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Autore: Orso Scrive    01/02/2024    2 recensioni
Durante la torrida estate del 2022, la Toscana è sconvolta da alcuni misteriosi e brutali omicidi. Omicidi che vedono, come vittime, tombaroli sorpresi a scavare all’interno di antiche sepolture etrusche.
Per questo motivo, il tenente Manfredi e il sottotenente Bresciani vengono inviati a San Gimignano, in provincia di Siena, nel cuore dell’antica Etruria, per indagare sugli strani avvenimenti.
Riusciranno Alberto e Aurora a fare luce su questo nuovo caso, che affonda le sue radici ai tempi della guerra tra Roma e gli Etruschi, e forse a tempi ancora più remoti?
Genere: Horror, Mistero, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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- Questa storia fa parte della serie 'A&A - STRANE INDAGINI'
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per Aurora,
grazie per la tua amicizia così preziosa


 

Prologo

 

 

 

 

Toscana, Italia, maggio 2022

 

 

 

Una civetta lasciò fuggire il suo acuto stridio attraverso l’oscurità. Tra i rami folti e intrecciati delle querce e dei faggi, simili a braccia robuste e contorte, rispose il canto triste e melodioso di un usignolo. Da qualche parte, dai margini di uno stagno paludoso celato tra le sterpaglie, un coro di raganelle si levò a fare da contrappunto a quei richiami.

Non un solo altro suono ruppe la quiete della vallata boscosa, tinteggiata di un nero impenetrabile. Persino le nuvole, nascondendo con le loro forme oblunghe e sfilacciate la luna e le stelle, sembravano complottare perché tutto rimanesse segreto e misterioso in quella notte di tarda primavera, che già cominciava a profumare d’estate.

Uno scricchiolio improvviso e il secco rumore di alcuni rami spezzati annunciarono l’arrivo dei due uomini.

Picconi e badili in spalla, vecchi zaini Invicta – scoloriti ma sempre funzionali – sulla schiena, il primo si inerpicò lungo il pendio con l’abilità di uno stambecco, mettendo in fretta uno avanti all’altro i piedi abituati a calcare i terreni più insidiosi e aspri. Il secondo, molto meno abituato di lui ad avanzare nel buio e su superfici disagevoli come quella, cercò in ogni maniera di mantenere il suo passo, rischiando più volte di compiere un ruzzolone; il suo respiro era affannato e stanco. Camminavano veloci, muovendosi nella notte come fantasmi. Di quando in quando, per soltanto pochi istanti, dalle mani del primo balenava il fascio di luce di una torcia per ritrovare la strada, dopodiché riprendeva la marcia con sicurezza, seguito dal compagno.

«Da questa parte», bisbigliò all’improvviso quello che sembrava il più esperto dei due, cambiando direzione.

Cominciarono a discendere lungo il breve declivio, fino a raggiungere di nuovo il piano. Il suolo, cosparso di ghiaia in mezzo a cui crescevano erbe selvatiche che spandevano le loro essenze a ogni minimo tocco, crocchiava con discrezione a ogni passo. Il profumo intenso della nepitella sembrava quasi accompagnare le due figure verso la loro meta.

Senza parlare, si incamminarono in direzione sud per alcune decine di metri. A tratti, erano costretti a deviare per evitare il tronco di qualche quercia che affondava le spesse radici nel terreno duro e compatto. Gli alberi secolari davano l’impressione di giganti neri e immensi posti a guardia di quel luogo sacro, per tenerne lontani i profanatori. Sembravano lanciare un silenzioso avvertimento: non si doveva violare e oltraggiare quei paraggi. Ma i due non badarono in alcun modo a quei muti e silenti guardiani, e non rallentarono nemmeno per un istante la propria andatura.

A un cenno dell’uomo che doveva conoscere bene la strada, svoltarono verso una stretta e tetra fenditura che si apriva tra due colli parecchio elevati; si trovavano tanto ravvicinati l’uno rispetto all’altro che, senza sapere dove andare, nell’oscurità sarebbe stato impossibile individuare quel malagevole passaggio.

Era un’umida strettoia, irta di cespugli e cosparsa di erbe alte. L’odore pungente del muschio che avvolgeva le rocce in ampie spire annunciava che, anche durante il giorno, persino la luce faticava a giungere fino a lì, ostacolata dai grossi macigni accumulati ovunque e dalle chiome selvagge degli alberi che crescevano sulla sommità dei due lati della gola.

A prima vista, si sarebbe potuta scambiare per una fenditura naturale; ma era sufficiente uno sguardo un poco più attento per comprendere che si trattava invece di un’opera umana, una cosiddetta via cava. Un’enigmatica opera antica, una delle tante che solcano come arterie le pareti montuose dell’Italia centrale.

Qua e là, nella roccia tufacea sapientemente lavorata in epoche remote, si aprivano cupi portali, ingressi di tombe violate da lungo tempo, che sembravano bocche spalancate pronte a vomitare tetri spettri di un mondo tramontato, decisi a impedire l’ennesima profanazione di quella necropoli.

Senza esitare, del tutto immune alla suggestione che avrebbe impressionato chiunque altro, l’uomo che conosceva la strada seguì quella via senza nemmeno guardarsi attorno. Il compagno, al contrario, lanciò occhiate preoccupate e timorose a quei neri sepolcri. Fu solo un’impressione, un parto della sua mente eccitata, eppure gli parve davvero di udire sussurri indefiniti in una lingua inintelligibile. Con un profondo sospiro, cercò di calmarsi dicendosi che era soltanto un effetto del vento che si insinuava tra le fessure della roccia, creando giochi sonori che la sua fantasia sovreccitata trasformava in cose che non esistevano.

Dopo alcuni minuti di difficile cammino, incespicando più volte sul terreno accidentato e costretti in varie occasioni ad aggirare mucchi di terra e di pietrame – cumuli disordinati, ricordo dei ladri che a lungo avevano visitato quei paraggi – si fermarono dinnanzi a un sepolcro.

La porta di questa tomba, al contrario delle altre, era ancora ostruita da grossi blocchi di tufo squadrati, screziati di licheni. Felci e altre essenze arboree spuntavano dalle fessure che, con l’andare dei secoli, si erano create nel mezzo della pietra sbriciolata. Piante reali che si sommavano a quelle finte, di decoro, scolpite nella roccia.

«Ci siamo», disse Marco Innocenti, sfilandosi lo zaino dalle spalle e lasciandolo cadere in terra. «Ora fai tutto quello che faccio io e, tra lo scavo e tutto il resto, ce la sbrigheremo in un paio d’ore o giù di lì. Quando entriamo, punta la torcia di qua e di là e bada alle robe che luccicano di più. Il resto, se avanza tempo, ce lo intascheremo per ultimo. Ci avanzerà anche il tempo per raccattare una qualche baldracca lungo la strada.»

Impugnò il piccone e, con forza, colpì la pietra che chiudeva l’ingresso dell’antica tomba.

Il suo compagno, Vittorio Gori, dopo un istante di esitazione, fece come gli era stato detto, mettendosi con sollecitudine al lavoro.

Bastarono soltanto pochi minuti di picconate vigorose perché i blocchi si sbriciolassero. Il tufo, che aveva riposato indisturbato per interi millenni, testimone immemore del passaggio di eserciti e di disastri, di epoche e di mondi, crollò in frantumi polverosi sul terreno accidentato. Gli scarponi dalla suola a carrarmato dei due tombaroli lo calpestarono senza alcun riguardo.

Non appena le pietre furono abbattute, entrambi cominciarono a darsi da fare con le mani per rimuovere gli ultimi ostacoli che chiudevano l’antica sepoltura. Senza nessuna cura, rimossero una per una tutte le pietre, gettandole di lato in un mucchio scomposto, che si andò ad aggiungere ai tanti già prodotti dai saccheggiatori nel corso dei decenni. Poi, afferrati i badili, rimossero il terriccio compatto che aveva ostruito l’ingresso, lanciandoselo dietro le spalle con fare forsennato, frettolosi di aprire una breccia.

Più si avvicinava il momento di posare i loro occhi sul contenuto della tomba e più l’euforia li invadeva. Il miraggio dell’oro cancellava la stanchezza e li spingeva ad aumentare la velocità dei loro movimenti e la forza che impiegavano in ciascun colpo di pala.

Per Innocenti, seppure vecchio del mestiere, l’emozione di mettere le mani su un autentico tesoro intatto non era mai scomparsa; e per Gori, al suo primo scavo, i timori che lo avevano accompagnato si erano del tutto dissipati, cedendo il posto a una sincera curiosità di imbattersi in qualcosa di mai visto prima.

Ormai, le precauzioni che avevano adottato per giungere fino a lì erano soltanto un ricordo, e lavoravano senza badare al rumore che stavano provocando.

D’altra parte, erano certi che, oltre a loro e a qualche uccello notturno, nella vallata boscosa non ci fosse nessuno. Inoltre, il casolare più vicino era di proprietà del Guccio Cinghiale. A quell’uomo selvatico e scontroso bastava intascare un piccolo compenso, e i suoi occhi e le sue orecchie diventavano ciechi e sordi ogni volta che da quelle parti si avventurava un tombarolo diretto alla Fossetta. Guccio si riteneva il vero proprietario di quella via cava sconosciuta agli archeologici della soprintendenza; e come tale si comportava, esigendo un compenso da chi voleva scavarci dentro. Chi cercava di fregarlo, finiva sempre molto male, perché con Guccio Cinghiale non la si passava liscia. Ma i soldi che chiedeva erano pochi, e i tombaroli pagavano sempre volentieri quella piccola tassa, per poter scavare in un sito ancora ricchissimo come la Fossetta.

Tutto stava andando a meraviglia. Potevano quasi sentire l’odore dei tesori su cui molto presto avrebbero allungato le loro mani…

Un lungo verso acuto e gracchiante, simile all’urlo di un’anima dannata, attraversò d’improvviso l’aria.

I due profanatori si bloccarono con i badili ancora sollevati, raggelati da quel suono inatteso e sconosciuto. Si scambiarono uno sguardo; quello del più giovane apparve alquanto nervoso.

«Che cos’è stato?» balbettò Gori, impallidendo.

«Che vuoi che sia stato?!» sbottò Innocenti, guardandolo di sbieco. «Sarà qualche animalaccio selvatico, no? Un cinghiale, magari. Se si avvicina troppo, gli tiro una bella botta in testa, poi lo carico nel baule della macchina e la settimana prossima me lo mangio con le pappardelle, così impara a farsi i fatti suoi!»

Gori scosse il capo.

«Quello non era il verso di un cinghiale», borbottò. «Non lo era affatto…»

«Allora sarà Guccio che si tromba una baldracca!» eruppe Innocenti, riprendendo a scavare. «Forza, muoviamoci, non possiamo mica restare qui tutta la notte! Dobbiamo finire di aprire questa tomba, svuotarla e portare tutto in macchina prima che arrivi l’alba. Altrimenti, ci toccherà fare gli straordinari e tornare domani notte, e questo vuol dire dover pagare di nuovo il Guccio, perché con quello non si scherza mica e guai a provare a fregarlo, è capace di aizzarci contro i suoi dannatissimi animali da compagnia.»

Ma il compagno restò immobile, continuando a lanciare occhiate circospette in tutte le direzioni. Sul suo volto si leggeva la paura. Una paura amplificata dal pensiero, tutto a un tratto tornato imperante, di essere intenti a profanare una necropoli.

«Mio cugino ha un allevamento di cinghiali, vicino a San Gimignano», mormorò. «E ti assicuro che…»

Il raccapricciante grido si ripeté, più lungo e forte di prima. Questa volta fu talmente vicino che tutti e due sobbalzarono per lo sconcerto.

«Maledetta bestiaccia…!» imprecò Innocenti, voltandosi e tenendo alta la pala, pronto a colpire qualsiasi cosa fosse sopraggiunta. Nonostante facesse mostra di coraggio, non poté evitare di pensare alla pelle d’oca che gli aveva solcato le braccia.

I due uomini restarono in silenzio, i sensi all’erta, pronti a fronteggiare un attacco improvviso. Non accadde nulla. Tutto rimase immobile e quieto. Non una foglia si mosse nell’oscurità. Persino il vento che, prima, aveva soffiato nella gola, sembrava essersi posato.

«Questa cosa non mi piace…» sussurrò Gori, saettando in ogni direzione gli occhi irrequieti. «Non mi piace per niente… forse faremmo meglio ad andarcene…»

Innocenti, del tutto dimentico del ringhio, si girò di scatto a guardarlo, con gli occhi sgranati.

«Sei impazzito?!» quasi urlò. «Abbiamo l’opportunità di svuotare una tomba intatta e tu mi vieni a parlare di tagliare la corda?! Abbandonare ogni cosa e rimetterci pure i soldi che abbiamo dato a Guccio?! Tutto per uno stupido salame con le zanne?! Ma tu sei scemo!»

«Ti ripeto che non si tratta di un cinghiale…» disse Gori, con la voce che adesso tremava per la paura.

«Sarà un lupo, allora!» brontolò Innocenti, volgendosi di nuovo alla tomba. Diede un colpo di badile al terriccio, adesso diventato friabile. «Da quando ai forestali gli è saltato il ticchio di reinserirle in natura, quelle bestiacce sono dappertutto. Comunque, niente che non si possa tenere a bada con una buona bastonata e…»

Alcuni sassi sdrucciolarono poco lontano. Questa volta la provenienza del rumore fu percepita chiaramente dai due uomini, che si affrettarono a guardare in quella direzione. Il buio, denso come pece, impedì loro di scorgere che cosa fosse stato a smuoverli.

«Io… io penso che…» balbettò Gori, sempre più spaventato.

«Oh, basta!» urlò Innocenti. «Vado a dare una lezione a quel seccatore, così la pianti una volta per tutte di fare il fifone e possiamo finire il lavoro in santa pace!» Il suo spirito toscano esplose con forza dirompente. «Guarda te se doveva ‘apitarmi tra i piedi un ‘aòne, maremma cinghiala! Qui c’è da diventare ricchi e lui si mette a frignare ‘ome una donnetta…»

Detto questo, lasciò andare il badile e si riappropriò del piccone. Lo impugnò con entrambe le mani a mo’ di randello e si affrettò ad avvicinarsi alla fonte del rumore, camminando a passo rapido e con sicurezza. Paralizzato dalla paura che lo aveva invaso a ondate, Gori restò dove si trovava, guardandolo allontanarsi.

Innocenti divenne una sagoma indefinita nella notte, fino a esserne risucchiato del tutto. Soltanto il suono dei suoi passi pesanti continuò a segnare la sua presenza nel mondo.

Gori si scoprì a tremare senza ritegno.

Non gli piaceva stare lì.

Tutto in un momento, si sentì in balia di qualcosa di terribile e spaventoso. La solitudine lo avvolse come un manto ghiacciato, facendolo rabbrividire. Un rivolo di sudore gelido gli scivolò lungo la schiena, provocandogli ancora maggiori brividi.

Non era un tombarolo di professione e nemmeno per passione. Non sapeva nulla di tombe, di Etruschi e di vita animale notturna tra i boschi e i colli della Toscana. La sola esperienza che avesse con faccende come quella era tutta legata ai documentari che aveva visto qualche volta alla televisione, nei suoi sabati sera caserecci. Era stato coinvolto in quella faccenda per una semplice casualità e controvoglia, e tutto perché il solito compagno di Innocenti si era fatto male a una gamba e non aveva potuto accompagnarlo alla Fossetta.

Voleva soltanto tornarsene a casa sua, infilarsi a letto e dimenticarsi per sempre di quella gola paurosa, che odorava di morte.

Ma non era a casa sua.

Era lì, nell’oscurità, paralizzato dal terrore.

Sentiva che qualcosa non andava.

Non andava per niente per il verso giusto.

Una sensazione che cresceva e si faceva più forte di momento in momento. Scoprì quasi subito che cosa fosse a spaventarlo tanto.

I passi.

I passi di Innocenti non si sentivano più.

Anche i versi degli uccelli notturni, il ronzio degli insetti, il semplice frusciare di foglie ed erba, tutto quanto era scomparso.

Nulla più.

Adesso era tutto silenzio, come se ogni traccia di suono fosse stata cancellata dal mondo. Non aveva mai udito in vita sua qualcosa di tanto innaturale come quella calma, che non ispirava alcuna tranquillità; al contrario, riempiva di puro sgomento.

Metteva i brividi.

«Tro… trovato l’animale?!» riuscì a gridare.

La sua voce stridula echeggiò contro le strette pareti della via cava. Il riverbero strano e innaturale lo fece sussultare. A rispondergli fu di nuovo il silenzio più assoluto. Sembrava proprio che Innocenti fosse stato all’improvviso inghiottito dalla notte e, insieme a lui, qualsiasi altro essere vivente.

Gori deglutì a stento.

Non poteva rimanere lì immobile.

Doveva prendere il coraggio in mano e andare a vedere dove fosse finito il compagno.

«Marco?»

La sua voce parve un sibilo acuto. Strinse le mani sudate attorno al manico del badile, pronto a difendersi. Non sapeva nemmeno lui da che cosa. Sapeva soltanto che, lì davanti, era in agguato una minaccia.

Qualcosa di terribile.

«Marco?!» chiamò ancora. Se si trattava di uno scherzo, quel maledetto glielo stava giocando davvero bene.

Fece l’atto di muovere una gamba, cercando di avviarsi.

Un nuovo ringhio lo paralizzò.

Questa volta era vicinissimo, soltanto pochi metri alla sua sinistra. Un ringhio lacerante che non poteva appartenere davvero a un animale. Si voltò di scatto, con gli occhi che luccicavano per il terrore.

Guardò, cercando di scorgere qualcosa.

Non vide nulla.

Se si trattava di una goliardata, o magari un qualche tipo di vecchio cerimoniale, una specie di rituale di iniziazione per la sua prima notte da profanatore di tombe, non era affatto divertente. Quando aveva accettato di accompagnare Innocenti, nessuno gli aveva accennato al fatto che avrebbe rischiato di morire di spavento, andando da quelle parti nelle ore notturne.

Pietre smosse e uno scalpiccio di passi lo raggiunsero alle spalle.

Si girò con il badile sollevato, pronto a difendersi.

Sudore freddo gli imperlò la fronte e gli scese lungo le guance, dentro il colletto della maglietta. Altri rivoletti gelati gli scesero dalle ascelle lungo i fianchi.

A venirgli incontro di corsa fu Innocenti. Il suo volto era segnato da una smorfia di terrore. Era bianco e solcato da chiazza bluastre come se qualcuno – o qualcosa – lo avesse terrorizzato fin quasi a morte.

«Scappa…!» ansimò il tombarolo, superandolo senza fermarsi. «Scappa…!»

Le gambe pesanti di Gori parvero rianimarsi all’improvviso. Non aveva idea di che cosa stesse succedendo, ma sapeva di dover obbedire a quel comando. Era certo di doverlo fare, perché il contrario avrebbe significato morire. Non sapeva da dove gli provenisse questa certezza.

Ce l’aveva e basta.

E tanto gli bastava per sapere di dover obbedire a quell’istinto di sopravvivenza.

Cominciò a correre alle spalle di Innocenti, ma quasi subito inciampò in qualcosa e cadde riverso al suolo, battendo duramente il viso e spaccandosi il naso. Il dolore acuto gli tolse il fiato, mentre il sangue schizzava ovunque, finendogli negli occhi.

Non seppe mai che cosa lo avesse fatto crollare in quella maniera. Una radice sporgente, oppure una pietra. Forse uno dei loro zaini rimasti abbandonati.

Non aveva importanza.

Non avrebbe mai avuto importanza.

Si girò sulla schiena, cercando di rimettersi in piedi.

Non ci riuscì.

Un’ombra cupa torreggiava su di lui. L’ombra di un mostro vomitato fuori dall’inferno, armato con qualcosa che sembrava una lunga falce, ricurva e affilata. Un ringhio sordo, basso e profondo, inumano, accompagnava quell’apparizione raccapricciante.

«Scappa!» udì risuonare ancora la voce di Innocenti, fioca e lontana, pazza di terrore. «Scappa! È Charun!»

Vittorio Gori cercò di indietreggiare, trascinandosi sui gomiti. Aveva dolori dappertutto a causa della caduta. Il sangue caldo gli stava colando in bocca, ora fattasi aspra e ferrosa. Secca per il panico che, ormai, lo aveva immobilizzato. Eppure, anche in quel momento, la sua mente fu capace di compiere un ragionamento. Innocenti aveva urlato un nome, che però lui non aveva compreso. Meccanicamente, stava cercando di collegare quello strano nome a qualcosa.

A qualsiasi cosa.

L’ombra del mostro sollevò la sua falce. La luna, uscendo da dietro una nube, fece piovere uno dei suoi raggi lucenti e lattiginosi fino all’interno della gola rocciosa. La sagoma mostruosa venne illuminata per un istante.

Agli occhi di Gori, si rivelarono le fattezze raccapriccianti di un essere barbuto, con un becco d’avvoltoio al posto del naso e lunghe orecchie drizzate verso il cielo. Dalla sua bocca spalancata e irta di denti gialli e aguzzi sfuggì un’altra volta quel ringhio disumano e terribile.

«Charun!» gridò ancora, lontana da qualche parte nella notte fitta e impenetrabile, la voce sgomenta di Innocenti.

La nuvola tornò a coprire la luna, facendo scomparire l’apparizione infernale. Soltanto la lama della falce rimase visibile, quasi brillasse di luce propria.

Gori finalmente urlò.

Poi un tonfo e di nuovo il silenzio.

La civetta invisibile tra le fronde stridette contro il cielo velato.


 
   
 
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