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Autore: EmmaJTurner    27/10/2023    4 recensioni
“Mi hai fatto chiamare. Hai scritto che hai un lavoro per me”.
“Esatto”.
“Sei stata insopportabilmente vaga”.
“Eppure sei qui”.
Logan strinse la mandibola, colto in fallo. Meli trattenne un sorrisetto vittorioso.

[Paladini, vampiri, un sotterraneo pieno di mostri e un bambino da salvare. Secondo me, andiamo a farci male]
Genere: Avventura, Azione, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Cercasi Ammazzamostri'
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Spazio dell’Autrice

Ciao, sono Emma, e ho una fretta del demonio. Perché? Non lo so. Ma questi due mi tengono sveglia giorno e notte a scrivere, e intanto mi sono fissata l’obiettivo di 1000 parole al giorno (sì, ho un foglio Excel) almeno fino alla fine dell’anno. Poi non si sa. Intanto, godetevi questi due maledetti che vanno a farsi male di sicuro.

 

Il Dungeon di Darren

1000 navok, vivo o morto 

Meli conficcò il coltello da caccia in fondo al bulbo oculare del mostro. Lo estrasse con una smorfia di disgusto e lo ripulì in fretta dai resti di sangue e cervella. Quei cosi monoocchio erano dappertutto, ormai. 

Meli si raddrizzò e respirò a pieni polmoni l’aria fredda di fine ottobre. I picchi erano coperti di neve e i torrenti, carichi di acqua dai ghiacciai, cantavano saltando sui sassi in ogni angolo del bosco. Le nuvole correvano basse, coprendo i gialli e gli arancioni degli alberi in banchi opachi di nebbia gelida, e la pioggia cadeva in violenti scrosci discontinui, infradiciando il mantello dei viaggiatori e rendendo i sentieri una melma scivolosa. L’aria sapeva di funghi e di terra pregna d’acqua. 

Era autunno: la stagione dei fuochi fatui; la stagione dei ruscelli e delle nebbie. E la stagione delle schifezze piene di occhi, di denti e di artigli nascoste nella bruma. Quell’anno, poi, era peggio che mai: le strigi stridevano sui picchi, le anguane emergevano dai torrenti fangosi. I troll, liberi dalla minaccia del sole, ora un debole disco opaco dietro le nubi, cacciavano anche di giorno. 

Insomma, una stagione piena di rogne per chi, come lei, doveva muoversi nei boschi.

Meli raccolse uno stelo erboso e ne annusò il delicato fiore a ombrello: sapeva di piscio di gatto. Soddisfatta, Meli aggiunse il fiore al mazzo che teneva nella mano sinistra. La cicuta, dal caratteristico odore nauseabondo, era una delle piante più velenose della regione di Zolden: bastavano due grammi di frutti verdi per uccidere un uomo adulto - in seguito a una serie di spiacevoli effetti collaterali quali salivazione, sudorazione, accelerazione del battito cardiaco, tremori, delirio e convulsioni. Le richieste di cicuta erano aumentate con l’aumentare di creature di cui liberarsi: il veleno ricavato dai suoi frutti non aveva antidoto conosciuto.

Meli, nonostante la pioggia e il freddo inclemente, trovava raccogliere la cicuta estremamente rilassante. Certo, se non avesse dovuto fermarsi ogni dieci minuti ad accoltellare un mostro sarebbe stato meglio, ma tant’è....

Dopo il suo rientro a Pecul e il febbrile lavoro di fabbricazione di olio antiparassitario da spedire all’Abbazia, Meli aveva avuto un periodo di relativa pace. Nonostante i suoi timori dopo il quasi-assalto da parte delle due voci misteriose nel bosco, nessuno era venuto a cercarla; il sangue di drago restava introvabile e non aveva sentito nessuno venire ricercato o minacciato al riguardo. E anche le sue sorelle stavano bene, grazie al cielo: Anja era più sfuggente del solito, in verità, ma rispondeva ai messaggi. E Lila… bè, era Lila. 

Meli guardò il cielo grigio. Era l’ora di rientrare. Camminò per quasi un’ora lungo i pascoli verdi sotto la pioggia sottile, affondando nel fango fino alle caviglie, prima di arrivare a Pecul. Bagnata e infreddolita, entrò nel retro del negozio con il suo bel mazzo di fiori e frutti di conium maculatum, si tolse gli stivali inzaccherati, posò i fiori sul bancone da lavoro più vicino, mise il mantello ad asciugare e si scaldò le mani davanti al fuoco acceso.

“Mmrr?”. Polpetta, infastidito dal trambusto improvviso, si rigirò nel sonno coprendosi gli occhi con le zampette. 

“Sì, sì, adesso la smetto di fare casino”.

Meli osservò invidiosa il gatto appallottolato sulla sua branda sopra le coperte e le pelli di pecora. In un’altra vita, magari…

Dal negozio arrivavano ovattati rumori di voci e tintinnio di mercanzia spostata. Zeno si stava occupando di un cliente. Meli lo lasciò fare e rimase felicemente nascosta nel laboratorio del retrobottega: il suo regno.

I due larghi banconi da lavoro erano stati ripuliti e messi in ordine da Zeno: file di vasetti erano in attesa di essere riempiti, etichettati e riposti nelle scansie di là in negozio. L’Erbario, protetto da un flebile incantesimo azzurro, era stato spostato in un angolo; al suo posto c’era un grosso vaso strabordante di erba pimpinella, che Meli voleva svasare per raccoglierne le radici. 

A sinistra, nella teca di vetro, riposava il suo ultimo tesoro: la talea di Rosa Eterna, immersa in una miscela di acqua e miele, che ora stava mettendo le prime radichette; Meli le misurava con trepidante gioia ogni mattina. Presto sarebbe stata pronta per il trapianto in serra, e a primavera avrebbe potuto portarla all’aperto in un vaso di terracotta. Sarebbe stato glorioso avere una fioritura già il primo anno.

Meli si perse ad ammirare lo stelo senza spine per qualche secondo, poi andò in negozio e trovò Zeno, ora solo, intento a sistemare confezioni di asfodelo in polvere. Lo stava aiutando a sistemare le più pesanti negli scaffali in alto quando fu interrotta dallo scampanellio del negozio. Dalla porta aperta una faccia conosciuta le sorrise. 

“Ciao Reika” la salutò Meli.

La donna le rispose con un educato cenno di saluto. Reika era un’autentica donna delle montagne, di etnia shati, alta e muscolosa, dalla pelle scura e lunghe trecce nere. Era nata nello stesso distretto di Meli, ma in un paese più a nord, e adesso girava la regione lavorando come mercenaria, guardia del corpo, pastore e, all’occasione, ammazzamostri. A Meli Reika piaceva: era concreta, affidabile e non si lamentava mai dei suoi prezzi.

La seguiva, immancabile, un enorme cane pastore dal lungo pelo bianco. Quando arrivò sotto al bancone, il cane si sedette docile accanto alla padrona, con il naso per aria e la lingua penzoloni.

La guerriera aveva già pronta la sua lista. “Aconito, centocchio, belladonna, unguento di achillea, asfodelo in polvere e…” strizzò gli occhi per riuscire a leggere “credo che qui dica rabarbaro”.

Meli le mostrò il pollice alto e andò a recuperare tutti gli ingredienti richiesti. Tornò dopo poco con le braccia piene di pacchetti e di barattoli di rame, e appoggiò tutto sul bancone. “Ecco qua”. La guerriera le porse i soldi senza fiatare e cominciò a infilare gli acquisti nella sua bisaccia di pelle.

“Come mai da queste parti?” si informò educatamente Meli.

Reika parve sorpresa da quella domanda. “Non hai saputo? Il figlio del podestà è stato rapito ieri mattina all’alba. Una donna l’ha visto trascinare dai krampus fin dentro il Buco”.

“Stai scherzando?”.

“No. Il padre ha già mandato delle squadre a recuperarlo. Guarda qua”. Tirò fuori un foglio spiegazzato. Era un volantino con poche scritte e un disegno accettabile della faccia del ragazzo. Meli lo scorse velocemente, e strabuzzò gli occhi quando arrivò all’ultima riga. “1000 navok, vivo o morto!”.

“Per questo sono qui. Tenterò oggi insieme ad un paio di colleghi. Grazie per l’aconito e tutto il resto. Ci tornerà sicuramente utile”.

“Oh, certo, figurati” balbettò Meli. “Buona fortuna”.

Reika uscì. Meli rimase sola a fissare con occhi vacui il piccolo gruzzolo di navok che la guerriera aveva lasciato sul bancone. Si accorse di star ancora tenendo in mano il volantino con la faccia del ragazzino scomparso.

Meli appiattì il volantino sul legno del bancone e fissò quegli occhi disegnati a carboncino. Conosceva quella faccia: Theo era un ragazzetto solare e silenzioso, figlio del podestà attualmente in carica in paese. Lo aveva visto in giro spesso con suo padre. Quanti anni aveva? Dodici? Tredici? Così giovane per morire divorato dai krampus! 

Però era strano, pensò Meli. Capitava di rado che i krampus rapissero i bambini: di solito preferivano non infastidire la popolazione locale al fine di un reciproco quieto vivere. Diversamente dalle strigi, i krampus avevano un po’ di sale in zucca - per quanto brutta. E non erano stati i krampus a portare via le figlie del mugnaio, la settimana precedente: quelle erano state trovate morte, prive degli arti, lungo il fiume più a valle.

Meli rabbrividì al pensiero.

C’era da dire che i krampus non erano gli unici abitanti del Dungeon di Darren: una varietà di creature immonde viveva sotto la montagna. Era un luogo pericoloso. Era un luogo di mostri. Forse chi li aveva visti si era sbagliato.

Vengono da sotto, richiamati da qualcosa.

Meli si morsicò l’interno della guancia e si obbligò a ricordare che quello non era un suo problema. Non lo era! Eppure… vengono da sotto. E cosa c’era di più sotto di un labirinto sotterraneo incuneato sotto la montagna? E perché continuavano a sparire tutti quei maledetti bambini?

E, piano piano, tornò quella sensazione. La stessa che aveva provato quando aveva saputo delle strigi da Leo, il vampiro di Berg, e quando aveva letto il messaggio di Meimei per la prima volta. Un’eccitazione febbrile che le faceva prudere le mani, una voglia matta di mollare tutto e andare. Andare dove, fare cosa? Non era chiaro. Non riusciva a spiegarsi questa irresistibile agitazione, questo fuoco latente… era sicuramente colpa di sua madre, si disse.

E comunque 1000 navok erano tanti soldi. Meli si guardò attorno. Il suo negozio, Emporio di Erbe e Pozioni di zia Fernanda, ereditato dalla zia suddetta, pace all’anima sua, aveva visto giorni migliori. Certo, era pulito: Zeno era maniacale quando si trattava di igiene, e i barattoli pieni di occhi di manticora e zampe di gallina in salamoia erano perfettamente lucidi e trasparenti; ma gli scaffali di legno erano piegati dal peso di mille chincaglierie, le bilance erano quasi tutte rotte, e dalle finestre, aggiustate alla meno peggio con pezzi di tela, entravano sempre gli spifferi… Nonostante la piacevole rendita dell’olio dell’Abbazia, quei soldi le avrebbero fatto comodo. 

Colpita da un’idea pazza, Meli afferrò un pezzo di carta e cominciò a scrivere.

***

Logan era un tipo sufficientemente strambo da attirare l’attenzione: questo era stato appurato. Quindi lei si limitò a inviare un messaggio al suo contatto a Berg con le istruzioni di spargere la voce che Meli cercava un simil mezz’elfo con i capelli scuri, il viso truccato di nero e la fama di ammazzamostri, e che se qualcuno lo avesse trovato che per favore lo mandassero da lei, al civico 24 di Pecul, Emporio di Erbe e Pozioni di zia Fernanda.

Dopo due giorni, il campanello del suo laboratorio tintinnò. Meli allungò la testa da dietro uno scaffale e riconobbe una familiare sagoma vestita di nero.

Logan aveva la solita espressione insofferente, un’espressione che suggeriva che l’esistenza stessa del mondo gli avesse fatto un torto personale. Ma la sua aurea minacciosa era stata rovinata dal meteo infelice: la pioggia gli aveva incollato i capelli scarmigliati al viso, e il trucco nero era colato in sottili righe verticali fino al mento.

Meli emerse dagli scaffali e si appoggiò al bancone. Cercò di trattenere il sorriso, ma fallì. “Ti trovo bene” commentò. 

Logan la squadrò svogliato. “Senti chi parla, con quei capelli”.

La mano di Meli corse ai capelli stretti in due grosse trecce ai lati della testa - acconciatura tipica del distretto - che però ora erano color rosso mogano. Li aveva di recente tinti con l’henné. “Non sono così male” rimbrottò, fingendo di non essere offesa a morte.

Logan non commentò oltre. Come la prima volta che era stato lì, rimase in piedi immobile e osservò la mercanzia dell’emporio con sobrio disinteresse. Trattenendo con tutte le sue forze il desiderio di roteare gli occhi, Meli non gli diede corda, in attesa che fosse lui a rompere il silenzio.

Logan le scoccò un’occhiata strana, come indeciso se chiedere qualcosa di specifico. “Nessuna… richiesta di sangue di drago?” domandò infine.

Meli, suo malgrado, trattenne un sorriso. Aveva capito cosa intendeva. “Nessuna richiesta di sangue di drago” confermò. Logan annuì e parve un poco sollevato. 

Di umore leggermente migliore, la donna si schiarì la voce. “Ho qualcosa per te”. Meli si abbassò e tirò fuori da sotto il bancone quattro boccette tonde con una polvere fluo all’interno.

“Una nuova mistura di polvere di stramonio e polvere di fuoco” spiegò. “Lanciandole contro una superficie dura le boccette esplodono rilasciando una nuvola che si attacca ad ogni cosa, visibile o invisibile. Una bomba rivela-incantesimi”. Meli agitò una bottiglietta e le due polveri, una giallo fluo e una color cenere, vorticarono all’interno di un denso liquido trasparente. “L’idea mi è venuta dopo che abbiamo dovuto perdere un’intera notte solo per riuscire a gettare lo stramonio su quell’imp”.

Meli porse le quattro boccette all’ammazzamostri, ma lui non le prese. “Prendile” disse lei, improvvisamente in imbarazzo. “Sono un regalo”.

Logan la squadrò diffidente. “Perché?”.

“Perché ho pensato che potessero esserti utili”. Meli cominciava a pentirsi della sua spontaneità. “Se, insomma, capitasse di nuovo che…” la voce scemò. “Ma se non ti interessa, non c’è problema”. 

Dopo un breve silenzio di sincera confusione, Logan chiese: “Le hai fatte tu?”.

“Sì”.

“Per me”.

Voleva proprio che lo ammettesse ad alta voce? “...sì”.

Logan non sembrò in grado di elaborare tale informazione. Alla fine prese le boccette con un mugugno che somigliava ad un ringraziamento imbarazzato.

Dopo aver infilato le boccette nella bisaccia nascosta sotto il mantello, Logan andò al sodo. “Mi hai fatto chiamare. Hai scritto che hai un lavoro per me”.

“Esatto”.

“Sei stata insopportabilmente vaga”.

“Eppure sei qui”.

Logan strinse la mandibola, colto in fallo. Meli trattenne un sorrisetto vittorioso e gli porse il volantino che Reika aveva lasciato lì due giorni prima. “Immagino che tu abbia saputo del figlio del podestà di Pecul”.

“Ho sentito”. Lui prese il foglio e lo lesse in velocità. “Assolutamente no” fu il verdetto.

Era la risposta che Meli si aspettava. Non si perse d’animo. “Perché no? Sono parecchi soldi” tentò.

“Il ragazzino è sparito quattro giorni fa. È morto ormai. Non ha senso addentrarsi nel dungeon di Darren per recuperare un cadavere”.

“Ah. Neanche se il cadavere viene pagato a peso d’oro?”. Meli puntò l’indice sulla somma pattuita in fondo al volantino. “Vivo o morto, dice qui”.

Logan inarcò le sopracciglia. “O morto! Sono un sacco di soldi. Perché mai dovrebbe pagare quella somma per un ragazzino stecchito?”.

Meli sbuffò. “È suo figlio, Signor Empatia. Vorrà piangerlo e seppellirlo con la dignità che merita, invece di lasciarlo marcire in un buco piena di mostri”.

Logan non parve convinto, come se fosse estraneo in toto al concetto di affetto e di famiglia. 

“Allora?” lo incalzò la donna.

“Io e te, per sei livelli nel Dungeon di Darren?”. Logan fece una pausa. “Ci serviranno armi. E pozioni. E informazioni”.

Meli sorrise. “Si può fare”.

   
 
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