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Autore: Blankbanshee    17/01/2024    0 recensioni
Lóreley Dubois ha vent'anni, una madre vulcanologa sempre a spasso per l'Islanda e la fortuna di frequentare l'università privata più in voga dello stato, la Fær Øer, chicca indiscussa di Reykjavík.
Messa alle strette dai figli di papà, le difficoltà di tutti i giorni all'interno dell'istituto diventano, sin da subito, l'ultimo dei suoi problemi terreni: una premonizione inaspettata la lega a Gaël Elíasson, studente d'élite tanto affascinante quanto misterioso. E cieco. E antipatico, soprattutto.
Lór ha quindi due possibilità: darsi per vinta e ignorare gli inquietanti sussurri del suo ego, oppure... cercare di sopravvivere alla valanga di sfighe che la morte semina sul suo cammino, senza mai battere in ritirata.
La seconda opzione non è delle migliori, in quanto comprende i seguenti (e terrificanti) punti: ammazzare uno spietato serial killer prima che ammazzi lei, svelare un mistero antico quanto il mondo, lavorare in una catena di supermercati nel fine settimana e impedire a un gruppo di potenti di sfruttare un aldilà totalmente incolore.
Potrebbe emigrare in Francia e cambiare identità, certo.
Ma Bodvár l'ha scelta e... non ha mai commesso errore peggiore di questo.
Genere: Angst, Dark, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Trama:
 

Lóreley Dubois ha vent'anni, una gobba sul naso che fa provincia, una madre vulcanologa sempre a spasso per l'Islanda e la fortuna di frequentare l'università privata più in voga dello stato, la Fær Øer, chicca indiscussa di Reykjavík.
Messa alle strette dai figli di papà e dal conto in banca perennemente in rosso, le difficoltà di tutti i giorni all'interno dell'istituto  diventano,  sin  da  subito,  l'ultimo  dei  suoi  problemi  terreni:  una premonizione  inaspettata  la  lega  in  maniera  viscerale  a  Gaël  Elíasson,  studente  d'élite  tanto affascinante quanto misterioso. E cieco. E antipatico, soprattutto.
Lór ha quindi due possibilità: darsi per vinta e ignorare gli inquietanti sussurri del suo ego, oppure... rimboccarsi le maniche e cercare di sopravvivere alla valanga di sfighe che la morte semina sul suo cammino, senza mai battere in ritirata.
La seconda opzione non è delle migliori, in quanto comprende i seguenti (e terrificanti) punti: ammazzare uno spietato serial killer prima che ammazzi lei, svelare un mistero antico quanto il mondo, lavorare in una catena di supermercati nel fine settimana e impedire a un gruppo di potenti di sfruttare un aldilà totalmente incolore.
Potrebbe emigrare in Francia e cambiare identità, certo.
Ma Bodvár l'ha scelta e... non ha mai commesso errore peggiore di questo.



"Litlaus - Incolore" è il primo volume della trilogia Wicked Eyes ed è stato completato ormai più di un anno fa. La storia è disponibile anche sul mio account Wattpad, ma qui ho deciso di pubblicare la versione antecedente alla versione finale, quindi rivista e corretta in parte. I capitoli verranno pubblicati per intero.


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00. 
Ciclicamente


***

 

"Bene, Lór. Hai bisogno di qualcosa prima di cominciare?"
"Gradirei un bicchiere d'acqua, grazie".
La donna si lasciò sfuggire un sorriso apprensivo prima di allungare una mano verso destra, in direzione della scrivania in disordine, per procurare quanto richiesto.
"Come va col mal di gola?"
"Molto meglio, la ringrazio. Non sono ancora abituata alle temperature francesi, ma... credo proprio che dovrò cominciare a farci il callo. Qui ho sempre caldo e tendo a non coprirmi abbastanza".
"Mh-mh. Tuo padre mi ha detto che hai intenzione di tornare in Islanda per il prossimo Natale. Ne senti il bisogno?" domandò la dottoressa, porgendole il bicchiere.
"Ho voglia di rivedere mia madre. Sembra passata un'eternità dall'ultima volta che sono stata a Selfoss" rispose Lór, afferrando il bicchiere e concedendosi un piccolo sorso. Col vetro ancora premuto sulle labbra, aggiunse: "Non posso continuare a ignorare le mie priorità".
"Consideri l'Islanda una tua priorità?"
"Non l'Islanda, ma quello che mi è successo lì".
Audrine si sistemò sulla poltroncina e accavallò fluidamente le gambe, segno univoco che preannunciava l'effettivo inizio della seduta. Era come se con quella postura rilassata, prettamente improntata all'ascolto, volesse esplicitamente mostrarsi alla pari della sua paziente. Questo, almeno, in apparenza. Stava di fatto che Lóreley era pronta a renderla partecipe dei suoi trascorsi e Audrine non poteva lasciarsi scappare una simile opportunità.
Doveva solo continuare ad avere fiducia nei progressi fatti durante le ultime sedute –le più fruttuose dall'inizio della terapia– e raggiungere il fondo di quella faccenda. Ammesso e non concesso che ce ne fosse stato uno ad attenderla.
"Te la senti?"
"Di parlarne?”
“Sì.”
“Onestamente credo di non essere ancora pronta. Molto probabilmente non lo sarò mai, ma c'è qualcuno che lo è per me”.
Audrine si punzecchiò lo zigomo con la stilografica. "È chi penso che sia?"
"Ovvio. Altrimenti non starei qui a farmi giudicare dall'ennesima persona che crede io sia una pazza da rinchiudere chissà dove".
"Io non giudico, Lóreley. Io ascolto. Sono qui per ascoltare ciò che hai da dire, tutto qui. Non lasciare la paura di essere giudicata ti riporti sempre al punto di partenza. Desidero che tu capisca che sono come te: siamo esseri umani e la comunicazione è il mezzo più efficace che abbiamo per confrontarci".
Lóreley si portò una ciocca bionda dietro l'orecchio. Non la guardava. "I confronti mi hanno stufata".
"Allora mi correggo: parlami senza avere peli sulla lingua. Il resto verrà da sé".
"Potrebbe farle male".
"O potrebbe fare male a te" Audrine non batté ciglio. "La mia è un'empatia limitata. Starò benissimo, non preoccuparti".
"Ma ha appena detto di essere come me" puntualizzò la paziente.
"Con le giuste precauzioni, s'intende".
Un silenzio provvisorio calò sulle spalle delle due, interrotto, a tratti, dal ticchettare di un orologio appeso accanto all'entrata: Lóreley era pronta. Quindi Audrine ne approfittò per armarsi del registratore ammaccato, uno di quelli vecchia scuola, e lo poggiò senza indugi sul tavolino che le divideva.
Un breve segnale acustico le costrinse a cercarsi con gli occhi.
"Devo cominciare dall'inizio?"
"Certamente".
"E se le dicessi che non c'è un vero e proprio inizio... lei cosa mi risponderebbe?"
La dottoressa finse di pensarci su. "Ti risponderei con un'altra domanda".
"E quale sarebbe?"
"Perché non dovrebbe esserci? Tutto inizia e tutto finisce".
"Ciclicamente?" domandò Lór.
"Ciclicamente".
"E lei ne è davvero così sicura?"
"Sono le basi del mondo in cui viviamo: niente e nessuno sono per sempre".
Lo sguardo di Lóreley tentennò verso destra per qualche secondo, come se la sua attenzione fosse stata catturata da qualcosa, e Audrine riuscì a notarlo appena in tempo.
Seppur impercettibile, l'ondeggiare delle pupille azzurre non era di certo sfuggito alla dottoressa, questo fu chiaro anche a Lóreley che, adesso vittima di una sorta di pentimento per averlo fatto, tornò a fissare la superficie graffiata del tavolino.
Audrine cominciò a tamburellare la stilografica sul suo ginocchio. "Non sei d'accordo con le mie considerazioni?"
"Lui non è d'accordo".
"Parli di Bodvár?”
"In parte".
"Perché?"
La domanda rimase in sospeso per un tempo indefinito. Il cielo francese si erano nel frattempo incupito e rifletteva il suo grigiore sulle campagne circostanti, spegnendo il verde scintillante che le caratterizzava in primavera. Lór pensò che un pomeriggio come quello non le sarebbe mai più capitato: rendere partecipe il mondo dell'antico legame che condivideva con la terra stessa era un obbligo morale verso tutti quelli che avevano sofferto a causa della bramosia di Paskúm. Strano a dirsi ma credette, per un istante, di sentirsi meno sola e diversa.
Audrine la guardò inspirare profondamente prima di concederle una risposta. "Perché mi è difficile spiegarle come per me in particolare ci possa essere un inizio e una fine. So che non è così. È un discorso complicato, ma voglio cercare di essere il più chiara possibile con lei. Voglio che capisca il mio punto di vista" le spiegò, fissandola finalmente in volto, occhi negli occhi. "Quindi, prima di dilungarmi più del dovuto, comincerò dal mio principio, dal mio inizio, quello terreno. Quello di carne e ossa. E le dirò di più: anche Bodvár ascolterà. Glielo devo, gli devo la mia parola. Il nostro legame è fondato sulla sincerità reciproca e non voglio tradirlo, altrimenti non se ne fa nulla".
Audrine diminuì gradualmente il tamburellare della stilografica, mostrandosi comunque sicura di sé di fronte all'improvvisa schiettezza di Lór. Due grosse gocce d’acqua andarono a schiantarsi contro i vetri della finestra, un’avvisaglia necessaria che presagiva tempesta.
"D'accordo, Lóreley, io ti credo. Continua, stai andando bene".
"Non so cosa le abbiano raccontato, non so cosa abbia letto sui giornali. Non so cosa dica la mia cartella clinica, non m'interessa. Bodvár è reale e sta ascoltando, voglio che lei lo sappia".
L’intermezzo non arrivò mai. La pioggia prese a cascare dal cielo senza alcuna pietà.
"Grazie per avermelo detto. Apprezzo l’accortezza che hai nei miei confronti" mentì Audrine.
"Si sente più tranquilla?"
"Non vedo perché dovrei essere agitata".
Lóreley indugiò un attimo ancora. Bevve a grandi sorsi ciò che rimaneva nel bicchiere, poi lo poggiò sul tavolino, facendo attenzione a non far troppo rumore. Audrine strinse gli occhi e aguzzò l’udito quando udì l’inizio del racconto.
"Ho deciso di collocare l'inizio di tutto a partire dalla mia ammissione alla Fær Øer. Frequentare un anno di preparazione in quell'università mi avrebbe garantito una maggiore probabilità di rientrare nelle selezioni delle scuole private più costose d'Europa sborsando quattro spicci. Accettai senza indugi, in fondo credevo di essermelo meritato. Ed è lì che tutto è cominciato ad andare a rotoli".
Audrine annuì una volta soltanto, come a invogliarla ulteriormente. "Perché?"
"Perché il sedici ottobre duemilaundici ebbi una visione, una predizione ad essere precise. Ho predetto la morte di un ragazzo cieco" di riflesso, Lóreley strizzò gli occhi nel dirlo così apertamente dopo anni passati a cercare di dimenticare. Ricordare certe cose la faceva sentire un’aliena. "Un mese più tardi un avrebbe tentato il suicidio da un'altura della Baia. Quel ragazzo si chiamava… Gaël Elíasson. E io, fino a quel momento, non sapevo neanche che esistesse".
In quello stesso istante, Audrine decise e promise a sé stessa di…credere, se questo avrebbe potuto aiutarla a voltare pagina una volta per tutte.
"Le predizioni hanno radici antiche e divinatorie. Lo sapevi? In materia religiosa e soprannaturale sono un fattore comune a molte popolazioni distanti tra di loro, sia per spazio che per matrice culturale. Lo sciamanesimo ne è la prova. Siberia e Asia centrale, ad esempio. La comunicazione con l’oltre non ha limiti in questo senso, né di piani né di luoghi materiali. Riuscire a indurre a sé stessi uno stato di completa complicità con un Dio non è cosa da poco".
Lóreley sollevò il capo e la fissò per qualche interminabile istante. Poi parlò: “Non ne sono capace. Le mie predizioni sono sempre state indotte. Io non ho mai avuto alcun controllo su di esse. Non si può avere il controllo quando si ha che fare con un Dio. Il controllo è un lusso che solo le entità che sono trascese possono permettersi, non gli umani”.
“Come Bodvár?”
“Come Bodvár”.
“E che motivo avrebbe avuto Bodvár a mostrarti la morte di un ragazzo cieco?”
“Ci arriverò”.
Audrine annuì ancora.
“Cosa trattava la predizione? Potresti descriverla?”
Lóreley socchiuse le palpebre.
"C'era il..."

 

Vuoto.
Se dovessi provare a descrivere l'opprimente sensazione che mi turba, probabilmente la riassumerei in una parola vuota quanto il suo significato: nulla. Il nulla.
Nulla?
Non c'è niente, io sono niente.
Mi chiedo: sono viva? Sono reale? Lo sono mai stata? Dopo poco, realizzo. Nonostante io abbia gli occhi aperti –sono sicura di star guardando davanti a me– ad avvolgermi c'è solo un velo nero chiazzato da punti grigi.
Non riesco a pensare. Non ci riesco e non vedo.
Un attimo dopo avverto una pesantezza anomala sul petto e il respiro si accorcia.
Ho freddo.
Freddo?
Sì, freddo. Ma... sta mutando. Pian piano si tramuta in bruciore sulla pelle, si propaga come un incendio.
È passato troppo tempo.
Troppo tempo da cosa?
Cosa sto aspettando?
Attendere, aspettare
La nausea comincia a montare. Il bruciore è diventato insopportabile.
La mia gamba destra si muove in avanti, avanza senza che sia io a deciderlo. Il mio piede nudo sfiora una superficie viscida. È muschio. No, pioggia. Pioggia e terra.
Pioggia e terra…
Sono consapevole di trovarmi sull'altura della Baia di Reykjavík... ma com'è possibile? Perché? Io non sento niente, non vedo niente. Eppure lo scrosciare delle onde è così reale… sto sognando? C’è davvero la costa, sotto di me?
Non vedo niente
Non vedo niente
Nonvedoniente
L'ennesimo sbuffo di vento mi accarezza il viso, come a invitarmi a continuare a camminare. Lo faccio, devo farlo.
Non voglio - perché non mi fermo?
Il violento pompare del sangue produce un sibilo meschino nelle mie orecchie. Sembra un sussurro.
Mi ordina di saltare giù, di fondermi col mare. Di rompermi sugli scogli.
Ho la gola secca e il freddo dell'Islanda si ficca sotto la pelle. Nelle ossa, come mille spilli nella carne.
Il vuoto non c'è più.
Cadere.
Cadere
cadere
e risalire
Il vuoto è tornato.
Il nulla mi sta divorando
Mangia, strappa
Il vento mi graffia

Sto precipitando, di questo ne sono certa.

Di me resta solo acqua

 

"Lór?"
Una manciata di brividi lungo la schiena tanto forti da smorzare il respiro, dopodiché sopraggiunse lo stupore a ricordarle di dove espirare per naturale necessità. Lóreley tornò a respirare regolarmente mentre la realtà le si ricomponeva davanti gli occhi sbarrati. Nella sua testa, in quel frangente catartico e anomalo, si rincorsero le immagini e i suoni di quanto aveva appena vissuto: l'abbattersi delle onde contro la costa, l'odore della salsedine, l'acqua salina che le aveva riempito la gola una volta tuffatasi dalla scogliera.
Sono... saltata giù?
Una linea rossa, nel frattempo, già le macchiava il mento e minacciava di fare altrettanto con il colletto bianco dell'uniforme cerimoniale. Lór si premette il palmo sotto il naso appena in tempo.
Anaïs continuò a tenerla sott'occhio dallo specchietto retrovisore.
"Lór? Diavolo, mi stai ascoltando? Che hai?"
La voce di Lór risuonò nasale. "Niente, mamma... mi gocciola il naso, niente di grave. Sarà stato il solito sbalzo di pressione".
"Sangue dal naso? Di nuovo?" fece Anaïs in un sospiro, decelerando. "Fa attenzione a non macchiare la toga. Deve essere impeccabile per la tua cerimonia di entrata alla Fær Øer".
Lóreley non si azzardò a contestare, anche perché avrebbe dovuto sopportare quel ridicolo vestito d'etichetta per tutto il giorno. Perciò tentò di analizzare il sogno lucido per cercare di c almarsi. Okay, sua madre era una pessima guidatrice per natura e il pasticcio di verdure della sera precedente ancora lo ruttava a bocca chiusa, ma era comunque riuscita ad appisolarsi sui sedili posteriori nonostante l'ondeggiare del veicolo l'avesse nauseata sin dalla partenza.
Che si fosse trattato di un sogno lucido dato da un'indigestione epocale? Improbabile. Quell'esperienza non aveva niente a che vedere con i disastri culinari di Anaïs né tanto meno con le visioni che ciclicamente la disturbavano nel quotidiano, più volte al giorno.
Quei deja-vù –così aveva deciso di chiamarli, malgrado avessero poco a che vedere con questi ultimi– avevano breve durata e non volevano dire un bel niente. Era come se il suo cervello si annullasse in seguito a un sovraccarico di informazioni e un secondo più tardi tutto tornava alla normalità. Quell'ultima percezione, invece, l'aveva colpita forte come un pugno sul naso.
Perché diavolo avrebbe dovuto farsi un bagno di sola andata gettandosi dalla Baia di Reykjavík?
Improvvisamente l'entrata alla Fær Øer passò in secondo piano e la ricerca di un fazzoletto nella borsa di sua madre divenne una disperata priorità.
Perché proprio la Baia di Reykjavík? Non ci sono mai stata…
"Sono nella tasca grande. Come sempre" la riprese Anaïs. "Non nella laterale sulla sinistra, là ci sono gli assorbenti e il correttore".
Lóreley appallottolò il primo pezzo di carta che le capitò a tiro, visibilmente scocciata da quella puntigliosità, e forzò il tampone di fortuna nella narice incriminata. "Scusa, Mary Poppins".
"Farò finta di non aver sentito. Comunque, cosa stavo dicendo prima che ti addormentassi... ah! Mh. Assisterò solo alla cerimonia di entrata, dopodiché andrò via. Alle due ho una riunione con la professoressa Daníelsdóttir. Dobbiamo discutere di quel sopralluogo all'Hekla che ti ho accennato l'altro ieri".
"Quindi ritorni all'Hekla? E quanto starai via?"
"E che ne so. Forse qualche mese, non abbiamo ancora pianificato nulla. Tutta colpa di tuo zio Bjarni... ha letto il mio resoconto solo una settimana fa e ha ignorato le email in cui lo aggiornavo su un'attività vulcanica anomala. Quello è tutto tua nonna, non c'è niente da fare".
"Parli del naso degli Østergaard?" commentò Lóreley, sarcastica.
"Anche. Ma essere uno stronzo irresponsabile è senza dubbio la caratteristica peggiore degli Østergaard. Non la mia, ovviamente".
Ci risiamo…
"E se dovessi aver bisogno di qualcosa come faccio a contattarti?"
Anaïs fece spallucce. "Va’ da tua nonna, mi sembra il minimo. I dormitori dell'Istituto non sono tanto lontani dal quartiere residenziale, mi sono già informata. Se hai problemi col bucato o sei a corto di soldi non farti problemi: la pensione che ha le basta e le avanza. Sarà comunque felice se le farai visita di tanto in tanto".
Più che invito a trascorrere del tempo con nonna Danielle, Anaïs lo aveva fatto sembrare un obbligo senza libertà di obiezione. Un dovere prioritario, ecco, sapientemente mascherato dall'odio decennale che scorreva tra le due.
"Mh".
"Mh cosa?"
"Niente, pensavo".
"Pensavi? Senti, Lór, ti conosco meglio delle mie tasche e so cosa ti sta frullando per la testa. Non ho intenzione di presentarmi alla porta di quella bisbetica del cazzo con un mazzo di fiori e delle scuse trite e ritrite. Per la tua permanenza a Reykjavík avrai bisogno di qualcuno su cui poter fare affidamento, tutto qua. Anche se Danielle, come avrai potuto intuire, rientra nella mia personale categoria ultima scelta".
"Anche se l'hai insultata e mi hai caldamente suggerito di spillarle qualche soldo dalla pensione, mi hai comunque incoraggiata a farle visita. E non è da te, rettifico".
"Cosa stai insinuando?"
"Papà non ti ha più contattata per l'ultimo versamento, vero?"
Anaïs storse il muso. "No. Non ha fatto il versamento di agosto e non mi ha più chiamata" borbottò. “Discorso chiuso”.
Lóreley s'intrecciò le braccia al petto con fare stizzito. Bingo.
"Mamma".
“Ho detto: discorso chiuso”.
"Quindi hai chiesto un prestito alla nonna".
"Lóreley, chiudi quella bocca e smettila di girare il coltello nella piaga, sappi che mi sto incazzando".
“Che novità, come se tu non ti incazzassi mai quando stiamo avendo un confronto madre-figlia. Perfetto”.
“Ló-re-ley”.
"Mamma, seriamente: non puoi usarmi come pegno di pace per accontentare la nonna solo perché papà sta dall'altra parte dell'Europa e dimentica di mandarci quello stupido mantenimento".
“Lóreley, adesso basta”.
“Cazzo, mamma, un po’ d’empatia!”
“Empatia un corno e – linguaggio, porca puttana, modera i termini!”
Le guance di Lóreley avvamparono all’improvviso. “Dio santissimo, ma fai sul serio? Non è che lo dimentica, sai com’è, sta morendo!”
Anaïs sterzò senza preavviso e con una tallonata secca frenò un attimo prima di tamponare il guard rail col muso del veicolo. Lóreley adesso la fissava a bocca aperta, visibilmente sconcertata e con le mani ancorate a entrambi i sedili anteriori.
"Tu sei pazza" scandì in un filo di voce. “Cazzo se sei pazza”.
"E tu falla finita, chiaro? Queste non sono cose che ti riguardano. Qui si parla del tuo futuro e sono anni ormai che mi sto sacrificando affinché tutto vada per il meglio. Cosa sta facendo Marcel, per te? Un bel niente. Guarda cosa mi tocca fare: strisciare ai piedi di mia madre per chiederle un anticipo. Sono davvero caduta in basso" ribadì Anaïs, il tono di voce che tornava a una soglia di decibel accettabile. “E non farti fare più la predica sulle parolacce. Moderati, non hai più cinque anni”.
Lóreley inghiottì quanta più aria possibile per calmarsi intanto che l'auto tornava sulla carreggiata sgombra. Non fiatò, seppur l'idea di stracciarsi di dosso quella ridicola veste da matricola e mandarla a quel paese l'avesse allettata fin dal principio. Tacque e basta, abbandonando la testa contro il finestrino umido di pioggia. Affondò una mano nella tracolla al suo fianco e cercò tra i libri la brochure dell'Istituto. I paragrafi li conosceva a memoria, tante le volte che li aveva letti sognando ad occhi aperti, su di giri per l'ammissione che le aveva scombussolato la vita da un giorno all'altro. Adesso invece aveva solo bisogno di distrarsi: come al solito era stato impossibile parlare di Marcel, il che la diceva lunga sulle loro dinamiche familiari.
"Ti ha più chiamata?"
"Chi?"
"Tuo padre".
Lór chiuse gli occhi e si figurò il volto dell'uomo nella testa. "Mi ha chiamata lo scorso giovedì per farmi gli auguri. Per le vacanze di Pasqua vorrebbe vedermi... studio permettendo".
Anaïs si lasciò sfuggire uno sbuffo senza ribattere. Lóreley tenne gli occhi incollati alla brochure per i successivi quarantacinque minuti. Intanto che le due si godevano il tanto meritato silenzio post-litigio, l'auto finalmente imboccava la via principale che le avrebbe condotte al centro della capitale.
Proseguirono verso sud, sorpassando il boschetto che delimitava la Baia e l'area portuale. Selfoss divenne un lontano ricordo nella mente di Lór, un puntino indistinguibile in un mare di incertezze. Le campagne di Reykjavík erano decisamente più industrializzate rispetto a quelle che circondavano il suo paese natale e l'aria, pregna dell’odore di salsedine e zolfo, quasi la nauseò quandò aprì un quarto di finestrino per osservare la loro destinazione farsi sempre più vicina. Trovarono parcheggio subito parcheggio e la station wagon grigio-sporco attirò l'attenzione di un paio di universitari proprietari di BMW nuove di zecca, con addosso l'equivalente dello stipendio di Anaïs.
"Spero solo che nessuno noti le cuciture della tua toga" borbottò Anaïs, sbattendo la portiera alle sue spalle. "E guarda tu quanta cura solo per l'ingresso... se non fosse per quella borsa di studio questo corso di preparazione te lo saresti proprio sognato".
"Tu dici? Grazie, mamma" ammise Lóreley, mentre s'incamminavano lungo il viale alberato senza guardarsi indietro.
Lóreley si strattonò il colletto dell'abito bianco una volta imboccata la via del non ritorno. Aveva le mani sudate e un fastidioso pizzicore le si era propagato sotto i talloni durante la traversata a piedi. Deglutì. Sedersi e dare una controllata era fuori discussione; anche perché, a quanto pare, ci aveva già pensato l'auto di Anaïs a marchiarla col bollino di nuova arrivata sfigata. Dunque serrò i pugni e cercò di resistere, mentre si lasciava trasportare dall'atmosfera sacrale che permeava ogni angolo della sala adibita alla cerimonia.
Era incredibilmente immensa e dispendiosa, con architravi ben visibili incastonati in una volta a botte, dalla quale era stata ricavata, sul fondo, una cupola proprio sopra il suggestivo palchetto allestito per le cerimonie. Le mura laterali erano costellate da enormi vetrate gotiche che davano sul giardino interno, anch'esso incredibilmente curato e verde, nonostante le già rigide temperature di settembre. Il vetro colorato di queste ultime filtrava dei bagliori insoliti, sanguigni e freddi, artefici di spettacolari giochi di luce che si riversavano sul mattonato di gres.
Lóreley e Anaïs si unirono ai ritardatari in una marcia silenziosa. La tensione cominciava a pressarla, il senso del dovere altrettanto, e Lór non poté fare a meno di rimpiangere la lontana Selfoss. Raggiunse veloce e a testa bassa il soppalco destinato ai nuovi arrivati – erano una trentina e tutti marchiati, come lei, dell'ingombrante status quo di matricole con la toga bianca.
Rigida e spaesata, Lóreley puntò l'ultimo posto libero rimasto e si sedette cercando di non dare nell’occhio. Respirò a fondo. Solo allora, attratta da un ciack ciack piuttosto snervante, prese coraggio e si voltò verso destra. A masticare a bocca aperta era una ragazza con i capelli castani, annoiata e poco propensa alla buona educazione, come suggeriva la sua espressione scocciata e la gomma alla cannella spiattellava sotto il palato. Alla sua sinistra, invece, un'altra matricola era impaziente quanto i rimanenti novellini. Accasciata su se stessa e con le braccia strette sotto il seno, batteva il piede a terra per ingannare la tensione e l'attesa. Aveva il viso cosparso di lentiggini, le orecchie un po' sporgenti e una frangia tanto lunga da sfiorarle le ciglia rosse. Portava al collo un ciondolo al quanto insolito: si trattava di un crocifisso di notevoli dimensioni con un rubino altrettanto grande incastonato nel centro. Che fosse credente?
"Mi vuoi fissare ancora per molto?"
Lóreley interruppe il suo investigare, colta in flagrante. Un brivido caldo la costrinse a stringersi nelle spalle.
"Ahm, ecco… scusa. La tua collana – sì, la tua collana".
"Eh?"
"La tua collana con quel… ciondolo. Insomma... è davvero bello. Cioè... molto in tema con la cerimonia. Sembra di stare in una cattedrale..."
L'ultima sua prerogativa era inimicarsi qualcuno e sdrammatizzare non le era mai riuscito. Facendo un breve calcolo statistico, dunque, avrebbe fatto meglio a rimanere zitta... insomma, quanto sarebbe potuta durare in mezzo a quel branco di figli di papà?
La tipetta con i capelli rossi aggrottò la fronte, perplessa. "Sei seria?"
"... Non dovrei?"
L'altra, in maniera del tutto inaspettata, si lasciò sfuggire un risolino. "Cazzo, sei strana forte. Hai proprio dei gusti di merda, sappilo. Ma non sembri male".
"È… una buona cosa?"
"Sì, ma non troppo".
"Buono a sapersi…" mormorò Lór.
Brava, Lór. Come al solito riesci sempre a partire col piede sbagliato.
“E dimmi, tipa-che-fissa-le-persone-a-caso: come ti chiami?”
“Lóreley. Lóreley Dubois” disse, sorridendo timidamente.
“Dubois? Sei francese?”
“Per metà. Parte di padre. Brutta storia”.
“A me dispiace per la tua parte islandese, figurati”.
Che in realtà sarebbe danese…
"Io sono Gíta. Scusa la schiettezza – non mi piace essere fissata. Ma ho una buona notizia per te: hai brillantemente superato il mio test".
"Test?"
"Si vede lontano un miglio che non sei una montata del cazzo come tutti qui dentro. Il mio sesto senso non sbaglia mai".
Il volto di Gíta si era rasserenato da un momento all'altro e piccole rughe d'espressione le avevano accentuato gli angoli delle labbra donandole un'aria simpatica. Niente a che vedere con la tipa tutto pepe di qualche attimo prima.
"Oh, forte il tuo sesto senso. Se posso permettermi, come ho fatto a superare il test?"
"Non mi hai mostrato le scarpe Prada che paparino ti ha comprata nel week-end. Ti sei meritata la lode".
"Peccato che io non abbia tutti quei  soldi. Preferisco buttarmi nell'armadio con uno strato di colla addosso e sperare di uscirne illesa, o quanto meno abbinata" commentò Lór.
Gíta rise a bocca chiusa mentre un lungo applauso accompagnava una donna nella silenziosa camminata che l'avrebbe infine condotta sul palchetto adiacente. Si trattava di una signora sulla sessantina, posata e sorridente nel suo bel tailleur nero, impreziosito da una vistosa spilla gialla. Doveva trattarsi della reggente universitaria, senza ombra di dubbio: quelle accortezze poteva meritarsele solo una persona del suo calibro. O almeno così credette Lór.
La donna picchiettò l’indice sul microfono prima di lasciarsi andare a uno sproloquio di benvenuto. "Sono fiera di annunciarvi l'inizio di un nuovo anno qui alla Fær Øer. Come ben sapete, amici e colleghi, nuovi arrivati e vecchie conoscenze, oggi è un giorno importantissimo per ognuno di noi. Il nostro Istituto compie ben novantadue anni di prosperosa attività e continua ad accogliere a braccia aperte giovani e talentuose menti che in un futuro non molto lontano contribuiranno a divulgare la ricchezza del nostro paese in tutto il mondo. Vi auguro di tutto cuore il meglio e vi ringrazio per aver messo alla prova le vostre abilità... i vincitori della borsa di studio in primis" annunciò, sorridente.
Lóreley trasalì intanto che la reggente Benóný indicava il suo gruppo con un ampio gesto delle braccia. "I miei più sentiti complimenti ad Asael Asparsson, per il corso di marketing..."
Non dire il mio nome…
"A Gaukur..."
Ti prego!
"Lóreley Anaïssdóttir-Dubois..."
Lóreley e Gíta si guardarono reciprocamente nello stesso istante. "Attenta che qui ti mangiano. Lo dico per te, eh".
"Grazie per lo spassionato consiglio. Quasi rimpiango quelle maledette scarpe firmate".
La voce della Benóný coprì il suo borbottio.
"E ora, come da manuale, vorrei invitare qui accanto a me le famiglie che con il loro contributo annuale rendono questa scuola un vero paradiso dell'apprendimento".
Seguirono onorificenze a più non posso. Vennero richiamate sul palco una decina di famiglie illustri, le più importanti di tutta Reykjavík, e Lór non poté fare a meno di rimanere a bocca aperta: Gíta si allontanò dal soppalco dei novellini per ricongiungersi a sua sorella maggiore, rossa di capelli come lei. All'istante realizzò di aver avuto accanto una delle nipoti della prima donna vescovo d'Islanda, Agnes Sigurðardóttir, nonché secondogenita del pastore della capitale. Quel ciondolo a forma di crocifisso le aveva involontariamente spoilerato una serie di informazioni di portata epocale.
A disagio col mondo intero, Lóreley cercò Anaïs con gli occhi. Scrutò con attenzione ogni volto, ma la sua ricerca terminò presto: il suo sguardo si posò su un convocato sul palco. Accerchiato dai suoi familiari, il ragazzo alto che tanto la stava incuriosendo indossava un semplice completo scuro e pesantemente si trascinava accanto a una donna di mezza età. Quest'ultima lo scortava per un braccio, quasi avesse paura di perderlo tra la folla.
"Così lo consumi" intervenne la ragazza castana, quella seduta alla sua destra. "Te lo stai mangiando con gli occhi. Quel bel faccino non ti è nuovo?"
Lóreley si voltò. "Il ragazzo col completo scuro? Certo che no".
"Da che pianeta vieni, biondina? Quello è Gaël Elíasson. Suo padre è il proprietario della Baia a Est ed è uno dei maggiori finanziatori delle saliere della capitale. Non sei di Reykjavík?"
"No, sono di Selfoss" ammise Lór. "È un po' strano, tutto qua".
"Non particolarmente. Ma ha tanti soldi".
“Quasi me l’aspettavo”.
"Ci hai visto lungo, biondina, e ci avevo visto lungo anche io. Ma l'egocentrismo cronico e un bel Porsche sono un mix letale, lo sanno tutti: guarda un po' come si è ridotto".
"A dirla tutta non sembra quel tipo di persona".
"Beh, alla fine è cambiato" sospirò l’altra. "Certe cose ti cambiano eccome".
"Che intendi dire?"
"Da quando Gaël è diventato cieco non è più lo stesso. Io lo chiamo karma. Cioè, io che sono Bergljót e credo nel karma lo chiamo così. Per altri è semplice sfortuna".
È... cieco?
"E ora, amici miei, vorrei invitarvi a prendere parte a un momento di commemorazione collettiva. Da tre anni a questa parte l'Istituto rende omaggio a un'alunna, ragazza e figlia adoratissima venuta a mancare per un triste scherzo del destino: la giovane Dísella aveva talento da vendere ed era libera da ogni tipo di presunzione. Rimarrà sempre una gemma rara che continuerà a impreziosire il nome di quest'Università. Chiamo qui sul palco sua madre, la professoressa Hilda Stewart, per renderle omaggio a nome di tutta la comunità universitaria".
Dal soppalco riservato ai docenti si alzò una donna dal fisico asciutto e i capelli raccolti oltre le spalle, in uno chignon disordinato. Nascondeva il viso con un fazzoletto nero, come nero era il suo vestito e il suo lutto. Al suo passaggio decine di mani le accarezzavano la schiena per invogliarla a prendere posto accanto alla reggente.
Lóreley preferì tacere, così come chiunque all'interno della sala. Anche Bergljót aveva scelto di unirsi alla commemorazione della defunta. Non prima di aver appiccicato la gomma da masticare tra i capelli della prima sfortunata che le era capitata sotto mano.
Hilda si avvicinò al microfono del seggio e la sua voce tremolante si propagò per l’intera sala. "Grazie, davvero, grazie per quest'accortezza nei miei confronti. Ma vorrei che mia figlia Dísella venisse ricordata con un sorriso e non con un minuto di silenzio. Sapere che vive ancora nel cuore di questa scuola mi riempie di gioia, sul serio. Sarebbe felice di sapere che il suo talento e la sua bravura non verranno mai dimenticati".
Lóreley si unì all'applauso d'incoraggiamento e tornò a guardare Gaël. Ben presto lo scrosciare delle mani si tramutò in ben altro: acqua. Acqua contro la costa e sotto i piedi, attorno al corpo non più tiepido, giù per la gola.
Poi solo l'odore di salsedine e la voglia di sapere.



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