Poco più di una flash-fic (511 parole), nata in cinque minuti di noia.
Il titolo è preso dal brano dei Muse, 'Sing of Absolution', che vi consiglio spassionatamente di ascoltare leggendo questa storia.
Buona lettura XD
Sing
of Absolution
Le
sale erano vuote, i
corridoio silenziosi. I bracieri scaraventavano bagliori rossastri
sulle
pareti, le fiamme delle torce danzavano
nell’oscurità come lingue ardenti,
sensuali e pericolose.
Ma,
nonostante tutto, lui aveva freddo.
Non
importava che avesse
indossato i suoi abiti più pesanti, non contava che fosse
estate e il cielo,
fuori, fosse di un azzurro intenso e il sole splendesse.
Avanzava
–solo,
maledettamente solo- lungo quei
labirinti, ascoltando assorto l’eco dei propri passi
riecheggiare all’infinito,
rimbalzare sulle pareti, infrangersi contro una colonna, perdersi per
sempre
nelle tenebre – e gli sembrava di vedere le sue emozioni
inseguire quegli echi,
implacabili e terribili, abbandonandolo. Lui le rincorreva –cercava, voleva
ricorrerle- perché non poteva sopportare il vuoto che gli
si era spalancato dentro come un abisso, lo stesso che gli schiacciava
i
polmoni, che gli opprimeva il cuore.
Le
rincorreva, e le avrebbe
rincorse per il resto dell’eternità con quella
volontà che gli aveva incendiato
lo sguardo fin dalla nascita, anche a costo di avventurarsi
nell’oscurità.
In
fondo, lui non aveva mai
avuto paura del buio.
Continuava
ad avanzare, e
continuava a sentire freddo
– un gelo
che gli scorreva nelle vene come veleno mischiato al sangue,
rinnovandosi
sempre più forte, sempre più violento, ad ogni
battito del cuore – uccidendolo.
Avrebbe
voluto che il vento
lo portasse via con sè, oltre il sole splendente che lo
aveva accecato per così
tanto tempo, oltre il blu spumeggiante dell’Oceano estremo
– via, lontano da
quella terra che si sgretolava inesorabile sotto i suoi piedi.
Sarebbe
partito con i suoi
sogni - solo con quelli a gettare luci e ombre sul suo viso, a donare
una luce iridescente
al suo sguardo. Sarebbe partito, lasciandosi alle spalle tutto il resto.
E
avrebbe visitato i paesi
dell’estremo Oriente, avrebbe visto il luogo in cui nasce il
sole, sempre più a
est, sempre più lontano.
Ma
non poteva.
Avanzava
lungo quei corridoi
e, sentendo freddo, sapeva di non
poterlo fare.
E
allora abbassava le
palpebre per celare le lacrime brucianti, piegandosi su sè
stesso e chiedendosi
cosa fosse rimasto del vanitoso ragazzo di Mieza, cosa fosse rimasto di
loro.
Sentiva
risate, rivedeva
frammenti di vita, violenti squarci di un passato ormai morto.
Poi
si risollevava,
ritrovando anche solo per un istante quella luce che animava i suoi
occhi azzurri
tempo addietro, quando il fragore della guerra era ancora lontano.
E
sentiva il furore
invaderlo, violento e implacabile, quando le mani si stringevano
convulsamente
e i denti si serravano, mentre lo sguardo si accendeva come un incendio
e il
viso impallidiva.
Allora
correva, spalancava
porte, sbatteva battenti, rapito da una frenesia incontenibile.
Cos’era
rimasto? Cos’era
rimasto? Cos’era rimasto?
Così,
in un’accavallarsi
d’interrogativi senza risposta che lo tormentavano.
Poi
spalancava l’ultima
porta, sbatteva l’ultimo battente, mentre il cielo
s’incupiva e le nuvole si
rincorrevano giocose su uno sfondo sempre più nero, mentre
il sole incendiava
Ectabatana con un ultimo raggio di sangue prima di declinare oltre la
linea
sottile dell’orizzonte.
Entrava
nella sua camera, quando il sole
moriva e la
notte incalzava, e guardava, cercava, urlava, gridava il suo
nome.
Invano.
Efestione
non c’era.
Angolo Autore:
Prima di tutto, grazie per aver letto questa storia.
Spero che vi sia piaciuta e che, soprattutto, vi abbia trasmesso qualcosa - almeno quanto ha trasmesso a me.
Grazie ancora,
Caesar