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Autore: Andy Black    10/12/2023    0 recensioni
Lo sapeva, Ciro, che le persone più determinate a ottenere giustizia potessero finire per confonderla con la vendetta.
Giustizia e vendetta.
Le aveva sempre viste arrivare assieme, l’una sotto al braccio dell’altra, così simili e così diverse, vestite entrambe di verità e con lo stesso fuoco negli occhi.
Ma la vendetta aveva le mani sporche di sangue.
Ciro non riusciva a separare quelle due sorelle in nessun modo: ogni volta che cercava la prima, la seconda le si univa di corsa dietro, la sorpassava e le si parava davanti, come una primadonna gelosa e più determinata, diventando ai suoi occhi la più appetibile e sensuale.
Lui era sempre stato affascinato da certi aspetti. Forse un po’ involontariamente, senza farlo apposta, credeva che fosse giusto levare a qualcuno qualcosa, se lui ne avesse più bisogno.
Una sorta di Robin Hood, volendo, con un’etica tutta sua.
Sbuffò.
Quant’era diverso, da suo padre.
- Dimentica il bene che fai e ricorda quando ferisci qualcuno. È così che un uomo diventa uomo.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
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Le scelte giuste
Degli altri. Le scelte giuste degli altri.
 


 
Un brano di Christian Marcucci


 
Ciro era nato una notte di marzo, durante una delle più grandi tempeste che avrebbero investito Napoli da lì a trent’anni. Sarebbe stata superata soltanto dal grande acquazzone dell’aprile del duemiladiciannove, in cui suo padre dovette comprare una pompa per svuotare il garage dall’acqua che era passata sotto l’uscio della porta della cantina.
Novanta millimetri di pioggia caduta dal cielo, dicevano ai telegiornali. Quaranta ore di tempesta.
Fu per sua madre l’opportunità di liberare quel posto da tutti gli scatoloni ammuffiti di cose che avevano conservato e stipato senza un reale motivo, pieni di ricordi d’infanzia e una quantità insensata di vestiti e scarpe che chiunque vivesse in quella casa sapeva che non avrebbe più indossato. Così, una volta uscito il sole, chiamarono uno svuotacantine e si riappropriarono di quello spazio che credevano perso. E poi suo padre portò le mani ai fianchi, con quella flemma che lo aveva sempre contraddistinto, e aveva sospirato.
- Facciamola diventare una tavernetta.
Ciro aveva annuito, perché adorava passare del tempo con lui. Lo vedeva muoversi in quegli spazi che gli sembravano nuovi e inesplorati, con gli occhi di un bambino felice, immaginando un cucinino nell’angolo sotto al finestrone e poi dei sanitari nuovi per il bagnetto di servizio, che magari avrebbero allargato. L’idea gli piaceva.
- Sì, dai. Diamo una mano di bianco alle pareti e poi le rivestiamo con una bella boiserie. Ci guardiamo le partite dell’Inter e ci ritagliamo un posto solo per me e per te. Che te ne pare?
E lui, che non sapeva cosa fosse una boiserie, la cercò subito su Google. E poi, certo, si chiese per quale motivo suo padre avesse dovuto chiamare in quel modo una parete di legno, ma tant’era, Gaetano era più sofisticato di lui, amava la buona cucina e il vino costoso, i profumi dell’infanzia nel Cilento e le cose genuine.
Riusciva sempre a trasformare ogni spunto in qualcosa di buon gusto.
Qualcosa d’educato.
E Ciro era cresciuto cercando di seguire i suoi esempi ma anche le orme da seguire dovevano essere studiate e comprese e, alla fine, aveva accettato di buon grado il fatto che i piedi di suo padre lasciassero passi più educati, tra le sabbie della vita.
I piedi di Ciro erano più grandi e maldestri.
 
Erano i piedi di un soldato.
Centottantaseiesimo reggimento paracadutisti. La Folgore.
 
Quasi otto anni prima aveva cominciato a lanciarsi da un aeroplano, in tenuta mimetica, atterrando tra le macerie della guerriglia urbana e le sabbie del deserto, e aveva collezionato già diverse medaglie per i servizi prestati come membro militare in più di una campagna di peacekeeping, visitando luoghi come Cisgiordania, Afghanistan, Iraq e Kosovo.
Era proprio a Pristina che le suole dei suoi Patton avevano lasciato più volte le orme nella polvere, anche se ogni partenza in direzione dei Balcani gli era suonata come una sentenza, poiché il Kosovo era da più di vent’anni il palcoscenico principale di disordini. Ma tant’era, i figli dell’ex Jugoslavia erano costantemente arrabbiati l’uno con l’altro.
La missione era finita due giorni prima e quella sera di giugno era cominciato il suo periodo di licenza. Era salito sull’aereo civile che lo avrebbe riportato a Napoli poco prima delle ventidue, aveva sentito i portelloni chiudersi e si era seduto al suo posto, in quarta fila, vicino all’ingresso, a sinistra. Aveva poggiato la testa sul finestrino, con le cuffie nelle orecchie e una playlist a caso a tenere attivo il cervello, perché non riusciva a prender sonno in mezzo a tutti quegli sconosciuti.
Sarebbero partiti di lì a poco.
Pensò a quanto fosse cambiato da quando aveva accettato per la prima volta una missione. Era un ragazzo che voleva distruggere il mondo, inesperto e fresco di scuola d’addestramento; ricordava l’ansia che provava, l’eccitazione mentre indossava il paracadute, la dedizione che metteva in ogni gesto.
Il timore durante gli scontri.
Dieci anni dopo c’era più consapevolezza, e quando fu convocato dal comandante di reggimento che gli aveva imposto la partecipazione a quella missione in Kosovo, la terza della sua carriera militare, si limitò a sussurrare un sissignore tra i denti, avendo inteso che quello non avrebbe accettato rifiuti. Se non altro, avrebbe staccato con le dinamiche di casa per un po’ e sarebbe ritornato con una cospicua somma di denaro, oltre a qualche mese in più di licenza.
Aveva provato ad allungare le gambe ma i posti di quell’Airbus di EasyJet erano stretti e accalcati, e lui era alto, e spingeva con le ginocchia sullo schienale del sediolino davanti, dove una neonata piangeva tutte le lacrime che aveva.
La madre la cullava e ripeteva compulsivamente nonononono Martina Nicole, come se avesse potuto in qualche modo invertire l’uscita dei primi dentini da quelle gengive arrossate. Si era voltata, scusandosi più volte, e Ciro aveva annuito con una smorfia di disappunto sul volto che era riuscito abilmente a travestire da comprensione, nonostante fosse rammaricato con sé stesso di aver scelto personalmente proprio l’ultimo volo della giornata disponibile per Napoli, per trovare meno folla in aeroporto e meno traffico per strada.
Ma fu la scelta sbagliata.
 
Che poi, parlando di scelte, Ciro le sbagliava spesso.
 
Ognuna comportava delle conseguenze e col tempo e la maturità aveva imparato a farci i conti. Molte delle cicatrici che portava fiero sulla pelle erano il risultato di valutazioni sbagliate, tempismi pessimi e un’insana indecisione di base, figlia dell’insicurezza che le cose importanti portavano sempre, come pesanti strascichi.
Accarezzò con lo sguardo il riflesso del suo volto stanco attraverso i doppi vetri dell’oblò, poi sbuffò, che la piccola Martina Nicole urlava ancora, posseduta da un demone sadico e annoiato.
Si sentiva troppo stanco, nonostante avesse deciso di passare una giornata di decompressione in base, a Livorno, dove aveva compilato tutte le lungaggini burocratiche che gli spettavano al ritorno. Poi aveva indossato nuovamente i panni da civile e aveva salutato gli altri, recandosi all’aeroporto, dove aveva indugiato per qualche secondo di troppo su di un paio di hostess che raggiungevano un aereo che avrebbe fatto scalo a Milano, poi a Parigi e si sarebbe fermato a Dublino.  Pensò di subire il fascino della divisa, giacché non riusciva a smettere di guardare quella coppia di bionde dal blazer blu e dalle lunghe gambe avvolte nei collant.
Aveva quasi dimenticato che aspetto avesse una bella donna, Ciro, che in quei sei mesi le uniche a gravitargli attorno avevano spesso bicipiti gonfi e capelli oliati e legati, in code di cavallo ordinate e basse.
Tutte soldatesse, tranne che al suo compleanno, quando alcuni commilitoni gli avevano teso un agguato, lo avevano incappucciato, spogliato e legato alla testiera di un letto cigolante, per poi lasciarlo tra i lunghi artigli fucsia di Radoslava, la puttana che avevano giurato essere la più pulita ed educata di tutto il salone massaggi frequentato dal tenente colonnello Masucci.
E ci ripensò, giusto per un attimo, prima che gli si avvicinasse un’altra stupenda assistente di volo, dagli occhi blu come il mare e dalla pelle diafana. Lo aveva guardato per un secondo, prima di sorridergli e chiedergli qualcosa, che di primo acchito Ciro non era riuscito a capire.
- Come? – aveva chiesto, levando la cuffia dall’orecchio destro.
- La cintura. – gli aveva sorriso quella, con un marcato accento friulano. – La cintura. Ha chiuso la cintura?
Lui abbassò la testa e controllò, anche se l’aveva assicurata quasi dieci minuti prima.
- Sì. Sì, è chiusa.
- Buon viaggio.
E la vide sculettare oltre, muovendo passi sinuosi verso la coda dell’aereo.
Si richiuse nel suo scrigno mentale e fissò la sua vicina di posto, una donna di mezz’età dal caschetto biondo, ma con una prepotente ricrescita, che qualche minuto prima aveva provato a rivolgergli due parole. Ciro era stato cortese nel farle capire che non era interessato a stringere nuove amicizie e quella aveva stretto la sua Prima Classe tra le mani, guardando altrove.
E anche in quel momento, con la piccola Martina Nicole che piangeva e sua madre che continuava a cullarla, cantando una lenta nenia che aveva finito soltanto per far addormentare la sua vicina di sediolino, avrebbe potuto scegliere di continuare a guardare l’hostess, magari seguendo per la prima vera volta le istruzioni in caso di un improbabilissimo ammaraggio.
Invece no.
Invece Ciro scelse di prendere tra le mani il suo telefono e di accedere annoiato a Instagram.
Poi scelse di guardare le stories dei suoi amici, tra cui un video di Jean con gli occhi spalancati che cantava La canzone del sole e il meme giornaliero che aveva postato Vincenzo, che dopotutto non aveva capito, ma a cui metteva sempre un like. Avrebbe potuto spegnere il cellulare, per esempio, che in fase di volo avrebbe interferito con le attrezzature del pilota. Magari avrebbe potuto scegliere di gettarlo e cominciare una nuova vita, in cui la tecnologia sarebbe stata solo un lontano ricordo.
Invidiava quelli che riuscivano a non leggere le notifiche.
 
Invece Ciro no.
Ciro scelse di continuare, di proseguire a scorrere il carosello delle storie.
 
E subito dopo la storia di Vincenzo, subito dopo quelle di un paio di ragazze che avrebbe assaggiato volentieri, subito dopo quelle di Cronache di Spogliatoio e quella di sua sorella Lucia, gli apparvero quelle di Carlo Persico, il figlio del dirimpettaio dei suoi genitori, che viveva nel parco dove Ciro era cresciuto. Avevano passato l’infanzia e buona parte della prima adolescenza a giocare a calcio con gli altri ragazzi, a fare le corse in bicicletta e a passarsi col bluetooth i primi video porno, smerciandoli come spacciatori esperti, guardandosi bene dagli sguardi indiscreti delle signore che passeggiavano lungo i viali del parco coi loro cani al guinzaglio e da Aminto, il vecchio portinaio dal nome strano.
Avevano cominciato a perdersi di vista alla fine delle scuole medie, per poi limitarsi a un saluto breve e sterile quando s’incrociavano nei vialetti stretti di pietra bianca del parco. Parlottavano, scimmiottando quello che avrebbe dovuto essere falso interesse ma che in realtà era soltanto imbarazzo e inconveniente.
Ebbene, Carlo Persico aveva postato dieci stories, su Instagram, in quelle ventiquattr’ore.
E non era mai solo.
Ciro non lo sapeva ma aveva appena scelto la cosa sbagliata, perché la prima delle fotografie che quello aveva postato era un selfie, in aeroporto, accanto a una donna di spalle che non avrebbe mai potuto confondere con nessun’altra. I suoi occhi si spalancarono, un po’ per la sorpresa di aver riconosciuto la ragazza con cui Carlo si accompagnasse, un po’ per cercare conferma in uno dei mille particolari che ricordava di lei.
E anche lì, Ciro avrebbe potuto decidere di fermarsi, di tenersi i dubbi, che per alcuni equivaleva a evitare una sentenza e per altri a convivere con un malessere scevro da qualsiasi lenitivo. Ma lui era un tipo da strappo netto, e nella storia successiva poté vedere meglio la figura seduta accanto a Carlo, per quella che doveva essere la foto sui sediolini di un aereo che li avrebbe dovuti portare nell’isola di Santorini. Guardò i capelli rossi della donna, corti e lisci, acconciati in un carré spettinato ed elegante, nonostante la piccola frangetta spettinata le coprisse lo sguardo.
Inquadrature, angoli. Prospettive.
Gli occhi dell’uomo si concentrarono però sul tatuaggio che portava sul polso, a raffigurare il simbolo dell’infinito. E fu quasi un invito a proseguire verso la storia successiva.
 
Col senno di poi, anche quella fu una scelta sbagliata.
 
Perché Ciro sapeva a chi appartenesse quell’otto rovesciato, visto che aveva regalato ad Alice, la sua ex fidanzata, un tatuaggio con lo stesso simbolo circa un anno prima.
Il cuore del ragazzo prese a battere furente, e Martina Nicole ne sembrava quasi infastidita, giacché cominciò a urlare con ancor più vigore. Gli occhi scuri del soldato seguirono rapidi lo schermo del cellulare fino alla storia successiva, dove Carlo fissava col volto granitico l’obiettivo della fotocamera. I capelli, ricci e scuri, erano scompigliati dai venti caldi su quella spiaggia semideserta. La camicia bianca era stata lasciata sbottonata, a mostrare l’addome tonico, e la mano che li accarezzava era proprio quella di Alice.
Il tramonto colorava di luce dorata lo sguardo della donna, che fissava incantata il volto dell’uomo che aveva accanto. Il suo pareo bianco svolazzava sotto la sferza dello scirocco ma le rimaneva aggrappato ai fianchi scottati dai primi soli di quell’anticipo d’estate.
 
C’erano altre sette fotografie da guardare ma sapeva che, probabilmente, avrebbe finito soltanto per perdere la pazienza, sfogando la rabbia contro la madre di Martina Nicole. Pertanto fece la prima scelta giusta della giornata, chiuse il cellulare e cercò di rimuovere l’immagine residua degli occhi di Alice dalla sua memoria.
   
 
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