leggera le accarezzò il corpo e l’attimo di quiete fu spezzato dal rimbombo di un auto che da lontano si sentiva arrivare.
 

 
Una Studebaker Golden Hawk tirata a nuovo sfrecciò lungo il viale della Villa. Le ruote sfregarono sul ciottolato e il conducente rallentò un attimo prima di superare il cancello. “Tutto lucido” pensò Gabrielle mentre si sentiva il rumore del freno a mano inserito con forza. “Tutto sempre così lucido”.
«Siamo arrivati Karl, svegliati», la donna strattonò il ragazzo che stava al suo fianco disteso per metà sui sediolini di dietro, la testa che ciondolava all’indietro fino a sfiorarle il grembo. I capelli le solleticavano lungo le braccia e, cercando un modo di divincolarsi, lo sportello fu aperto repentinamente e lei perse un po’ di equilibrio.
«Aiutami, mi stavi facendo cadere» si rivolse così a chi le porgeva una mano, «ma qui non si sono accorti di niente? Dove sono finiti tutti?»
«Zia Gabrielle…» Harlem sussurrò a mo’ di ripresa il nome della donna che, d’altra parte, ora stava cercando di stirarsi il vestito con la forza delle nocche. I merletti le scendevano sulle ginocchia un po’ stropicciati e i capelli erano scampati dalle forcine.
«Svegliati Karl, esci da questa macchina», il ragazzo si girò in un’altra direzione e mugolò tra sé: «Sissignor capitano».
Le porte si aprirono. Lente, solenni, nel calore del primo mattino. Harlem alzò gli occhi dal fratello e per pochi secondi, vide spuntare dalle tende della finestra ovale, quella che dava sul giardino e che tutti conoscevano come la Finestra del corridoio, uno sguardo. Sorrise. Erano arrivati.
Sul pendio collinare, a pochi chilometri di distanza dal centro, la Villa si ergeva da più di trecento anni. Le generazioni si erano susseguite silenziosamente le une dopo le altre e il bosco circostante abbracciava le mura della casa con fruscii delicati dati dal vento del sud.
Il frinire delle cicale era attutito, quel giorno, da uno strano rumore artificiale che penetrava da lontano la frenesia degli ospiti. L’automobile in nero lasciò la via principale e Gabrielle, Harlem e Karl si girarono indietro, ad osservare il cerchio che le ruote tracciavano attorno alla fontana di Atena.
«Significa che saliremo da soli», in fila, malgrado il rimbrottare della zia, entrarono nell’androne e Harlem, alzando di nuovo gli occhi, la vide, questa volta, in volto.
«Adele…» lungo le scale, vestita in celeste, con strati di gonna e taffetà che le cadevano di lato, in un sorriso che gli accarezzò il volto, c’era una giovane donna. Karl spinse Harlem in avanti, non accorgendosi dell’arresto momentaneo che il corpo del fratello stava subendo: «Ma che fai?» Harlem si girò di scatto, Karl sbuffò spazientito e, ora, vedendo anche lui la cugina: «Gazzella. Chiama qualcuno per i bagagli», la zia: «Ma dov’è tuo padre? Questa casa se ne sta cadendo a pezzi, abbiamo trovato la Statale piena di villeggianti. Un incubo».
Adele scese qualche gradino, le orbite degli occhi spalancate verso chi stava aspettando da settimane. Il suo stomaco in subbuglio trattenne per pochissimi istanti un sospiro. Un tremore lieve alle braccia si rese invisibile mentre passava la mano lungo la ringhiera. Coriandoli di mille colori caddero dall’alto seguiti da un botto improvviso e un grido corale. I piccoli pezzetti di carta si videro a malapena dall’androne e Karl imprecò: «Dannazione».
«Karl!»
«Mi dispiace molto, doveva essere una sorpresa dalla terrazza… Gordon… cioè mio padre, io non so bene cosa dire» Adele guardava i coriandoli spazzati via mentre il cane Joy correva lungo il prato vicino abbagliando, eccitato da ogni rumore e dagli odori che spirava.
«Non devi dire niente» Karl si era avvicinato a lei, allungò il suo braccio e le scaraventò addosso la seconda valigia che stava trasportando contro voglia: «Significa che divideremo il da farsi se non sai chi chiamare».
Adele arrossì così forte che Karl rise, poi la superò, noncurante ormai di ciò che sarebbe potuto accadergli attorno.
«Karl!» Harlem li aveva raggiunti poco dopo, alleviando Adele dal suo peso. La guardò per qualche istante con un leggero cruccio tra le sopracciglia: «Certe cose non cambiano» fu poco più di un sussurro ma lei lo sentì con fin troppa violenza e si ritrasse di lato per lasciare che la zia li superasse e che anche lui lasciasse scorrere via quel momento.
   
 
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