PERMESSO
Avevano
sempre battibeccato sulla questione antidoto, ne era consapevole.
Dopotutto,
si trattava di un argomento assolutamente prioritario; non poteva
lasciare che lui si facesse del male soltanto per il capriccio di
poter tornare – seppur temporaneamente – al suo
aspetto
diciannovenne.
Ogni
volta era la stessa storia; le chiedeva in ginocchio di poter
assumere l'antidoto e lei non era mai riuscita a negarglielo a causa
di un senso di colpa troppo grande da espiare.
Era
colpa sua se la vita del detective si era interrotta due anni prima,
in fin dei conti, e non era ancora riuscita a trovare una soluzione
permanente.
Solo
e unicamente colpa sua.
Haibara
osservò la compressa nel palmo della propria mano,
deglutendo a
fatica.
Non
voleva pensare che quella capsula minuscola potesse essere davvero la
fine di quell'angoscia che la divorava da così tempo da non
ricordare neanche come avesse fatto a non sprofondare e ad arrendersi
una volta per tutte.
Non
voleva pensare in generale, perché la speranza che riponeva
in
quella pillola era troppa e lei aveva sempre cercato di evitare
d'illudersi nella vita.
La
guardò ancora una volta, perfettamente conscia di
ciò che sarebbe
potuto accadere.
Tuttavia,
quello di morire era un rischio che avrebbe accettato volentieri per
Shinichi, senza neanche pensarci.
Gli
effetti collaterali avevano più probabilità di
svilupparsi, ma
erano molto alte anche quelle di restare adulti in modo definitivo.
Quest'ultima
non era un'ipotesi sulla quale si era soffermata volentieri.
Le
piaceva la vita da Ai Haibara, l'infanzia che non aveva mai vissuto
davvero, l'infanzia dell'amicizia, della pace e dell'affetto,
l'infanzia priva di minacce e lavoro. L'infanzia della luce. Soltanto
luce.
Non
sarebbe più stato così, lo sapeva.
Nel
migliore dei modi, sarebbe tornata Shiho Miyano; la ragazza sporcata
da Sherry, da Gin, dall'oscurità di un mondo atroce. Senza
casa,
senza famiglia, senza la sicurezza di una vita felice. Senza Akemi.
Nel
peggiore, era contenta di aver conosciuto l'amore. Quello vero,
autentico; quello di un padre affettuoso nonostante l'assenza di
legami di sangue, di bambini appiccicosi, di un amico, un
riferimento, un pilastro senza il quale sarebbe stata persa.
Sorrise
malinconicamente, mentre una lacrima minacciava di traboccarle
dall'angolo degli occhi.
Si
voltò, certa di essere da sola nella sua stanza, e
avvicinò il
palmo della mano alla bocca.
Fu
un attimo.
La
porta si spalancò di scatto e lei sussultò,
mentre l'antidoto le
sfuggiva di mano cadendo sul pavimento chiaro.
Un
bambino apparve sulla soglia della camera, fissandola in silenzio per
interminabili istanti.
Un
silenzio teso, fatto di espressioni colpevoli e stupite.
“Cosa
stavi facendo?”.
Conan
la raggiunse, notando lo sguardo di lei nascosto dalla frangia.
Seguì
la direzione del suo volto basso e solo allora notò la
compressa
bianca e rossa sul pavimento.
“Ma
quello è... ?”.
Fece
per raccoglierlo, ma Haibara fu più veloce. Strinse a
sé
l'antidoto, infilandolo nella tasca del camice.
“Nulla
che ti debba interessare, Kudo”.
Era
questione di poco prima che lui capisse tutto, lo sapeva; non sarebbe
mai riuscita a sfuggire alla sua mente geniale.
Lo
vide sgranare gli occhi e scuotere lievemente la testa poco dopo.
“Quello
era... l'antidoto? Sei riuscita a creare l'antidoto
definitivo?”.
Conan
alzò il tono senza volerlo, stupito da ciò che
lei avrebbe fatto di
lì a poco senza dirgli niente.
“Haibara,
mi rispondi?!”.
La
scienziata sollevò lo sguardo, gli occhi spenti. Lo guardava
senza
vederlo realmente, sospirando nel tentativo di calmarsi.
“Sì,
è così. Almeno, in teoria. Non ne sono sicura
finché non lo
sperimenteremo su qualcuno”.
“Perché
non mi hai avvisato prima?”.
“Perché
volevo sperimentarlo su me stessa” gli rispose
frettolosamente,
sperando di chiudere l'interrogatorio.
“Cosa
mi nascondi? Ho sempre assunto io l'antidoto temporaneo, sai che il
mio corpo è abituato e posso farlo ancora”.
“No,
non puoi”.
“Haibara...
“.
“Ho
detto di no!”.
Rimasero
in silenzio per altri lunghi, interminabili attimi, ognuno perso nei
meandri della propria mente.
Conan
non comprendeva o – probabilmente – non voleva
farlo davvero,
perché ammetterlo equivaleva a rendere reale la paura che
aveva nel
pensare di perderla.
“Quanto
è alta la possibilità di morire?” le
chiese improvvisamente,
deglutendo a fatica.
“Abbastanza”.
“Haibara”.
“È
alta, va bene? È molto alta”.
“Non
me ne hai parlato per questo, vero? Volevi impedirmi di prenderlo,
così da sacrificarti tu”.
“Non
pensavo di doverti chiedere il permesso, Kudo” rispose
tagliente,
nonostante il petto avesse iniziato a farle male per lo sforzo di
evitare di piangere.
“Non
ho mai detto questo. Ma mi aspettavo almeno che mi
avvertissi”.
“Cosa
sarebbe cambiato? Mi avresti fatto assumere l'antidoto?”.
“No”
rispose velocemente il detective, enfatizzando il suo pensiero con un
gesto della mano, “non se ne parla. È una faccenda
che riguarda
me”.
Haibara
sbattè le palpebre, stupefatta quanto ferita da quelle
parole.
Strinse la pillola nella tasca, trattenendo il magone che aveva in
gola.
“Ma
guarda, pensavo fosse un problema che riguarda entrambi. Sono la
creatrice del farmaco, forse te ne sei dimenticato”
affermò,
cercando di nascondere il tremolio nella voce. “Ma visto che
è una
faccenda che riguarda solo te, Kudo, spero di avere almeno il
permesso di andare a farmi un bagno caldo”.
Uscì
dalla camera senza guardarlo, nonostante percepisse lo sguardo
imbambolato e confuso di lui su di sé.
Si
chiuse la porta del bagno alle spalle, scivolando con la schiena
contro il legno bianco e libera di lasciar andare via l'angoscia
attraverso lacrime che le facevano male al cuore.