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Autore: The Writer Of The Stars    18/01/2024    1 recensioni
"Kakashi piangeva dentro di sé ogni giorno mentre fissava la fotografia del suo team appesa al muro, il volto impassibile e gli occhi spenti. Sopravviveva, comunque. Stringeva i denti e andava avanti, cresceva e diventava un uomo tormentato da fantasmi a cui ormai non pregava più nemmeno di lasciarlo in pace. Li avrebbe sopportati per tutta la vita. Quel filo sottile come seta serica su cui aveva imparato a barcollare negli anni si era spezzato all’improvviso nella notte dei suoi ventisette anni."
Kakashi centric!
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kakashi Hatake, Rin Nohara
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Naruto prima serie
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“Aspettami!”
L’aria della stanza è irrespirabile o, meglio, non vuole farsi respirare. Sfugge alle labbra secche di Kakashi che reclamano acqua, i polmoni sono così stremati che si contraggono ed espandono a una velocità spasmodica.

Neanche durante le missioni peggiori della sua vita si era mai ritrovato a respirare così.
È buio pesto, Kakashi ipotizza siano circa le tre di notte. Una stilettata glaciale gli trapassa la schiena madida di sudore mentre si scosta le coperte umide di dosso: da quando febbraio era un mese così torrido? Lancia un’occhiata stanca al fascio di luce biancastra che penetra debolmente dalla finestra, inspira forte fiutando l’aria come un segugio: eppure fuori sta nevicando. Deglutisce un groppo amaro come fiele e la gola arsa che brucia è un fuoco in inverno: aveva urlato così forte da spaventare finanche i cani feroci in strada. Kakashi si strofina il volto – la cicatrice – con una violenza inquieta, sembra sul punto di scarnificarsi vivo ma non ne ha il coraggio. Quella ferita rimarginata solo superficialmente lo sta divorando da settimane.
 
*

La prima volta li aveva visti la notte del suo ventisettesimo compleanno; erano dolceamari come le mandorle, e delle mandorle avevano anche il medesimo colore nell’iride screziata. Le pupille no, quelle non ricordavano nessuno dei frutti più dolci a cui avrebbe potuto pensare; erano due buchi neri, l’epicentro cosmico da cui doveva aver avuto genesi l’intero universo. Buie, immense, vive. Lo sterno si era contratto e ripiegato su se stesso, stritolandogli il cuore. Non vedeva gli occhi di Rin da quindici anni. La fotografia del giorno della loro promozione in chunin lo fissava vestirsi ogni mattina e spogliarsi stremato ogni sera dalla parete vicino all’ armadio: Obito lo guardava sempre con un broncio offeso, Minato gli faceva un occhiolino paterno che riusciva a scaldargli il cuore in un battito di ciglia, il se stesso di dodici anni gli restituiva il medesimo sguardo catatonico e sofferente con cui continuava a guardare il mondo ancora oggi: nell’angolo sinistro dell’iride destra poteva ancora vedere il riflesso del cadavere di suo padre. Rin sorrideva così tanto che le palpebre le si erano serrate per assecondare quell’espressione così solare e calda - così sua - e Kakashi aveva ringraziato mille volte quel suo entusiasmo esagerato, perché almeno gli aveva risparmiato un’ulteriore coltellata al suo supplizio quotidiano. L’ultima volta che aveva visto gli occhi di Rin erano colmi di lacrime, grondavano così tante stille salate che avrebbero potuto dissetare un viandante nel deserto e Kakashi le stava trapassando lo sterno minuto con il suo Chidori. Il suo cuore di ragazzino si era frantumato in quel momento, perché lì non doveva esserci Rin, perché non era quello il suo posto e il suo momento, perché non doveva morire, non poteva morire tra le sue mani, per colpa delle sue mani stesse. La retina dell’occhio destro di Kakashi si era iniettata di sangue e disperazione; quelle di Rin si erano nascoste a metà tra la piega delle palpebre che si abbassavano di qualche centimetro. Ogni volta in cui sorrideva i suoi occhi si chiudevano in una ruga d’espressione dolce come il miele di cui era golosa. Stava piangendo per il dolore fisico, per la consapevolezza di essersi appena sacrificata, per il dispiacere di aver costretto il ragazzo che amava certo più di chiunque altro a sporcarsi le mani con il suo sangue, a portare quel macigno pregno delle sue viscere per tutta la vita. Ma gli stava anche sorridendo; per un istante breve come la sua stessa vita gli aveva sorriso, perché non conosceva altro modo di abbracciare le persone se non così. Il dolore lancinante della ferita era poi giunto immediato e atroce e con esso il sorriso di Rin si era volatilizzato dalle sue labbra.
“Ka- Kakashi…” aveva singhiozzato in un rantolo strozzato. Poi si era accasciata a terra e Kakashi non aveva mai più rivisto i suoi occhi.

In quei quindici anni aveva trovato un equilibrio che definire sano sarebbe stato da ipocriti: Kakashi piangeva dentro di sé ogni giorno mentre fissava la fotografia del suo team appesa al muro, il volto impassibile e gli occhi spenti. Sopravviveva, comunque. Stringeva i denti e andava avanti, cresceva e diventava un uomo tormentato da fantasmi a cui ormai non pregava più nemmeno di lasciarlo in pace. Li avrebbe sopportati per tutta la vita. Quel filo sottile come seta serica su cui aveva imparato a barcollare negli anni si era spezzato all’improvviso nella notte dei suoi ventisette anni. Gli occhi di Rin, quelle iridi che aveva obliato dalla sua memoria come un malato meccanismo di difesa post traumatico, gli mancavano da morire ma al tempo stesso era grato che il suo inconscio gli stesse risparmiando almeno quel dolore indicibile. Ma quella notte il suo inconscio si era ribellato. Gli occhi di Rin gli erano divampati nel sonno con un’irruenza ferina, disperata, violentissima. Lo fissavano nella loro immensità e nella loro incapacità di dirgli qualcosa, qualsiasi cosa, che lo avrebbe potuto distogliere da quella visione lacerante. Rin non parlava, lo guardava con iridi obnubilate di lacrime e tristezza, non reagiva mentre Kakashi tentava di afferrarla con le dita tremanti, mentre urlava il suo nome, la implorava di parlargli, le chiedeva scusa ancora e ancora e ancora. Si era svegliato all’improvviso, come colpito da una frusta infuocata: ansimava e quel cuore che si stava a fatica tenendo insieme con un misero filo di necessaria e abulica sopravvivenza, quello stesso cuore ora era tornato a pezzi.

Da quella sera aveva sognato gli occhi di Rin ogni singola notte. A volte piangevano, erano gli occhi della Rin che gli moriva tra le braccia e sussurrava il suo nome tra i fiotti di sangue che le ostruivano la trachea. Altre volte erano chiusi e piegati verso l’alto, sostenuti dagli zigomi alzati e tirati in su per uno dei suoi sorrisi, erano gli occhi della Rin che rideva e lo salutava felice ogni mattina prima dei loro allenamenti con Minato. Kakashi ormai attendeva il calar del sole per poter vedere le sue iridi mandorlate, bramava le coperte ruvide del letto sempre sfatto solo perché aspettava il sorriso o le lacrime di Rin che gli avrebbero carezzato il cuore mentre lo tagliavano a pezzetti, tutto insieme, perché non era pioggia o sole, tempesta o primavera: Rin nei suoi sogni tormentati era tutto ciò che aveva perso e rimpiangeva ogni giorno, ciò che gli mancava da morire ma che aveva fatto lui stesso a pezzi.

Quella sera era andata diversamente. Rin gli aveva sorriso, ma aveva due stille salate incastrate agli angoli degli occhi, tra la cavità oculare e gli zigomi. Kakashi aveva inscenato il suo ormai conclamato rito: stringeva i denti, ascoltava il proprio respiro strozzato, protendeva le braccia verso Rin e le chiedeva perdono. E Rin non aveva mai risposto a quei suoi gesti, si era sempre limitata a fissarlo e a sparire poco dopo e Kakashi non si aspettava più nulla di diverso. Ma quella sera Rin aveva risposto. Le piccole mani fredde come stalattiti avevano afferrato quelle ruvide e piene di calli, causati dai kunai, di Kakashi. Aveva guardato il volto confuso e sconvolto del giovane uomo che la sovrastava di almeno venti centimetri.

“Sapevo che saresti diventato alto.” Gli aveva sussurrato con la dolcezza di una madre che riabbraccia il proprio figlio dopo una separazione durata troppo a lungo. Kakashi aveva deglutito, le pupille dilatate all’inverosimile.

“Rin…” aveva mormorato con un brivido. Da quando una realtà onirica aveva una consistenza così tangibile?
Rin gli sorrise ancora, c’era tristezza nella piega assunta dal suo arco di cupido ma le labbra rosa pesca parlavano solo di amore e con amore.

“Non è stata colpa tua.” Gli sussurrò in un sibilo e, gettando fuori quelle cinque parole, stava liberando Kakashi dal macigno insostenibile che gli gravava sulle spalle da quindici anni. Il giovane di fronte a lei stava per ribattere, ma la dodicenne che sarebbe rimasta sempre tale lo anticipò con prontezza.

“Puoi lasciarmi andare, Kakashi.” Soffiò fuori la sua benedizione mentre la mano destra era corsa a carezzare la cicatrice sul volto del suo vecchio compagno di squadra. Gli sorrise ancora, il pollice che solcava le profonde occhiaie dell’uomo. Da quanto tempo non dormiva davvero? Perché Rin lo sapeva che non erano stati i suoi occhi a togliere il sonno a Kakashi. Lo sapeva che da quindici anni non si dava pace e trascorreva le sue notti interminabili tra i fantasmi della sua vita: suo padre, Obito, Minato, lei stessa. Lo sapeva che Kakashi rivedeva il suo sangue che gli macchiava le dita ruvide ogni volta in cui si guardava le mani sotto la doccia, durante le missioni, quando carezzava la foto del loro team appesa al muro. Lo sapeva che Kakashi non riusciva a vivere più; Rin voleva continuare a vivere in lui, nei suoi ricordi, nel suo spirito, ma quello era tirare avanti per il rotto della cuffia e Kakashi doveva sapere da lei stessa che meritava ben più della mera sopravvivenza; meritava il suo perdono e meritava anche di perdonare se stesso.
Kakashi percepì la presa di Rin allentarsi sempre più tra le sue mani, le dita che gli carezzavano la cicatrice divennero fredde come il vento di quella notte e poi sparirono insieme al volto, al sorriso, agli occhi di Rin, a Rin.

“Rin, aspetta!” urlò gettandosi nel vuoto che lo circondava in quella dimensione oltre l’etere.
 
*

“Aspettami!” aveva gridato e aperto gli occhi di colpo. Ora Kakashi è lì, di fronte al vetro sporco della finestra, un cinema muto attraverso cui spia il suo riflesso esausto e la neve cadere incessante dal cielo. Guarda la sveglia: sono davvero le tre del mattino. Sa che la mattina successiva dovrà alzarsi molto presto perché l’incontro con la sua nuova squadra di allievi in Accademia è fissato per un orario decisamente disumano per una creatura notturna come lui. Ma il sogno di Rin lo ha prosciugato. La voce delicata della ragazza gli rimbomba nei timpani mentre si alza dal materasso – era dolce e calda, con un tono pacato, proprio come la ricordava – e si avvicina alla finestra. Afferra la maniglia, sospira col cuore pesante mentre apre i battenti. Il vento catabatico di febbraio gli sferza il volto con uno schiaffo gelido; le sue orecchie intiepidiscono alla voce che le carezza:
“Puoi lasciarmi andare, Kakashi.”
***
Non aveva mai visto lo smeraldo incastonarsi in un viso di porcellana, sopra due gote arrossate e velate da un paio di ciocche di capelli rosati. Di occhi neri ne aveva incontrati centinaia in tutta la sua vita, ma mai, mai aveva trovato due iridi così tumultuose, colme fino all’umor aqueo di dolore, affamate d’amore con una disperazione lancinante e celata sotto una fronte corrugata, troppo seria per un ragazzino di dodici anni: non erano stati forse così anche i suoi, di occhi? La nevicata della notte prima sembrava essere stata un miraggio di fronte a quel cielo limpido e azzurro come l’acqua di una sorgente. Kakashi abbassa lo sguardo dalle rade nuvole che macchiano ogni tanto la tavolozza cerula e rivede quello stesso cielo in due iridi enormi, furbe e bambinesche ma sincere, pure, limpide e vive come solo quelle di un dodicenne che desidera diventare Hokage un giorno possono essere.
Sakura, Sasuke, Naruto. Kakashi memorizza i loro nomi e le loro iridi nello stesso identico momento.

“Puoi lasciarmi andare, Kakashi”.
 Da quella notte, forse, ci saranno altri occhi ad accompagnarlo in un sonno finalmente un po’ più sereno.
   
 
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