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Autore: drisinil    06/01/2024    2 recensioni
Questa storia è stata creata per la challenge #whatsinthestocking del gruppo fb Non solo Scherlock ed è dedicata a Silvana Rollins, che ringrazio per il prompt.
Quando mi dissero che avrei dovuto lavorare con qualcuno, mi crollò il mondo addosso. Io lavoro da solo.
Da sempre, da quando ero un moccioso, dagli inizi della carriera.
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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PRODIGIO

Quando mi dissero che avrei dovuto lavorare con qualcuno, mi crollò il mondo addosso. Io lavoro da solo.
Da sempre, da quando ero un moccioso, dagli inizi della carriera.
Qualche volta magari in gruppo, ma sempre in modo che sia ben chiaro a tutta la marmaglia che sono io a guidare e loro devono venirmi dietro.
Del resto, sono un cazzo di prodigio.
Proprio questo risposi, a faccia-da-topo, quando tirò fuori la faccenda di lavorare in coppia.
Anche lui è un cazzo di prodigio, ghignò faccia-da-topo. Quando ghignava gli si accartocciava la faccia e gli occhi diventavano minuscoli e appuntiti dietro le lenti rotonde. Appena vedevo quell’espressione, sapevo che non c’era niente da fare. Aveva deciso, e, purtroppo, mi teneva per le palle. Perché di tutte quelle menate di soldi, di tasse, di immagine e di marketing, io non ci capivo un cazzo. Lavoravo a testa bassa perché il lavoro mi piaceva, punto.
Beh, facevo anche un sacco di quattrini. Ma lavorare mi piaceva sul serio.
Lavorare da solo.

Venne fuori subito che questo tizio che mi avevano appioppato non lo avevo mai sentito nominare, il che nel nostro giro è strano, perché tutti si fanno i cazzi di tutti, di continuo, da quando sei alto come uno gnomo fino a che crepi. L’’intera faccenda puzzava di fregatura lontano un miglio.
«Chi diavolo è?»
«Un fottuto genio» rispose faccia-da-topo. Genio a me non lo aveva mai detto.
«E come mai nessuno lo conosce questo fottuto genio?»
«E io che vuoi che ne sappia? Che me ne frega? Sarà timido.»
Timido.

Quando lo vidi in aeroporto, che si trascinava dietro un trolley color cacarella, capii che era lui dal primo sguardo: bruno, insignificante, capelli incolti, sbarbato, pallido come un cencio, aveva la faccia del più stronzo del pianeta, proprio come mi aspettavo. Quello era timido quanto me.
Non mi piacque, ma la cosa non mi stupì visto che ero già fermamente determinato a non farmelo piacere. Mi piacque ancora di meno quando si fermò di fronte a me, come se mi avesse riconosciuto da subito, come se ce l’avessi io la faccia del più stronzo del pianeta.
Mi porse la mano, lunga, elegante, e io la fissai, senza nemmeno fingere di volerla stringere: poteva sognarselo di diventare culo e camicia con il sottoscritto, dovevamo lavorare, mica diventare amiconi.
La ritirò, se la cacciò in tasca e biascicò il suo nome, che io già sapevo; io brontolai il mio e ci infilammo in un taxi.
C’era più di un’ora di strada, ma non aprì bocca, e io neppure; in fondo non avevamo proprio niente da dirci.
Lo scaricai davanti all’albergo, sperando che una setta religiosa nemica dei capelli arruffati e delle labbra da donna sulle facce da uomo lo rapisse e lo sacrificasse.
Purtroppo, non ci sono più i cultisti di una volta.

L’indomani, quando me lo trovai davanti tutto tranquillo, riposato e tirato a lucido, decisi che qualcosa da dirgli forse ce l’avevo, ed era molto meglio farlo subito.
«Senti, bello. Dobbiamo fare un discorso» esordii.
Lui si era seduto, aveva già montato e si guardava intorno placidamente. Quando parlai si voltò a fissarmi, leggermente perplesso, come se fino a quel momento avesse pensato che ero muto o ritardato.
Aveva gli occhi più chiari che avessi mai visto, come fossero di vetro, come quei film dove la gente muore intrappolata sotto una lastra di ghiaccio. Due occhi enormi, limpidi, disturbanti, che ti spossavano.
«Un discorso» ribadii per riprendere il filo, perché mi sentivo già spossato. «Guarda, è semplice: tu fai la tua parte, io la mia. Niente fantasie, giochetti del cazzo, arrangiamenti e cambi di programma. Niente lampi di genio e assolutamente niente sbotti di talento improvvisi. Andiamo sul sicuro: facciamo tutto come è scritto, zero variazioni. Zero. Capito?»
Inclinò la testa, batté le palpebre e storse le labbra.
«Zaista ne znam šta govoriš» disse compito.
Ero sbalordito. Che lingua era? Jugoslavo? Turco? Persiano? Cazzo, mi avevano mandato uno direttamente dalle mille e una notte.
«Do you even speak fucking English?» Chi non parla il dannato inglese, oggigiorno.
«Sprichst du überhaupt deutsch? Es ist Mozarts Sprache...»
Io lo odio, il tedesco. Odio pure Mozart, ma non è una cosa da andare a dire in giro.
«Français, au moins?»
«我的中文不太好,但我们可以试试...»
Cinese? Cazzo, era assurdo. Tre lingue a testa e neanche una in comune, chiunque avesse avuto questa brillante idea di collaborazione internazionale meritava la morte.
E quando uno stramaledetto cellulare, con un traduttore automatico fanculese-italiano ti farebbe proprio comodo, è la volta che ti ricordi di essere il minchione che predica contro la cultura di massa e l’uso istupidente dei social e lascia che a gestirgli il cellulare sia faccia-di-topo con i suoi sgherri (testa-a-ginocchio e bella-gnocca). Lo stesso minchione che ha dato a tutti precise istruzioni di non disturbare MAI al lavoro.

L’idiota rideva.
A sproposito, naturalmente, perché non c’era un cazzo da ridere, ma quella risata aveva un bel suono. Né troppo sguaiata, né troppo azzimata, una risata piena, con un ricco ventaglio di armoniche pulite, che solleticavano le orecchie. Rideva in la maggiore.
«Ce l’hai un cellulare?»
Si strinse nelle spalle, continuando a ridacchiare, stavolta in re minore.
«Cel-lu-la-re» sillabai, come l’idiota che ero. E con le mani disegnai nell’aria un rettangolo che avrebbe potuto rappresentare qualsiasi cosa. Poi feci l’universale gesto del telefono con la cornetta, che non esiste più da trent’anni, che poi era l’età che più o meno avevamo.
Mi guardò come se venissi da Marte e di mestiere facessi il comico.

Stavo perdendo la pazienza, l’unica mossa ragionevole era andarsene sbattendo la porta e chiedere a faccia-di-topo di pensarci lui.
Ero già quasi all'uscita, quando lo sentii arrivare di corsa alle mie spalle e colpirmi il braccio con qualcosa di solido e leggero: i fogli arrotolati a tubo.
Li sollevò all’altezza della mia faccia, scuotendoli, e poi indicò col dito l’enorme orologio dorato, fra gli stucchi del soffitto. Avevamo solo una manciata di ore prima di una pessima, pessima figura. Bei prodigi.
Mi consegnò i fogli, mi indicò le nostre sedie e poi giunse le mani, come una preghiera, i capelli che fluttuavano seguendo quei movimenti; ogni tanto coglievo un bagliore di vetro dal suo sguardo e cercavo di incrociarlo il meno possibile.
Inciampai in un sorriso radioso quando alla fine cedetti e tornai sui miei passi. La caricatura di applauso che mi offrì mentre salivo i tre gradini mi fece sentire un vero cretino.
E va bene. Potevamo provare a salvare il salvabile, ma l’avremmo fatto a modo mio.
Sparpagliai i fogli sul tavolo e, brandendo una matita, iniziai a segnare tutti i punti che sapevo essere critici. Sottolineai, evidenziai, feci grandi cerchi. Ognuno era una regola precisa a cui attenersi.
Intanto gli parlavo inutilmente.
Lui annuiva qui e lì. Per quanto straniante, sapevo che assentiva al senso dei miei commenti sulla pagina, anche se le parole che dicevo gli erano tutte incomprensibili.
A un certo punto mi sfilò di mano la matita e si mise anche a lui a scarabocchiare, labbra imbronciate, faccia serissima. Anche lui aveva delle condizioni e dei paletti.
Inutile sperare che non sapesse quello che faceva. Fu rapido, preciso, molto acuto, pur impegnandomi non riuscii a trovare nulla su cui non mi trovassi d’accordo o che potessi mettere in discussione, neppure le (poche) obiezioni ai miei appunti.
Quando terminò, rimise insieme i suoi fogli. Li impilò e poi si batté la mano sul petto, sorridendo. Iniziava lui. Benissimo.
Avanti dai, prodigio, stupiscimi!
Poiché dirlo a voce non aveva senso, lo invitai a cominciare mulinando il braccio con un gesto esagerato.
Non si fece pregare.
 
Suonò. E cambiò tutto.
Fu chiaro subito, dal primo respiro, dal primo vibrato, che il fottuto genio era toccato proprio a me.
E non sarei sopravvissuto a quel talento: era soffocante, soverchiante, violento. Mi avrebbe sfondato la cassa toracica ed estirpato il cuore, strappando tutti i nervi, li sentivo già tirare.
Cazzo, era sublime: dove sfiorava le corde, sbocciavano stelle. Non quelle smancerose dei poeti; stelle vere, masse infuocate ribollenti di reazioni nucleari, attrazioni gravitazionali universali, buchi neri, come quello in cui stavo finendo a capofitto, perché appunto le leggi della fisica non perdonano mai.

Ma avrei dovuto capirlo dagli occhi. Enormi, lucidi, accesi da una fiamma che non era arte, e non era passione. Occhi che avevano visto troppo per l’età che aveva, e ancora non sapevo quanto.
Incrociandoli da sopra il bordo del violino, capii che non avrei mai più potuto ignorarli.
Incantato come un ebete, mancai la mia entrata. Lui si fermò, e indicò lo spartito con l’archetto, perplesso.
Avrei voluto solo ascoltarlo, possibilmente per sempre, ma non c'era niente da fare, toccava a me. Mi massaggiai il collo, imbracciai, schioccai le labbra.
E così, finalmente, suonammo.

Suonammo Bach in re minore per un teatro gremito, facendo in modo che ognuno di loro dimenticasse se stesso e la sua vita di merda, dimenticasse l’orchestra, dimenticasse tutto, tranne le nostre due voci intrecciate.
Suonammo finché non finirono le note, finché non scrosciarono gli applausi, finché fu il momento dei fiori, dei sorrisi, dei flash e dei cellulari sollevati e fu il momento di stringersi la mano e poi di lasciarla andare a malincuore.

E quando il teatro fu deserto, le luci spente, i leggii sgombri, quando anche l’ultimo ammiratore rinunciò a tormentarci, ci trovammo seduti fianco a fianco, sul sedile del taxi che faccia-di-topo aveva mandato.
Non potevo permettere che finisse così.
«Vieni da me» lo pregai. «Stanotte, vieni da me.»
Lui non capì e rispose qualcosa di complesso e articolato, che forse era importante.
«Vieni. Ho una sala insonorizzata» tentai, ammiccante e stupido come solo io so essere.
Lui rise della mia espressione. In fa maggiore, stavolta.
La macchina si fermò davanti al suo albergo, ma lui non si mosse. Stringeva la maniglia del portello e mi guardava, con quegli enormi occhi di vetro; lo sfigato intrappolato sotto la lastra di ghiaccio ero proprio io.
Poi spinse verso di me la custodia del suo Tertis e me la premette sul petto.
Suoniamo ancora voleva dire.
Non esisteva un altro modo in cui avrebbe potuto esprimersi più chiaramente, con più forza, con più significato. Non c’era niente al mondo che desiderassi di più.

Suonammo. A casa mia, tutta la notte.
Tutto il giorno dopo.

La musica ha più potere delle parole, perché crea se stessa e il proprio contesto, è significante e significato allo stesso tempo, vibra sulle corde dei sensi, entra nelle ossa, arriva dritta in fondo al cuore, incide la memoria, accarezza l’anima.

Suonammo senza più nasconderci e scoprii il mondo della sua infanzia sbranato dalla guerra, strinsi fra le dita la sua sofferenza e la sua rabbia, gli mostrai gli abissi della mia solitudine, la disperazione incatenata al talento. Mi denudai delle emozioni primitive consegnandole al suo violino. Lui sfiorò il mio, lasciando un’impronta di sé che ne avrebbe cambiato il suono per sempre.

Quando lo accompagnai all’aeroporto e lui mi salutò con la mano, stringendo il violino nell’altra, capii che lo amavo.
Che sarebbe tornato. Che l'avrei raggiunto io.
Che non era finita e non sarebbe mai finita.
E il prodigio era quello.
   
 
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