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Autore: EveMiller    20/10/2023    0 recensioni
Su uno sfondo fantascientifico e dispotico, due ragazzi provenienti da mondi diversi si incontrano e si scontrano.
«Se la tua società è così perfetta come dici perché hai sentito il bisogno di guardare al passato?»
«Non lo so», risposi con sincerità.
Non ci avevo mai riflettuto.
«La tua società è equilibrata, pratica, organizzata e razionale però mancano cose importanti. Fattori non trascurabili. E nel tuo inconscio lo sai, è questa la ragione per cui sei attirata dal passato perché là, in quella civiltà più brutale e primitiva, se così vogliamo definirla, ci sono quei fattori. Eliminare il dolore fisico è sbagliato, il dolore ti tempra e ti permette di crescere… senza rimani indifeso e fragile.»
«Sicuro che siamo noi quelli insicuri e fragili?»
Genere: Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Positivo.
Osservavo quelle lineette confusa. Non potevo crederci, quello che era nato come gioco si era trasformato in qualcos’altro. Mi sforzavo di riflettere, di pensare a qualcosa di utile, invece, riuscivo solo a fissare quel risultato sperando in una sorta di errore. Forse avevo sbagliato qualcosa nella procedura? Era difettoso? Poteva capitare. Sì, avevo sentito che poteva succedere. Da chi l’avevo sentito? No, era la mia mente confusa che voleva crederlo.
Avevo preso una decisione sbagliata. Questa era la verità.
«Non sei stata prudente», avrebbe detto Estelle, mia madre, in tono di rimprovero. La prudenza prima di ogni altra cosa. Mi accasciai sul pavimento, la schiena appoggiata alle piastrelle.
No. Non è possibile. Non è vero.
«Che cosa succede? Perché sei seduta per terra?», domandò Estelle con uno sguardo vagamente contrariato.
Una novità per lei, visto che non si scomponeva mai. Non l’avevo sentita arrivare, né mi ero preoccupata di chiudere la porta. Per una volta ringraziai il suo passo felpato: un minuto ancora da sola e sarei impazzita.
«Cos’è?» Si avvicinò e vidi la sua espressione irrigidirsi. «Dove l’hai trovato?»
Non volevo piangere, non era da me, però avvertivo le lacrime spingere. Farsi strada agli angoli degli occhi.
«Porgimelo subito.» Mi prese il tampone dalle mani e si incupì. «Cosa significa? È uno scherzo?»
Non riuscivo a parlare e scrollai la testa. Restammo in silenzio.
«Riprova», disse in modo autoritario.
«Non si può», mormorai tentando di non far tremare la voce.
Avrei voluto sparire all’istante, così non avrei dovuto subire le conseguenze della mia imprudenza. Mi rimproveravo per aver dato retta agli altri. Ma lo avevano fatto tutti, o quasi, nella mia scuola e io, per una volta, volevo essere come loro. Volevo integrarmi.
All’improvviso, dopo un paio di secondi, lei schiantò il tampone sul pavimento, fu un gesto tanto violento da rompere l’oggetto.
«Mi denuncerai, vero?»
Pareva sul punto di esplodere, i pugni stretti, la mascella contratta. Trattenni il respiro.
«Non mi hai lasciato altra scelta, tesoro.»
Tesoro. Pronunciò quella parola con una certa carica di stizza.
Ero sicura che sarebbe andata in questo modo se Estelle mi avesse trovata con un tampone per l’NH-50 in mano (a parte la scena in cui avrebbe buttato il tampone a terra e mi avrebbe chiamata tesoro… avevo esagerato un po’ con l’immaginazione! Mi capitava, di tanto in tanto).
Mi alzai in fretta e chiusi la porta prima che ciò potesse accadere. Mi sedetti di nuovo e rimasi a fissare il vuoto.
«Voix.»
Chiamai l’intelligente artificiale installata in casa. Una voce femminile, simile a quella di un essere umano, mi rispose. Avevo scelto quella voce tra le tante disponibili perché si addiceva di più all’idea di madre che avevo in mente: calda e rassicurante, sempre con inflessioni comprensive.
«In che cosa posso aiutarti?»
«Quali sono i sintomi dell’NH-50?»
Dopo una frazione di secondo, la voce disse: «Febbre alta, mal di gola, problemi respiratori…»
«Febbre? Cosa significa?»
«Un alzamento della temperatura corporea al di sopra della norma. Per valori ritenuti nella norma si intendono 36,5-37 gradi. Devo essere più specifica?»
«No, grazie. Ho capito», risposi toccandomi la fronte accaldata.
Era più calda? Tastai la gola, percepivo un lieve bruciore.  Mi stavo suggestionando?
«Desideri che prosegua?»
«Quanti casi ci sono nel nostro Paese?»
«Sospetti o accertati?»
«Accertati.»
Ci fu silenzio, infine, la voce tornò a riempire la stanza.
«Zero.»
«Dov’è nato?»
«Le fonti più accreditate riferiscono Corea del Nord.»
«Come avviene il contagio?»
«Per contatto, non è escluso per via respiratoria.»
Avevo prestato poca attenzione a quella situazione che invece aveva riguardato il resto del pianeta. Non sapevo granché, anche perché non giravano molte notizie a riguardo. Nel nostro Paese non se ne parlava e, di conseguenza, noi non ne parlavamo. Vivevamo tranquilli le nostre vite, come sempre. Conoscevo il nome del virus perché qualcuno a scuola si era interessato, sapevo che c’erano molti contagiati. Avrei dovuto chiedere a Voix la percentuale di mortalità, ma non volevo ascoltare. Non potevo gestire la cosa da sola però non potevo nemmeno dirlo ai miei genitori. Per la prima volta nella vita mi sentivo impotente. Non avevo idea di cosa si provasse ad avere febbre, mal di gola o problemi respiratori. L’idea di sperimentare un dolore ignoto mi spaventava e incuriosiva. Il genere umano aveva sconfitto da tempo le malattie, non esistevano più i centri per il controllo delle malattie infettive o le strutture sanitarie.
Nascosi nella tasca della giacchetta il tampone, infilai gli scarponi neri sopra le calze lunghe fin sopra al ginocchio (avevano dei buchi e mi piacevano proprio per quello), lo zaino sbrindellato in spalla e uscii. Misi il berretto al contrario, come avevo visto in alcune vecchie fotografie. A quanto pare era “figo”. Tirai fuori dalla tasca quelli che chiamavano occhiali da sole e li indossai. Non avevo bisogno di schermarmi gli occhi, avevo già lenti a contatto che servivano al compito, però mi piaceva nascondermi dagli sguardi estranei. A volte non sopportavo la disapprovazione della gente. Mia madre non approvava il mio taglio di capelli lunghi e scalati. Era più pratico portarli corti, non necessariamente come gli uomini; per le donne erano graditi fino alle spalle, lisci sarebbe stato ideale. Pratico e igienico, diceva mia madre. Io rispondevo: monotono e noioso. Che poi sono sinonimi, cosa che mi faceva notare. Più di ogni altra cosa era stata contraria all’eyeliner bianco tatuato che mi affilava e illuminava gli occhi, un dettaglio semplice ma che mi rendeva unica. Estelle non gradiva l’unicità.
Camminai a lungo osservando le piante, i fiori e gli alberi che si integravano con gli alti palazzi diventando un tutt’uno. La tecnologia che era in assoluta armonia con la natura. Pensai alle città grigie del passato e provai a immaginare come doveva essere stato vivere lì. Giunsi alla “zona proibita” della città, la definivamo così noi ragazzi; non era veramente proibita, più desolata e sporca. Era il luogo di ritrovo per i “terrestri”. Ero sempre stata affascinata dal passato e dalla storia di un’esistenza lontana e diversa dalla realtà attuale, ero una di quelle che ora chiamavano “terrestre”. C’erano cose che appartenevano al mondo precedente che mi attiravano, non perché fossero migliori, la società in cui vivevo era equilibrata ed equa – per usare i nostri termini – ma non utopica. Creare un mondo utopico, sarebbe come portare caos mascherato. Slogan che avevano usato e usavano ancora i politici. Da amante di una realtà che ci eravamo lasciati alle spalle anni e anni fa, mi procuravo sottobanco oggetti e vestiti. Ai miei genitori non piaceva e non era vista di buon occhio nemmeno dalla società, ma non era vietato. L’omologazione era la scelta più consigliata e apprezzata, tuttavia chi era al potere sapeva bene che proibire e rendere illegale qualcosa non avrebbe fatto altro che incentivarla. Era un concetto non semplice, ma era stato sufficiente analizzare ciò che era avvenuto legalizzando le sostanze stupefacenti – ovviamente con le dovute precauzioni: una mossa che avrebbe potuto distruggere la società si era rivelata vincente. Inoltre, essendo questo gruppo di nostalgici ristretto, veniva tollerato e considerato un rischio accettabile. Grazie alla mia indole ribelle avrei quindi potuto procurarmi ciò che mi serviva per avvalorare o smentire il risultato del test.
Al di là del muro lindo e pulito, l’altra parte, piena di murales e manifesti, si affacciava su un pezzo di terra dimenticata dalla società. O lasciata per i reietti. Scavalcai e mi ritrovai a casa: lì giravano persone simili a me, trasgressivi e anarchici. E anche fannulloni. Feci qualche cenno di saluto mentre incrociavo gente, senza soffermarmi a parlare. Non ero di compagnia, in special modo quel giorno. Nella “zona proibita” c’era poco e niente, qualche vecchio vagone di metropolitana, autobus e sgangherati edifici, il tutto condito dalla polvere e dall’impietoso trascorrere degli anni. L’autobus era il luogo di smercio degli oggetti del passato e mi diressi lì, da Jim.
«I tuoi andranno fuori di testa se passi tutto il tempo nella zona rossa, Hel.»
Zona rossa. Zona proibita. Ognuno la chiamava nel modo che preferiva.
«Pensa un po’, Estelle crede che sia io quella fuori di testa», replicai sorridendo a Jim. «Anche se lei non userebbe mai termini così volgari.»
Jim aveva la barba e i capelli lunghi, e i peli sulle braccia. Certamente non pratico ed igienico. Non mi dispiacevano, e non mi dispiaceva neanche il suo linguaggio.  
«Un po’ lo sei, bambina. E mi piace. Mi piace un sacco. Cosa ti porta qui?»
«Cerco un oggetto che si usava per misurare la febbre.»
Jim inarcò un sopracciglio. Era un uomo burbero con gli estranei, ma affabile e giocherellone con gli amici. Di sicuro era la persona più volubile e insolita che conoscessi.
«Un termometro? È questa la nuova moda di voi giovani? Prima il tampone NH-50 e ora i termometri? La noia vi gioca brutti scherzi.»
«Ce l’hai?»
«Ti ho mai delusa?»
Era infastidito come tutte le volte che mettevo in dubbio che non possedesse quello che cercavo.
«Ce l’hai qui o devi reperirlo?»
«Ce l’ho pronto all’uso. Sai come funziona?», domandò trafficando sotto al bancone per tirar fuori un panno, all’interno c’era un contenitore con un tappo verde. «Devi tirar giù il mercurio, la linea blu all’interno, con uno scossone, poi metterlo sotto l’ascella o in bocca e aspettare almeno cinque minuti.»
«Lo so.»
Lui mi guardò perplesso.
«Cosa ci devi fare?»
Mi spostai appena per indicai il cartello dietro di lui che recitava in lettere rosse: “Astenersi ficcanaso e perditempo
«Invoco la legge sacra del cartello», dissi tentando di essere divertente.
Questo aspetto lo stavo imparando da lui e da chi viveva nella zona rossa, ma avevo l’impressione di non essere spontanea come loro. Al di fuori, non era comune fare battute spiritose.
«Comincio a pentirmi di averlo appeso.»
«Me lo vendi oppure no?»
«È tuo.»
«Grazie. Stasera ti scarico il “ricordo”.»
Ogni transazione di compravendita avveniva tramite il pagamento di ciò che definivamo “ricordo”, il denaro del nuovo mondo.
Me lo porse riavvolgendolo nello straccio e raccomandandosi di fare attenzione a non romperlo. Lo ringraziai e me ne andai spingendomi nella “zona proibita” più in là di quanto avessi mai fatto. Avevo bisogno di allontanarmi. Poi, mi risvegliai dal mio turbinio di pensieri, trovandomi in mezzo a una distesa di erba secca. Mi sedetti e presi il termometro: feci quello che aveva detto Jim. Furono i cinque minuti più lunghi della mia vita. Attesi ispezionando il cielo in cerca di nuvole: il cielo era vasto e vuoto.

 
   
 
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