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Autore: mikchan    07/12/2023    1 recensioni
"Qualcosa di grosso è successo nel mondo e tu ne sei testimone"
Di tutte le storie mai inventate sulla fine dell'umanità, nessuna ha mai davvero avanzato la pretesa di essere un'ipotesi realistica. É sempre stato così, film, libri, racconti al limite di ogni immaginazione creati per intrattenere e divertire.
A pensarci adesso sembrano quasi una barzelletta.
Di certo nessuno ha mai ritenuto possibile vivere in prima persona un evento del genere. Come se si potesse sopravvivere a una catastrofe in grado di cambiare i connotati di un intero pianeta.
Ogni tanto mi chiedo se siamo stati fortunati o se invece tutto questo si rivelerà una grande, enorme maledizione.
Genere: Drammatico, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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EVOLUZIONE AL CONTRARIO

Di tutte le storie mai inventate sulla fine dell'umanità, nessuna ha mai davvero avanzato la pretesa di essere un'ipotesi realistica. É sempre stato così, film, libri, racconti al limite di ogni immaginazione creati per intrattenere e divertire.

A pensarci adesso sembrano quasi una barzelletta.

Di certo nessuno ha mai ritenuto possibile vivere in prima persona un evento del genere. Come se si potesse sopravvivere a una catastrofe in grado di cambiare i connotati di un intero pianeta.

Ogni tanto mi chiedo se siamo stati fortunati o se invece tutto questo si rivelerà una grande, enorme maledizione.

Gli scarponcini che indossavo il giorno dello schianto sono il mio tesoro più grande e da giorni mi sveglio con la sensazione di avere dei macigni sui piedi. Per quanto sia scomodo e poco igenico, diventerà presto un'abitudine.

Lo so perché è diventata un'abitudine anche riorganizzare il mio giaciglio ogni mattina, così come buttare uno sguardo veloce al calendario che qualcuno ha appeso al muro accanto alla porta. Aldo deve aver già fatto il primo giro perché una X è stata disegnata sopra il numero ventidue.

Cerco di non pensare a come sia diventata un'abitudine percorrere i corridoi di questa vecchia scuola come se fosse una casa. É un pensiero disturbante, l'idea di essermi ritrovata tra coloro che dovranno imparare a convivere con questa nuova Terra e le sue stranezze.

Un coniglio dal pelo grigio mi sorpassa in un rombo di saltelli, seguito da uno scoiattolo e poi da un gatto rossastro. Assisto alla scena a metà tra il divertito e lo sconsolato. Mi chiedo se questi animali sono nuovi arrivati, magari dei bambini, che ancora non hanno imparato le regole del rifugio. Mi chiedo che tipo di futuro spetta a loro. A tutti noi.

Il frastuono di voci, passi e oggetti spostati mi accompagna, familiare come il rumore di una famiglia pronta a riunirsi per colazione.

«Ve lo dico io! Fidatevi. Si tratta di una mutazione genetica, siamo tutti fregati».

«Ma Dottor Castelli, lei era un professore di matematica, cosa vuole saperne di mutazioni genetiche!».

Lo sbuffo del Dottor Castelli risuona attraverso l'entrata della stanza che è stata adibita a sala comune. È un luogo dove ci ritroviamo per mangiare e, come in questo caso, discutere.

La scena che mi si apre davanti è familiare. Il Dottor Luigi Castelli è seduto scomposto su una sedia troppo piccola per la sua stazza, come se si fosse già affezionato alla sua esistenza da ermellino e non avesse più percezione di quella umana. La novità del giorno sono i suoi interlocutori, due giovani che se non mi sbaglio si chiamano Paolo e Giulio.

«Ma mica sono un'idiota!».

«Non possiamo saperlo con sicurezza», insiste Giulio. «Senza tecnologia non abbiamo modo di effettuare analisi del sangue o di capire cosa è successo davvero a livello genetico. Per me è una cosa temporanea. Quando se ne andrà la polvere, torneremo normali».

Il Dottor Castelli alza gli occhi al cielo. «Non è temporanea, ve lo dico io! L'essere umano è destinato a diventare un animale, sarà un'evoluzione al contrario».

«Le ripeto, Dottore, che non ne abbiamo la certezza e che...».

Con un sospiro mi lascio alle spalle la sala comune e continuo sul mio cammino. Non è la prima volta che mi ritrovo ad ascoltare una discussione simile, ma la sensazione di disagio sulla bocca dello stomaco è sempre presente. É impossibile non chiedersi fino a che punto il Dottor Castelli abbia ragione, fino a dove arrivi la sua fantasia. E per quanto possa inventarsi ipotesi assurde, è innegabile la realtà dei fatti.

Ventidue giorni fa la Terra è stata oggetto di un enorme mutazione e non solo nell'apparenza, devastata dalla furia dell'universo. Ventidue giorni fa il cielo è diventato scuro, poi rosso e poi a nessuno è più importato del colore, troppo impegnati a scappare e a cercare rifugio da una terrificante pioggia di meteoriti. E una volta aperti gli occhi, una volta realizzato di essere vivi- di essere sopravvissuti!- tutti gli esseri umani si sono trovati mutati in animali.

Ricordo ancora il momento di stallo tra la risata tragicomica e le lacrime, come se stessi aspettando che qualcuno spegnesse la telecamera e tutto potesse tornare alla normalità. Nessuna telecamera è mai apparsa, mentre io sono rimasta. Così come tutti gli altri.

Non è facile accettare questo nuovo mondo, soprattutto senza poter dare una spiegazione scientifica o per lo meno razionale. Ma siamo senza acqua corrente, elettricità e qualsiasi comfort al quale eravamo abituati. É un miracolo se siamo vivi. Scoprire quali tipi di elementi i meteoriti si sono portati dietro non è una priorità. Non ora, per lo meno.

Spingo il portone dell'uscita e tiro un sospiro di sollievo mentre l'aria fresca del mattino mi sferza le guance. Il sole, appena sorto, è appena visibile dietro la coltre di polveri sottili che ancora viaggia nell'aria. Non danno particolare fastidio alla respirazione, ma rendono l'intero paesaggio molto più cupo di quello che sarebbe dovuto essere in una soleggiata mattinata primaverile.

La scena di fronte ai miei occhi è anch'essa ormai familiare. Il plesso scolastico che Gianna ha scelto per il suo rifugio è per metà ridotto in macerie. Solo la palestra e una parte delle aule sono sopravvissute alla devastazione e sono le aree che abbiamo occupato nel tentativo di ricostruirci una vita. Ciò che era una città ora è un ammasso di detriti, di rami spezzati e tralicci della corrente caduti, di abitazioni che oramai hanno perso qualsiasi definizione. La ricostruzione sarà una faccenda lunga, ma da qualche parte dobbiamo pur iniziare.

All'angolo della strada appaiono due figure familiari, entrambi nella loro forma animale. Mattia, un signore di mezza età dalla parlantina veloce e simpatica, trasporta sul dorso la figura inerte di un uomo. Il muso lupesco è sporco di sangue e una parte di me si chiede se abbia trovato qualcosa con cui fare colazione. L'idea di nutrirsi come animali è qualcosa che mi affascina e mi disgusta allo stesso tempo. Ho ancora sulla lingua l'impressione del piccolo topo di campagna che ho provato a cacciare qualche giorno fa. Non è stata un'esperienza del tutto negativa, almeno per la parte felina del mio cervello -esiste una parte solo felina? C'è stata una mutazione anche a livello celebrale e diventeremo davvero più animali che esseri umani?- ma di certo preferisco il caro e vecchio cibo cotto.

Mattia mi fa un cenno e, dietro di lui, Marta lo imita. É solo una ragazzina di sedici anni, ma nella sua forma da lince è diventata essenziale nel gruppo dedicato alla ricerca dei superstiti.

Non mi fermo a parlare con loro, nemmeno per chiedere se hanno notizie positive. La risposta è ovvia e in ogni caso Gianna ci parlerà dei risultati di ognuno questa sera.

La mattinata è silenziosa e calma. Riporto alla memoria le tappe del compito che mi spetta oggi: proseguire verso est, lungo quella che era stata una strada provinciale, fino alla cittadina vicina e fare un giro di perlustrazione. Nella mia forma umana sono lenta e goffa, mentre in quella felina sono troppo piccola per trasportare pesi o muovere massi. Così sono stata assegnata agli esploratori, che hanno l'obiettivo di riportare a Gianna le informazioni necessarie per decidere se mandare dei gruppi di soccorso o di approvvigionamento.

Raggiungo il limitare della città e mi fermo all'ombra di un muro. Prima o poi mi abituerò all'idea di poter cambiare aspetto, ma per ora non riesco ancora a farlo di fronte agli altri. Alcuni dei più avventurosi hanno già buttato alle spalle qualsiasi tipo di pudore, per me è impensabile. Ma è necessario, perché -oltre il danno la beffa- in questa nuova e non richiesta abilità non è inclusa la trasformazione dei vestiti. Mi concentro sulle azioni ormai familiari di raccogliere i miei indumenti e li nascondo in un anfratto tra le rocce.

Poi, con un semplice respiro, percepisco il mio corpo mutare e la mia prospettiva visiva abbassarsi fino a terra.

Nella mia versione felina i miei sensi si acuiscono. Le orecchie si muovono al minimo suono e con l’olfatto posso percepire gli odori più sottili. Sono abilità comode, nell'ottica di una ricerca di informazioni. Con questo obiettivo ben chiaro in mente, inizio a muovermi.

Da essere umano non sono mai stata un'amante della corsa, ma da animale è uno dei pochi gesti che mi ha portato momenti di felicità in queste settimane piene di incertezza e paura. É un'azione istintiva. Esiste solo il movimento dei muscoli, il vento contro il pelo corto, il terreno irregolare sotto le zampe sensibili e forti.

Presto il paesaggio intorno a me diventa un miscuglio sfocato. Verde, grigio, nero, marrone. Conoscevo questi luoghi anche prima della catastrofe ed è facile immaginare di percorrere questa strada come se nulla fosse successo, se non mi concentro sui dettagli. I colori sono gli stessi di sempre, tipici della zona pre montana che, solo qualche settimana fa, costituiva la periferia tra le grandi città lombarde di Milano e Lecco. Ora questi nomi hanno perso significato, ma il ricordo rimane.

É difficile, in forma felina, quantificare il tempo che impiego a percorrere i chilometri che separano la città in cui si è rifugiata Gianna con quella vicina. Il sole si è alzato nel cielo, la sua luce appena percepibile attraverso il muro di polveri che mi circonda. Ma è pur sempre un indicatore fedele della durata delle giornate. Un qualcosa di conosciuto in questo mondo così diverso.

La scena che si dipinge nel momento in cui incontro le prime abitazioni è familiare in maniera inquietante. Un'altra cittadina piena di vita è diventata un villaggio di fantasmi. Dal disordine generale risulta chiaro che nessun umano si è stanziato qui, o che per lo meno nessuno si è ancora messo all'opera per ricreare una parvenza di umanità.

Il terreno scricchiola sotto le mie zampe e mi lascio trasportare dai miei sensi.

Cerco di evitare l'ormai familiare odore dei corpi in fase di decomposizione, lasciati a morire nel punto in cui hanno trovato la loro fine. Nella nostra città Gianna si è preoccupata di raccogliere i cadaveri e seppellirli in una fossa comune nei primi giorni dopo lo schianto e, ora come non mai, sono grata della sua lungimiranza.

Non mi aspetto di trovare molto in questa città desolata. É chiaro che non ci sia nessuno di vivo e, per quanto non mi piaccia ammetterlo, i morti non sono la mia priorità.

Prima di mezzogiorno compio un giro completo di tutte le strade. La mia forma felina è abbastanza piccola e agile da superare massi e alberi e mi permette di arrivare ovunque. Scopro così due supermercati, un negozio di indumenti e uno di ferramenta che sono in parte sopravvissuti. É un buon bottino, tutto sommato. Sono certa che Gianna manderà già domani una squadra per recuperare il più possibile.

Non ho indicazioni sul continuare verso la prossima città, così decido di tornare indietro. La colazione saltata si sta facendo sentire e se posso evitare di cacciare, allora tanto meglio.

Me la prendo comoda. All'andata ho corso, ma ora decido di camminare a passo svelto e di lasciare vagare l'attenzione sul paesaggio intorno a me. Non che ci sia molto di interessante da guardare, ma senza il fruscio del vento nelle orecchie e il rimbombo dei passi sull'asfalto colgo un rumore inaspettato.

Mi fermo in mezzo alla strada e mi guardo intorno. Su entrambi i lati ci sono i rimasugli di grossi edifici che si sono afflosciati a terra senza lasciare altro ricordo della loro forma originaria. Ma sulla destra, nascosta dietro un paio di alberi spezzati, si intravede la forma quadrata di una finestra.

Il rumore di poco prima si ripete. É un borbottio sottile, ma si fa sempre più preciso mano a mano che mi avvicino. Diventa facile riconoscere delle voci e affretto il passo. L'idea di aver quasi lasciato delle persone in questo luogo desolato mi fa venire i brividi.

Non impiego molto a raggiungere le voci. Il buco nella parete trasporta un singhiozzo e una voce più rassicurante, non abbastanza profonde da appartenere a degli adulti. Con un balzo mi isso sul davanzale e mi guardo intorno. La stanza in cui mi ritrovo si è salvata solo in parte, quel che basta per funzionare come riparo dalle intemperie. C'è un fuoco acceso in un angolo e, abbracciati di fronte ad esso, due bambini.

Per una attimo non riesco a muovermi, non di fronte alle loro figure sporche, alle due paia di occhi scuri che mi guardano a metà tra lo speranzoso e lo spaventato. Sono solo un gatto, al momento, eppure non riesco a non pensare all'enorme ingiustizia di tutta questa situazione. Non che ci sia qualcuno da poter incolpare, d'altronde. Sarebbe tutto più facile.

Con un altro salto entro nella stanza e decido di ignorare il mio pudore. Poter conversare in questo momento è più importante di qualsiasi costrutto sociale che mi porta a provare vergogna del mio corpo nudo. La mutazione in umana è veloce tanto quanto quella in felino e mi inginocchio subito a terra per cercare un contatto visivo.

«Ehi. Ciao». Alzo le mani per mostrare di non essere un pericolo. «Tutto bene?». Che domanda idiota. «Siete feriti?».

Il più piccolo ha le guance rigate di lacrime, mentre la ragazzina ha un'espressione accigliata. Si sposta di fronte al bambino e mi si stringe il cuore al pensiero che qualcuno possa aver paura di me.

«Non voglio farvi del male». Cerco di trovare il modo migliore per parlare senza spaventarli. «Siete da soli?»

Dopo qualche secondo la ragazzina annuisce e io sorrido.

«Io mi chiamo Neve. Come avete visto prima mi posso trasformare in un gatto. E voi?».

«Io sono un pettirosso». La voce del bambino arriva per prima e, di nuovo, sorrido. Incurante del pavimento sporco, mi siedo a qualche passo da loro.

«E come ti chiami?».

«Luca».

«Ciao Luca. Sai che conosco un Luca anche io? É un pastore tedesco nel mio rifugio».

Gli occhi del bambino si riempiono di meraviglia. «Un cane? Posso accarezzarlo?».

«É un po' scorbutico, ma se glielo chiedi sono certa che si farà accarezzare. Sa giocare molto bene a calcio», gli rivelo. Definire Luca, il braccio destro di Gianna, un po' scorbutico è probabilmente riduttivo, ma il diretto interessato non è qui ad ascoltarmi e mi interessa di più portare questi due sopravvissuti al sicuro.

«Io mi chiamo Giada. Sono una volpe». La ragazzina di fronte a me deve avere non più di undici, dodici anni, ma ha già lo sguardo di una combattente.

Faccio un cenno di assenso e mi decido a porre una domanda difficile. «I vostri genitori? O amici?».

Giada scuote la testa e Luca si lascia scappare un altro singhiozzo. Si stringe al braccio della giovane con la disperazione di chi ha perso tutto e non vuole perdere più niente.

«Anche io non ho più la mia famiglia», rivelo. Una condizione ormai comune a molti, mi ripeto. Non serve ad attutire il dolore che mi invade per qualche secondo al ricordo dei corpi senza vita di mia madre e di mio fratello.

Ma io sono qui. E questo non è il momento di farsi prendere dalla disperazione. «Ma ne ho trovata una nuova. Ci sono tante persone e ci aiutiamo a vicenda. Ci sono anche altri bambini, come voi. E abbiamo cibo, coperte e vestiti puliti. Volete venire con me?».

Ed è così che, al calare del sole, mi ritrovo alle porte del rifugio di Gianna con appresso due nuove aggiunte. Non ho dubbi che verranno accettati, così come abbiamo accolto decine di persone nei giorni passati.

Mi basta uno sguardo verso il tetto della palestra per riconoscere la figura appollaiata di un'aquila reale. Gianna. Stringo le mani dei bambini tra le mie e le faccio un cenno di saluto, certa di essere riconosciuta.

Noto subito che durante la giornata sono stati rimossi alcuni grossi massi ed è stata liberata una porzione del cortile. Riconosco tra gli adulti Benedetta, la mia vicina di giaciglio e una delle persone responsabili del gruppo dei più giovani. Le risate dei bambini sono un balsamo dopo una giornata passata ad ascoltare il silenzio della morte.

«Benny. Ciao».

«Neve. Hai acquisito un nuovo seguito?».

«Li ho trovati oggi», mi apro in un sorriso divertito. «Spero tu sia pronta a due nuove reclute».

Benedetta ride a sua volta e si inginocchia di fronte a me. Con la dolcezza che caratterizza tutte le sue interazioni con i bambini, allunga le mani verso Luca e Giada, che esitano qualche momento prima di stringerle.

«Benvenuti».

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Ritorno su questo account per postare una storia con la quale ho partecipato a un contest indetto su un server di Discord nel quale bazzico di recente.

Il tema doveva essere “qualcosa di grosso è successo nel mondo e ne sei testimone” e questa è stata la mia versione dei fatti. Sono molto soddisfatta di questa storia, soprattutto perché sto iniziando a sperimentare e ad uscire dalla mia comfort zone (ad esempio con la prima persona presente, mai utilizzata in una mia storia!). Sono aperta a qualsiasi critica costruttiva o consiglio che possa venirvi in mente. 

  
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