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Autore: THROUGH_EMPTY_QUARTERS    27/12/2023    0 recensioni
[Un Professore]
Simone non lo guardava più. Osservavano entrambi, silenziosamente, le piastrelle quadrate sotto di loro. La punta del piede contro quello di Manuel era l’unico segnale che fosse ancora lì. Che non fossero lontani chilometri.
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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DISCLAIMER: ho iniziato a scrivere questa storia dopo aver guardato gli episodi 9 e 10 (quindi è una sorta di continuazione) e prima di finirla ho guardato anche gli ultimi due, pensando di rimanere un po’ sulla stessa linea. Fatto sta che il caro Alessandro, regista della seconda stagione, ha deciso di darci altre delusioni e sofferenze quindi alla fine ho fatto di testa mia, ciao e arrivederci. Spero che vi piaccia!


Avrebbe dovuto capire che qualcosa non andava nel momento in cui non era riuscito a tenere giù nemmeno il caffè, quella mattina alle 10:04. Ma il dubbio che non fosse una semplice gastrite e che fosse invece la tensione che lo aveva tenuto sveglio gran parte della notte, lo aveva cacciato giù assieme ad un’aspirina effervescente.

 

Negare usque ad mortem.

Negare fino alla morte. Il professor Lombardi lo aveva rimbeccato con questo proverbio fai-da-te, dopo l’ennesimo commento spavaldo del ragazzo, insofferente all’ulteriore collasso di voti perché, a detta sua, “recupero tutto a fine anno, Prof, non si preoccupi. Sto diventando bravo n’latino”.

 

Negare cosa poi, capita di essere nervosi prima di un viaggio del genere. Soprattutto se il viaggio in questione non ha niente di legale. Ma tanto, Manuel non si era mai curato delle legalità o meno delle situazioni in cui puntualmente finiva, quindi.

Quando lo sfrigolìo della pastiglia terminò aveva già perso il filo dei suoi pensieri, e le preoccupazioni erano scivolate giù assieme all’acqua salaticcia e frizzante. Stava cercando sul telefono corsi singoli di filosofia a Parigi che avrebbe potuto seguire nel periodo di assenza. Trovò Philosophie et d'Histoire des Institutions Européennes, però era in francese, e chi cazzo lo sapeva parlare il francese?

 

“Magari, posso chiede’ gli appunti a Simone”

“Cosa?” Nina era appena uscita dal doccia, a giudicare dai capelli umidi e le spalle della maglietta bagnate. Lilli era aggrappata a lei e stava giocando con i suoi capelli corti, nel vano tentativo di farle una piccola treccia.

“Niente, stavo a parla’ da solo”

“Vabbè. Porti solo quello?” Nina indicò la borsa di vestiti ai piedi di Manuel.

“Sì, che altro vuoi che me serva?”

“Andiamo da mia cugina, non ad un hotel di lusso. Ti sarai portato altre cose, no? Che ne so, lo shampoo, per esempio”

“Eh vabbè, uso il tuo”

“Col cazzo” Lilli ridacchiò. “Sai quanto costa questo? E poi è sbiancante”

“A Nì, non te preoccupa’. Qualcosa trovo. Ci sarà un supermercato lì da tua cugina, immagino, oppure vive in un bunker?”

“Deficiente” Nina diede un ultimo sguardo generale alla casa di sua zia, per assicurarsi di non essersi dimenticata niente. “Andiamo”
 

Il tragitto fino alla stazione lo fecero in taxi. Manuel aveva lasciato la moto a casa Balestra, a disposizione di Anita. Sapeva che Nicola le aveva proposto di portarla a lavoro ogni mattina e venirla poi a prendere quando staccava, ma il sangue Ferro prevedeva un’esagerata dose di orgoglio e perciò aveva rifiutato, senza dargli modo di insistere.

In quei quindici minuti di strada Nina aveva ripassato a bassa voce il piano, richiamando l’attenzione di Manuel due volte. “Mi ascolti? Non voglio ripetere le cose di nuovo”

Manuel pagò il tassista in contanti per impedire alla polizia di rintracciarli tramite i movimenti bancari visibili dalla carta. In cuor suo sapeva che li avrebbero inevitabilmente trovati, prima o poi. Ma fino a quel momento, avrebbe fatto di tutto per non mettere Nina nella situazione di dover salutare definitivamente sua figlia.

“Manuel, ti vuoi muovere? La corriera parte fra due minuti”

“Sì, aspetta n’momento che devo fa’ na chiamata”

“Non puoi farla dopo?”

“No, un momento solo. Non parte senza de noi, non te preoccupa’”. Si allontanò di pochi passi dalla fermata dove la corriera era parcheggiata, prima ancora di sentire la risposta irritata di Nina.

 

Oh tuo padre m’ha detto cosa è successo ieri, mi dispiace 22:07
Ti chiamo così mi racconti 22:07

Vabbè mi chiami tu quando puoi 22:10

Comunque me stanno a salì un po’ de dubbi per sta cosa co’ Nina, dici che sto a fa’ una cazzata? 00:15

Simo, me rispondi? 00:28

Simo 01:03

 

I messaggi che aveva mandato a Simone il giorno prima erano rimasti senza risposta, le spunte blu sembravano dirgli “non gliene frega niente, accanna”. Aveva passato la notte a pensare che quell’indifferenza fosse solo il bagaglio di merda che aveva rifilato a Simone per mesi, ora restituito con un bel fiocco rosso e un cartellino con su scritto “vaffanculo Manuel, tuo Simo”. Prima per Nina, poi per suo padre: aveva fatto sentire il suo migliore amico (l’appellativo gli suona strano in bocca) come un messaggio letto e poi ignorato. Un vocale ascoltato a velocità x2 per non sprecare tempo e a cui non era stata degnata nemmeno mezza risposta. Quindi non lo biasimava, Simone. Provò a chiamarlo un’ultima volta, ignorando la pressione sul torace che si stava facendo sempre più insistente. Al settimo squillo riattaccò, chiedendosi se fosse stato saggio prendere un’aspirina a stomaco vuoto, perché in quel momento sentiva che avrebbe vomitato succhi gastrici da lì a qualche minuto. Magari era una gastrite per davvero.

 

Negare usque ad- ma statte zitto.

 

Nina stava guardando Lilli con tenerezza, disegnando un delizioso quadretto famigliare (delizioso soltanto se si decideva deliberatamente di ignorare il sequestro di minore e i numerosi reati che si erano susseguiti in quelle ore). Un quadretto in cui Manuel aveva provato ad entrare con qualche contorsione e acrobazia, finendo poi per cadere giù dalla cornice e sfracellarsi a terra.

 

“Sei pronto?”

“Secondo me stamo a fa’ na cazzata”. Congratulazioni per la tempestività di questa conclusione, Manuel. Per qualche motivo, i suoi pensieri erano scanditi dalla voce di Simone. Chissà, magari la prossima volta te ne accorgi prima di mandare a puttane la vita tua e quella degli altri.

Nina lo fulminò con lo sguardo, raddrizzando un po’ la schiena. “Che stai a dire? Sei stato tu ad insistere per partire con noi”

Manuel si mise a studiare i lacci sgualciti delle proprie scarpe, cercando di mantenere un tono disinvolto. “È che stiamo correndo un po’ troppo. Parigi non è esattamente dietro l’angolo”

“E me lo vieni a dire ora?”. Nina aspettò una risposta che sapeva benissimo non sarebbe arrivata. “Senti, io non posso stare qui con lei, non è sicuro”. Lilli guardava curiosa la madre mentre questa premeva l’indice sul petto di Manuel con rabbia. “E io te l’ho già detto, se devo scegliere fra te e lei, scelgo lei. Fino alla morte”

Manuel non aveva il coraggio di guardarla in faccia, le mani in tasca cominciavano a formicolargli.

“Quindi?”

Manuel sentiva il rumore del sangue nelle orecchie, l’odore acre del gas di scarico gli stava riempendo i polmoni. “Me dispiace, Nì, ma non ce la faccio”
Il tono sommesso della sua voce fu quasi coperto dal motore della corriera, in proncinto di partire. Nina lo guardò con occhi stanchi, stringendo a se la figlia un po’ di più. Non sembrava arrabbiata, dopotutto, ma delusa. Rassegnata all’idea di aver scelto, per la seconda volta, l’uomo sbagliato.

“Addio, Manuel”

Quando ebbe la forza di alzare lo sguardo verso il fianco verde della corriera ormai in movimento, vide dal finestrino la testa di capelli biondo ossigenato farsi via via meno definita, fino a sparire del tutto dopo la curva.
La leggerezza improvvisa che si stava facendo spazio nel suo corpo aveva un sapore sbagliato. Il sollievo che aveva pregato di sentire era stato scavalcato da un’alienante sensazione di vuoto. Il vuoto di chi ingurgita con ingordigia tutto ciò che vuole, solo per rimanere poi con un insopportabile senso di insazietà. Il vuoto dato da qualcuno che non lo aveva scelto, non lo aveva messo al primo posto. Per quanto non lo avrebbe mai ammesso a voce alta, era rimasto ferito dalla velocità con cui Nina se n’era andata: senza protestare e senza lottare per averlo al suo fianco. Non sapeva se fosse nato egoista, ma sapeva che sarebbe morto tale.

 

Era ancora in piedi sull’orlo del marciapiede, quando si rese conto di non avere la minima idea di come tornare a casa. Anche il solo pensiero di cercare un taxi o addirittura camminare gli faceva venire i capogiri. Con la testa leggera e le gambe di piombo raggiunse la panchina dietro di lui, ringraziando, per la prima volta, le mancanze del trasporto pubblico di Roma. Per quanto gli autobus di linea fossero più o meno frequenti, le corriere per andare fuori città passavano all’incirca ogni due ore e mai alla domenica, costringendo la gente ad arrangiarsi in altri modi. Per lo meno, il fatto di essere l’unica anima viva in quella minuscola stazione gli concesse di poggiarsi di peso con il torace sulle cosce, senza dare troppo spettacolo. Un fagotto di vestiti sull’orlo dell’iperventilazione. Sbagliò due volte la combinazione per sbloccare il telefono prima di cliccare il tasto verde affianco a “Mamma”.

Il tono inizialmente confuso di Anita aveva fatto in tempo ad indurirsi (dov’è che sei? ma sei scemo?) e ad ammorbidirsi in pochi secondi. Manuel si aggrappò alla voce cauta della madre che gli chiedeva di calmarsi, “respira amore, piano piano. In pochi minuti sono lì”.
Il nodo che il corpo di Manuel era diventato si sciolse un poco quando Anita lo trovò sulla panchina, ancora accucciato. Lo strinse maledicendolo per la sua incoscienza, con voce stanca. Non ci provava nemmeno a fingere di essere arrabbiata.

_

La fronte schiacciata contro il finestrino dell’auto vibrava a ritmo del motore. I cartelli, gli alberi e le altre macchine scorrevano veloci dalla sua visione periferica. L’arbre magique dondolante emanava un forte e nauseabondo odore di pino.

“Ma ’sta macchina?”

“Me l’ha prestata Nicola. Avrebbe dovuto essere la macchina di Viola”

“Gli hai detto di me e Nina?”

“No, Manuel. Certo che non gliel’ho detto, ci mancherebbe solo che ci mandi la polizia sotto casa”

Anita strinse le labbra. “Me vuoi dire cosa volevate fare co’ la bambina?”

“Te l’ho detto, volevamo stare un po’ appartati finché le acque non si calmavano”

“Alla faccia dell’appartati, a Parigi volevi andare. Ma dimmi un po’, secondo te gli assistenti sociali e i genitori affidatari di Lilli non vi venivano a cercare?”

“Sì, però tu non di’ niente che se scoprono dove sta andando Nina succede n’macello”

Anita fece un respiro profondo, chiamando a sé tutta la pazienza che aveva in corpo. Uno, due, tre, quattro. “Di questo ne riparleremo dopo, ma tu. Tu devi capire che è stato una cosa da irresponsabili”

“È stata n’idea sua”

“Però non mi pare tu l’abbia fermata, o sbaglio? Potevi chiamarmi, spiegarmi la situazione. A qualcosa avremmo pensato”

“A’ ma’, accanna”

“No, Manuel. Accanna un cazzo. Ti rendi conto della situazione di merda in cui ti sei cacciato, o no?”

 

Pensò bene di tenere la bocca chiusa per il resto del tragitto, la sensazione di nausea era ritornata più insistente di prima. Quando uscì dall’auto dovette aggrapparsi alla porta perché le gambe avevano deciso di abbandonarlo, ma poco importò perché la mano scivolò e finì con il culo per terra.

“Manuel, che succede?”. Il ragazzo era di nuovo sull’orlo dell’iperventilazione.

“Non lo so”

“Calmati, respira”. Anita gli prese il viso tra le mani inspirando ed espirando piano, per fargli riprendere un ritmo normale. “Hai preso qualcosa? Manuel, guardami. Hai preso qualcosa?”

“Non so’ n’drogato, ma’”

“Ti offendi se ti dico che non ti credo? Rispondi, hai preso qualcosa?”

Scosse la testa, chiudendo gli occhi. Se non fosse stato per la ghiaia che gli si stava brutalmente conficcando nel sedere, avrebbe chiesto a sua madre di lasciarlo lì. La morte gli avrebbe calmato il respiro fino a spegnerglielo, la pioggia lo avrebbe sciolto e reso poltiglia fino a diventare concime per le pratoline. Requiem per un povero stronzo.

 

Anita non si era mai resa conto di quanto fosse cresciuto suo figlio finché non dovette trascinarlo su per la piccola rampa di scale, fino alla porta d’entrata: sessanta gloriosi chili abbarbicati al suo fianco. “Manuel, amore mio. Ti va di non svenire qua, puoi aspettare che tua madre entri in casa, prima?”

Il piccolo divano accolse il suo corpo con un rumore di fogli schiacciati. Anita doveva averli lasciati lì in velocità, dopo la telefonata di Manuel.

 

“Posso dormire qui co’ te ‘sta notte? Non me va de’ torna’ di là”

“Ma certo, amore”. Anita cercò lo sguardo del figlio, più sfuggente del solito. “È successo qualcosa tra te e Simone?”

 

Sua madre aveva la puntuale e sadica abilità di fare sempre le domande che Manuel pregava non facesse. Ringraziò il cielo di essere già seduto, o sarebbe crollato a terra per la seconda volta quella giornata.

“No, non è successo niente”

Un’altra crudele abilità di Anita era quella di non saper lasciar correre, non arrendersi alle barriere che Manuel erigeva attorno a sé. Lei era forse l’unica persona ad avere il privilegio – se così si può chiamare – di poter vedere e toccare la sua irrimediabile e straziante fragilità. Lo aveva visto con le guance bagnate e il naso pieno di muco, dopo essersi schiantato con la bicicletta a sette anni. Lo aveva visto nel mezzo di una crisi respiratoria la sera del giorno delle pagelle, dopo aver scoperto di essere stato bocciato e aver finto noncuranza davanti ai suoi amici. Lo aveva tranquillizzato nelle notti piene di incubi su macchine sfasciate e debiti, nonostante avesse cercato di allontanarla rifilandole un mare di balle (tranquilla, ma’. So’ solo un po’ agitato per le verifiche, tutto qua).

 

“Che succede con Simone?”

“Niente, ma’. Te l’ho detto”

“Manuel”
 

Manuel, questo, non lo capiva ma l’insistenza di Anita rabboccava – seppur in minima parte – il vuoto che lo divorava. Con la pazienza e la cura, gli gettava malta sulle crepe per impedire che entrassero gli spifferi, o che crollasse a terra sbriciolandosi.


“Ho fatto n’casino”. La voce si spezzò e puntò gli occhi al soffitto. C’era un accenno di muffa vicino al lampadario. “So’ stato ‘no stronzo e Simone non mi parla più”

“Manuel, a quest’età si fanno sempre cazzate, non è la fine del mondo”

“Sì, ma io di cazzate ne ho fatta una dopo l’altra”

“E vai a parlargli, no? Chiedigli scusa,”

“Ma’, non è che mo’ posso anda’ lì e poi amici come prima. La situazione è più complicata de così, non puoi capire”

“Tu prova, a spiegarmelo”

“Adesso non me va”

Anita fece cadere le spalle, rassegnata. Gli accarezzò il viso spostandogli i capelli indietro e lui la lasciò fare, senza proteste.

“Sei pallido. Hai mangiato qualcosa?”. Manuel scosse la testa.

“Mi viene da vomitare”

“Ti faccio qualcosa di caldo, vedi che poi ti passa”

Il rumore di pentole in cucina lo cullò diventando poco a poco un sussurro. La quiete ritrovata gli sigillò occhi e mente, gettandolo in un sonno senza colori.

_

Manuel si stava godendo i giorni di libertà che Anita gli aveva concesso: una sorta di tacito accordo che prevedeva lo stare a casa da scuola a patto di non fare cazzate. Quindi aveva deciso di non fare proprio un bel niente. Passava dal divano in salotto – sempre affollato di vestiti, tazze e confezioni di plumcakes vuote – alla cucina, per assalire la dispensa. Al secondo giorno erano rimasti solo il dado da cucina e qualche barattolo di verdure sott’olio, beccandosi una strigliata da Anita (potresti andare anche tu, ogni tanto, a fare la spesa. Lo sai, sì?). Valutò la proposta per un totale di quattro secondi e mezzo, prima di rinuciare e dirigersi verso le provviste dell’amica di sua madre – la santa che aveva permesso ad entrambi di rimanere lì a tempo indeterminato. Manuel non guardò nemmeno la confezione di frollini prima di svuotarsela in bocca (sua madre era solita commentare i suoi modi da animale quando mangiava) ma li risputò tutti nel lavandino perché – questo gli era proprio sfuggito – erano biscotti senza glutine.

“Che merda, oh”

_

Un mercoledì pomeriggio sua madre decise che sarebbe ritornato a scuola il giorno stesso. Lo aveva buttato giù dal divano alle sei della mattina, cacciandogli un bacio in fronte e una tazza di caffè in mano. Un modo dolce per dirgli “zitto e non discutere”.

“Ma’, dai. Ho pure lasciato lo zaino a casa di Simone, con cosa ci vado a scuola?”

“E che problema c’è, ti ci accompagno io prima di andare a lavoro”

Zitto e non discutere.

“Vabbè”

 

Nel tragitto verso casa Balestra aveva fatto a tempo a rosicchiarsi tutte le unghie delle mano destra.

“Che c’hai, perché sei nervoso?”. A Manuel venne il dubbio che sua madre fosse in realtà una strega.

“Che c’ho, mi sto ad accorcia’ le unghie. So’ a metà dell’opera”

“Ti fa paura l’idea di rivedere Simone?” Bingo, la signora è pregata di avvicinarsi al palco e ritirare il premio.

“Ma’, non c’ho voglia de parla’. So’ le sette de’ mattina, dai”

Per sua fortuna, Anita si limitò a sospirare un “va bene”, per poi accendere la radio.

_

Le scale che portavano alla stanza sua e di Simone se le ricordava più brevi: quando aprì la porta aveva già il fiatone e un inizio di tachicardia. L’ipotesi che, forse, non erano state le scale a ridurlo così, decise di non metterla nemmeno in conto.

Il viso di Simone gli apparve davanti all’improvviso, lo zaino su una spalla e un fagotto di vestiti sottobraccio. A Manuel sfuggì una bestemmia a mezza voce.

“Ciao anche a te”

“Non pensavo fossi qui”

“È la mia stanza”

“Lo so, pensavo fossi già a scuola”

“È presto ancora”

Simone lo guardava con occhi spenti, quella luce che aveva sempre tenuto accesa per lui era sparita. La lampadina si era fulminata da mo’. Manuel – questo lo sapeva – aveva un talento nel rendere le persone stanche, portarle all’esaurimento.

“Vabbè. So’ venuto a prendere la mia roba, oggi torno a scuola”

“Prego”. Simone fece un passo indietro, per lasciarlo entrare. Vide il suo letto perfettamente riordinato e si chiese se fosse stata Floriana a sistemarlo, o se invece fosse stato Simone. Si chiese se, lontano dagli occhi di tutti, gli avesse rivolto quella piccola, immeritata cura.

“So’ stato dall’amica di mia madre, in ‘sti giorni”

“Sì, lo so. Me l’ha detto mio padre”

Te lo avrei detto pure io se mi avessi risposto ai messaggi. Manuel cacciò giù la rispostaccia, sapeva benissimo di non essere nella posizione di potersi incazzare. “Mmh”

Incassò la testa, le mani stavano iniziando a formicolargli di nuovo. Se fosse svenuto lì – aveva pensato – si sarebbe fatto ricoverare al reparto di teste di cazzo. Famigliarizzare con persone con la tua stessa patologia è terapeutico, dicono. “La moto è ancora qui?”

“Dove l’hai lasciata, lì è rimasta”

“Ti serve n’passaggio?”

“No, grazie”

 

Manuel avrebbe pregato in ginocchio pur di vedere Simone incazzato. Aveva confidenza con la rabbia, sentimento primordiale che aveva conosciuto fin da bambino. Al contrario della sua, quella degli altri la sapeva gestire (solo se gestire supponeva prendersi a cazzotti per poi finire con il culo per terra, s’intende). Ma Simone sembrava solo stanco. Cordiale e attentamente distaccato.

Gli guardò la schiena mentre scendeva le scale, lasciando che si portasse via il poco che rimaneva a tappare le fessure della scatola vuota che era diventato.

_

La voce monotona e soporifera di De Angelis scandiva i minuti. Laura, per paura di offenderlo, stava scrivendo parole a caso negli appunti, corniciandole con dei fiori. Matteo, invece, seguito da tanti altri, non ci provava nemmeno a fare finta, e alternava il fare minuscole stelline con la carta con il trafugare dallo zaino pezzi della sua merenda e mangiarseli con nonchalance. Simone era assorto dal libro che stava leggendo: un tascabile con la copertina verde, un po’ rovinata sugli angoli. Manuel intravide un post-it attaccato “da Mimmo, per Simo” e quello che probabilmente avrebbe dovuto essere un disegno di un cuore. Mimmo doveva averlo rubato dalla biblioteca della scuola, o da quella del carcere. Che poveraccio, aveva pensato Manuel tralasciando totalmente il fatto che pure lui, fino a pochi mesi prima, era con le pezze al culo.

Si chiese se quello fosse l’ultimo regalo che aveva dato a Simone prima di sparire – Manuel sperava – per sempre. Aveva saputo della trasferta da Dante, quando era venuto a prendere lo zaino quella mattina. Simone era partito prima di lui e Manuel aveva deciso di fermarsi a fare colazione, su insistenza di Virginia. Il professore gli stava raccontando in confidenza che tra Simone e Mimmo c’era stato qualcosa (o almeno credo. Quando mio figlio la finirà di nascondermi le cose sarà il giorno in cui io sarò sotto terra) quando gli andò di traverso una fetta biscottata.
“Però, purtroppo, si sono dovuti dire addio. Almeno per adesso”
Manuel aveva cacciato giù il boccone con del caffè ormai freddo.

 

Le dinamiche non furono chiare a nessuno, men che meno a Manuel: in un momento indefinito della lezione era piombato il silenzio. Non capiva se fosse il professore ad aver smesso di parlare o era lui, ad aver smesso di sentire.

 

In quelle settimane era stato sorpreso dalla randomicità di quegli attacchi. Un pomeriggio, Anita aveva dovuto soccorrerlo mentre era seduto sulla tazza del cesso. Aveva protestato perché farsi vedere così da sua madre non gli garbava particolarmente, ma il lancinante dubbio che non sarebbe più riuscito a respirare lo aveva fatto desistere. Si era arreso a quelle mani sicure che lo sorreggevano, gli stringevano il viso. “Mi guardi, amore? Va tutto bene”

Fortuna che la porta non era stata chiusa a chiave altrimenti, a vederlo senza pantaloni, non sarebbe stata solo sua madre, ma pure i pompieri.

 

Chiese scusa al professore e pregò di non sfracellarsi a terra, mentre correva fuori dalla classe.

_

Non era mai la disperata sete di ossigeno a terrorizzarlo, ma quella sensazione di non avere più un corpo a contenerlo. Era acqua che si rovesciava a terra fino a sparire nello scarico.

Il riflesso dello specchio aveva ansimato un “ripigliati”, mentre stringeva il bordo del lavandino. Lo considerava oltraggioso all’età di diciannove anni, ma l’idea che sua madre non fosse lì lo mandava nel panico. Bestemmiò sotto voce quando si ricordò di aver lasciato il telefono sul banco.

 

“Manuel”. Simone era entrato nel bagno, cercandolo con gli occhi. Gli si era avvicinato piano, con le braccia lungo i fianchi. Ora non lo toccava neanche più, si chiese se fosse davvero diventato così infetto.

“Manuel, che succede?”. La voce pacata era colorata da una leggera inquietudine. Manuel raccolse quelle briciole di premura che Simone aveva lasciato cadere per sbaglio, e le inalò una ad una.

“Non riesco a respirare”. Simone gli prese il braccio e lo tirò.

“Siediti, vieni giù”. Gli spinse la testa fra le ginocchia e gli si piazzò davanti. “Stringi le gambe intorno alla testa”

 

Se Manuel avesse avuto un orologio (e se avesse saputo come leggerlo: non era mai stato capace di distinguere le due lancette o decifrare i numeri sempre troppo vicini), avrebbe visto che invece di pochi minuti era passato più di un quarto d’ora. Curioso come passa veloce il tempo quando sei impegnato a non crepare.

Simone aveva cambiato più volte posizione, cercando di non ammaccarsi sul pavimento freddo. Ma non aveva mai allontanato lo sguardo da Manuel, stringendogli il braccio quando il respiro si faceva più rapido e disordinato. Sono qui.

 

L’ansia ogni tanto si dissipava per poi tornare ad ondate, in un loop infinito. Appena il cuore sembrava rallentare, i muscoli della schiena si irrigidivano facendo partire da capo quella giostra di merda.

 

“Ti succede spesso?”. Simone interruppe un silenzio che sentiva solo lui.

Dalle due alle quattro volte a settimana, addirittura cinque quando l’universo si sente generoso. “No”

“Sicuro?”

“Simo’, se non te scolli me ne fai veni’ un altro, ti avverto”. Manuel alzò la testa, facendo una smorfia quando i muscoli del collo ritornarono al loro posto. “Se vuoi ritorna’ in classe fai pure”

“No, grazie. Resto qui”

 

Se Manuel avesse saputo che sarebbe riuscito a rivedere uno spiraglio del suo Simone solamente sul pavimento sudicio di un bagno nel mezzo di un attacco di panico, avrebbe direttamente fatto un voto. Avrebbe contattato la chiesa di Medjugorje per chiedere un miracolo e stroncarlo lì sul posto.

 

“Allora, mi vuoi dire che succede?”

“Succede che questo pavimento è ‘na merda. Dovrò lavare i vestiti con la benzina, quando torno a casa”

“Manuel”

“Non adesso, Simo”

“Perchè no? Tu sei qui, io sono qui”

“Sì, ho capito. Ma così, nel cesso della scuola..”

“E da quando per parlare serve stare al tavolo della regina Elisabetta, scusa?”

Manuel dovette respirare a fondo per fingere un minimo di compostezza, ma la sua voce si spezzò ugualmente, mandando tutto a puttane. “Non sto a capi’ più un cazzo de niente”

Simone non gli chiese di spiegarsi, sapeva perfettamente di cosa stava parlando. Finse di non vederlo mentre si asciugava gli occhi.

“Tutto il macello co’ Nina e la bimba. Mia madre e tuo padre che stanno a fa’ casini. Nicola”. Abbassò la voce, strofinandosi la fronte. “Te”

Simone non lo guardava più. Osservavano entrambi, silenziosamente, le piastrelle quadrate sotto di loro. La punta del piede contro quello di Manuel era l’unico segnale che fosse ancora lì. Che non fossero lontani chilometri.

Ricacciò la testa fra le ginocchia, nel dubbio. “Riusciremo mai a torna’ come prima?”

Prima di Parigi, prima di Nina. Prima di sentire Simone schiantarsi sotto la sua finestra.

Le ginocchia premute sulle tempie gli davano la sensazione di essere da solo. La sua voce rimbombava nel vuoto e sembrava non pretendere una replica, Manuel lo aveva chiesto senza aspettarsi nulla in cambio.

“Dipende da te”. Fu un sussurro. Non c’era l’intenzione di nascondersi, in quella risposta a bassa voce. Era dare e darsi il permesso di esistere mentre tutto il resto si allontava e si spegneva poco a poco.


Manuel lo guardò. Gli toccò la fronte con la punta delle dita. Poi la guancia, il mento.

Chissà se era vera la cosa del “l’ho sempre saputo”. Lui, di certo, non aveva mai avuto certezze di questo genere. Ma in quel momento si chiese come poteva essere stato così lento. Cieco di fronte all’ovvio, confuso davanti a qualcosa di così semplice.
“Ti amo, Simo’”

 

Il viso del ragazzo parlava a voce alta: diceva “grazie al cazzo”, “lo so”. Diceva “ti amo anch’io”.

 

“E Nina?” sussurrò invece.

 

“Non ho mai creduto alla stronzata che il vero amore è solo uno nella vita. Ti ho amato come ho amato lei, e prima di lei Chicca. Ma ti ho amato, e ti amo ancora”

Simone si nutrì di quelle parole che lo alleggerivano e appesantivano allo stesso tempo. Le respirò a fondo.

“Solo che il mio modo de ama’ è una merda”. Si grattò una caviglia, poi l’altra. Soppesava le parole senza però fermarle. “So’ un po’ come tu’ padre, non riesco a da’ un minimo de stabilità. So’ rotto. Mia madre quando mi ha partorito s’è dimenticata dei pezzi e ora me tocca vive’ così”
 

Il ticchettio dell’orologio di Simone scandiva i secondi.

 

“E quindi?”
“Quindi non posso darti quello che vuoi, Simo. E forse faccio meno danni ad esserti amico”

Simone sospirò, alzando gli occhi al soffitto. L’intonaco frantumato era lo stesso che imbiancava il pavimento, e che si sarebbero trovati poi sui pantaloni. “Hai sempre scelto anche per gli altri, Manuel. Che dici se questa volta ti fai i cazzi tuoi e lasci decidere a me?”

Manuel sorrise. “Va bene”

 

“Andiamo” Simone si alzò, strofinandosi via la polvere dal sedere.

 

Manuel afferrò il suo braccio, aggrappandosi, per non precipitare giù appesantito dal suo corpo esausto. Quando vide Simone accogliere quel gesto senza protestare, lasciò la mano dov’era. Respirò l’odore dei vestiti del ragazzo, che era diventato anche il suo. Spesso Dante li mescolava, dopo averli tirati fuori dalla lavatrice – quando si ricordava di farla – e appoggiava poi il mucchio sopra il letto di Simone.

 

La campanella suonò, annunciando l’intervallo. Simone sorrise quando, nonostante il corridoio si fosse riempito di gente e di occhi indiscreti, Manuel gli rimase vicino, senza smettere di toccarlo.

“Ti va di tornare a casa?”

“E me lo chiedi. Andiamo co’ la mia moto?”

“Va bene”

 

Va bene.

   
 
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