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Autore: crazy lion    20/03/2024    0 recensioni
Sequel di Nient'altro che un sogno. Non è necessario leggere la storia precedente per capire questa.
Ho fatto un altro sogno, qualche giorno fa, e ho deciso di raccontarlo. In
Sono passati due anni da quando Tarzan è nato e mi ha cambiato la vita per sempre. Il mio bambino è cresciuto e il nostro legame è sempre più forte. Io ero non vedente, come nel sogno che avevo fatto mesi fa. Ed è vero, lo sono. Il mio nome non è quello reale. In questa fanfiction racconto uno spaccato di vita quotidiana fra me e lui, tra una mamma e un figlio tanto desiderato quanto amato.
Ci tengo a mettere in chiaro che il fatto che io, nella mia mente, fossi sua madre non significa che voglia mancare di rispetto ai suoi veri genitori.
Disclaimer: il personaggio di Tarzan non mi appartiene, ma è proprietà della Disney. La fanfiction non è a scopo di lucro.
Genere: Fluff, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio, Tarzan
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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LA LUCE DEL MIO SOGNO
 
Stanotte non riuscivo ad addormentarmi. Ho passato ore a girarmi e rigirarmi nel letto, senza mai trovare un attimo di pace. Non posso dire i motivi per i quali ero e sono tanto turbata, sono troppo personali, ma comunque non è stata una notte facile. Mi sono alzata e, dopo aver fatto colazione, ho deciso di ritornare a letto. Ho dormito tre ore. Non molte, ma ci sono abituata. Soffro d’insonnia. A ogni modo, ho fatto un sogno che mi ha colpita.
Ero a letto, girata su un fianco. Stavo dormendo, quando dei passettini dietro di me mi hanno fatta voltare.
“Mamma!”
Una vocetta dolcissima si è fatta strada nella mia mente assonnata. Ho sorriso. Nel sogno avevo trentun anni, ero non vedente, ed è la verità, e avevo un bambino, cosa purtroppo falsa nella vita reale. Un bambino che nel sogno precedente era venuto al mondo e che avevo chiamato Tarzan, con i capelli castani e gli occhi azzurri. Dalla sua nascita, le cose non erano state facili per me. Avevo dovuto allattarlo di frequente, all’inizio, svegliarmi spesso, dormire quando lui riposava, cambiare un sacco di pannolini e anche imparare a farlo. Per un non vedente non è semplice, ci vogliono tempo e pazienza, mentre per un genitore che ci vede, a quanto ho sentito dire da mia madre in questi due anni, anche se non mi ha voluta criticare:
“Quando lo fai quattro o cinque volte, poi impari.”
Ma a me ci è voluto di più. Certo, sono più lenta dei normodotati, ma non importa. I miei mi erano sempre stati vicini, aiutandomi quando era neonato e nei primi mesi di vita perché, come tutti o quasi tutti i piccini, si svegliava per le poppate frequenti, i cambi o un disturbo comune: le coliche. A tre mesi aveva avuto un’infezione urinaria e un po’ di febbre, quindi l’avevamo portato in pronto soccorso dov’era rimasto una settimana. Eravamo tutti preoccupatissimi, ma poi era guarito.
E anche se mi ci era voluto tanto per essere autonoma in quasi tutto ciò che riguardava il mio bambino, ora ero perfettamente in grado di occuparmi di lui, di passare anche ore da sola in casa, a differenza di quanto pensano alcuni ignoranti, che asseriscono che un non vedente non può essere genitore a causa della sua disabilità.
In ogni caso, mia mamma si era presa un’aspettativa dal lavoro per due anni e mezzo, momento in cui avremmo mandato Tarzan all’asilo. Era a casa con me, giocava con lui, mi dava una mano se avevo bisogno e ci portava a fare passeggiate all’aperto e al parco, dove lui poteva non solo giocare, ma anche interagire con altri bambini della sua età. C’erano alti e bassi, ma io e lui avevamo legato moltissimo. C’era un legame unico che ci univa, uno magico, che possono provare solo una madre e i suoi figli. Il mio fidanzato, Marco, era scappato come una furia quando gli avevo detto che ero incinta e non si era più fatto sentire.
“Mamma?”
Stavolta era una domanda. Probabilmente si stava chiedendo se l’avessi sentito.
“Mamma, tu sveglia o dolmi?”
Non sapeva ancora pronunciare la r, ma io non lo pretendevo. Era marzo e aveva compiuto due anni quattro giorni prima, il 7.
Io ho deciso di stare al gioco e di fingere di star dormendo.
Lui è salito sul letto a una piazza e mezza della mia camera e ha cominciato, da seduto, a saltare su di esso.
“Ma-mma, ma-mma, ma-mma” continuava a ripetermi.
Ha preso a scuotermi, poi si è alzato in piedi.
“No!” ho esclamato.
Lui si è messo a ridere, una risata argentina che conoscevo benissimo, forte e che contagiava tutti.
Ho fatto finta di ringhiare ed esclamato:
“Vieni qua! Ti voglio bene.”
Lo amavo. Lo amavo più di me stessa e l’avrei sempre fatto.
L’ho preso fra le mie braccia e l’ho messo sotto le coperte con me.
“Ti sei svegliato e la nonna ti ha fatto uscire dal lettino e dalla tua cameretta affinché tu potessi venire da me?
L’ho detto piano, ma ho scandito bene le parole una a una, perché volevo che capisse bene. Avevo letto che era importante parlare ai bambini fin dalla gravidanza e leggere loro libri e favole da quando nascevano. L’avevo fatto con testi che avevo trovato online e che mio papà mi aveva stampato. Ne avevo ancora parecchi, nella mia libreria.
“Sì, nonna molto blava. Io voevo venile dalla mia mamma e lei ha detto di sì, e anche il gnogno.”
“Nonno, il nonno” l’ho corretto.
“No, il gnogno!”
“Va bene, come vuoi tu. Imparerai a dirlo.”
E poi avevo la sensazione che lo sapesse, ma che quella parola storpiata gli piacesse di più.
“Mami! Mami, abblacci. Baci. Con te.”
Gli ho toccato la fronte alta e la testolina rotonda.
“Tarzan” ho mormorato con la voce piena d’amore.
È così liscio!
“Mamma.”
L’ha ripetuto allo stesso modo.
“Vuoi dormire con me?”
“Pelché stai qui?”
Odio quando qualcuno risponde a una mia domanda con un’altra domanda, ma per i bambini è normale.
“Perché ho sonno.”
Gli ho baciato la testina e ho affondato le mani nei suoi capelli castani, di un colore simile al mio, che odoravano di shampoo e bagnoschiuma, ma nel tempo non avevano perso il profumo tipico dei bambini più piccoli. Sebbene non lo allattassi più ormai da un anno, Tarzan mi ha toccato il seno.
“Na-ba-ma.”
“Cosa? Parlami bene” l’ho incitato.
“Baci, mamma, tanti baci. Bacini.”
Mi sono sporta e l’ho baciato e lui l’ha fatto con me. Mi ha anche leccato una guancia e la fronte.
“Che schifo.”
Lui si è messo a ridere.
“Non sei un gattino o un cagnolino, sei un bambino.”
Ma mi sono messa a ridere, perché anche quando era piccolo e provava a darmi un bacio faceva così.
“E cosa vuol dire Na? Quando mi hai detto quelle sillabe?”
“Mmm, brr.”
Commento che, di solito, significa:
“Non lo so.”
Alcune gocce della sua saliva mi sono finite sulla guancia e sopra la bocca.
Sembra proprio come nel film, anche se non lo tengo in braccio.
Ma non vedevo l’ora di farlo, o di coccolarlo. E poi non volevo fare confronti tra il bambino dell’omonimo film e il mio. Solo che a volte è inevitabile, soprattutto quando era più piccolo.
“Brrr, brrr, bvvv, brrr.”
“Basta, Tarzan. Su, da bravo. Sei grandicello per fare le bolle, ormai. Ma giocheremo con quelle di sapone, d’accordo?”
“Sì!”
Ha battuto le mani, perché l’abbiamo già fatto e lui ha adorato soffiarle e vedere come volavano in alto per poi scoppiare in aria.
“Mamma, ciuccio!”
“Non so dov’è. In camera tua, credo. Andiamo.”
Non potevo, né volevo di certo lasciarlo solo. Avrebbe potuto mettersi in pericolo senza rendersene conto, cadere e farsi male. L’ho preso in braccio e portato nella sua stanza.
“No, per tella no” ha detto quando l’ho adagiato, seduto, sul tappeto.
“Solo un attimo, finché trovo il ciuccio.”
Non era sul cuscino. Ho controllato sotto, nel caso l’avesse infilato lì ma niente da fare.
“Dove cavolo l’hai infilato?”
“Cavolo” ha ripetuto.
Io ho riso.
“Sì, esatto.”
Chissà cosa pensa che sia. Di sicuro non la verdura e nemmeno una semi parolaccia. Magari solo una divertente.
“Cavolo, cavolo, cavolo, cavolo” ha continuato a ripetere.
Il ciuccio era fra le coperte.
“Ma come hai fatto a buttarlo lì. Ecco, tieni.”
Lui si è avvicinato e io gli ho toccato la bocca. Era socchiusa. Avrebbe potuto metterselo da solo, ma voleva che lo facessi io. Era una coccola, un segreto che avevamo solo noi.
“Soltanto finché non ci alziamo, okay?”
“No, anche dopo.”
“No.”
“Mamma, pel favole.”
“Tarzan, ascolta.” L’ho preso in braccio, mi sono seduta sul tappeto e l’ho girato verso di me, in modo che potesse guardarmi. Mi ha messo le manine sul volto, come ha sempre fatto, e mi ha toccato il naso, la bocca, le guance e gli occhi.
“Tu no vedele pelò bella. Io ti voio bene.”
“Oh!”
Mi ha gettato le braccia al collo e, quando ha pronunciato quelle parole, ho sentito il mio cuore scaldarsi e riempirsi di una gioia così grande che, anche se la stanza era buia, per me era come se fosse stata illuminata dal sole. Il mio cuore ha accelerato i battiti.
“Mamma, hai bel solliso.”
Non ho potuto non sorridere.
“Anche tu, amore.”
“Coccole?”
Come non potevo non sciogliermi davanti a tanta tenerezza?
“Va bene, ma non qui. A meno che non…”
Lui succhiava il ciuccio, ma se l’era tolto ogni volta che aveva parlato. Adesso continuava e io lo ascoltavo. Era un suono dolce che mi scaldava l’anima di un tepore simile al fuoco di un caminetto acceso durante una fredda serata invernale. Non era simile a quello delle poppate, che si era rivelato meraviglioso e che aveva rafforzato il nostro legame, né al succhiare del biberon, che ancora gli davo, ma comunque era fantastico. Lui mi ha gettato le braccia al collo con un gridolino e siamo rimasti lì, stretti stretti, a coccolarci. I nostri cuori battevano all’impazzata e ci sorridevamo.
“Uaaah, coccole, io e te, mamma” ha mormorato Tarzan.
“Sì, amore mio. Tante coccole.”
Non sentivo nemmeno il classico dolore alla schiena che mi colpisce, nella realtà, ogni volta che, dopo alcuni minuti, non sono appoggiata a uno schienale. C’eravamo solo noi, il resto del mondo dimenticato. Era fuori, anche i miei genitori e mio fratello non ne facevano parte. Quello era il nostro momento, tutto per noi.
“Mmm, mmm, mmmmm.”
Ogni tanto lo diceva ancora, ma la pediatra mi aveva rassicurata: era normale, anche gli adulti lo facevano, a volte. Solo che Tarzan lo mormorava soltanto quando aveva sonno, gli piaceva tanto qualcosa che mangiava , o era così immerso nelle coccole che non gli importava di nient’altro. E io sapevo che, in quel momento, era così, perché valeva lo stesso per me e, in qualche modo, ero consapevole del fatto che, pur essendo così piccolo, lui lo capisse. Lo percepiva dal mio tocco, dal calore del mio corpo e dal battito del mio cuore. Mentre lui mi stava in braccio e lo stringevo, con una mano libera gli accarezzavo la testolina, gli occhi – che ha chiuso per un momento – la fronte, il naso, le spalle.
“Mano, mamma.”
“Agli ordini. Sono pronta.”
Ed ero lì, con il palmo alzato, dove lui appoggiava il proprio. La sua mano era più grande adesso, e le mie non sono enormi, ma comunque era bello sentire quella manina calda sopra la mia.
Gli ho baciato la fronte e la punta del naso e lui ha emesso una serie di risatine, versetti e gorgogli.
“Quante dita ho, Tarzan?”
Lui è partito dal pollice e le ha prese tutte, una alla volta, scorrendo dalla base fino alla punta.
“Uno, due, te.”
“E cosa viene dopo?” Gli ho mostrato l’anulare. “Questo quale dito è?”
“Sto.”
“Okay, e l’ultimo?”
“Ue.”
“Sì, bravo. Tanti bambini della tua età non sanno contare, sai?”
Mentre lui ci riusciva, a suo modo.
“Co… co-co-co.”
Contare. È una parola difficile, non importa, piccolo. Sei bravissimo, il bambino più bravo e bello del mondo!”
Ho infuso la mia voce di tutto il calore e l’amore di cui ero capace.
“Io blavo?”
“Sì, sei davvero bravo.”
Lui ha battuto le manine, mentre rideva, e io l’ho imitato. Insieme abbiamo creato una musica fatta di questi suoni.
È strano che i miei non si siano svegliati.
Avevo chiuso la porta della sua cameretta, quando eravamo entrati, ma le risate di Tarzan non erano uno scherzo, anche se per il resto parlava piano.
“Mi somigli. Anch’io sussurravo quand’ero piccola. Parlavo piano, come te.”
 
 
“Mamma, canti?”
“Okay, girati.”
Lui l’ha fatto. Si è accoccolato contro di me, spingendo indietro il culetto nel pannolino per stare più comodo e contro il mio ventre. Ha appoggiato la testina sulla mia spalla e io ho cominciato.
“Heartbeats only happen one at a time, one at a time
You can't rush a moment so don't even try, don't even try
“Bi, bi, ha.”
Heartbeats. Vuol dire battiti del cuore. Questo è il tuo. E questo è il mio.”
Gli ho messo la manina sopra entrambi.
“Fotte, batte fotte.”
“Sì, è vero. E sai perché?”
“Pelché?”
“Perché ci vogliamo tanto bene, io e te.”
“Sì, mamma, io bene a te e tu a me.”
“Già.”
Ho ripreso a cantare.
There's a symphony you're missing
If you only listen you'll find...
 
Big magic in the mundane
The big picture in a small frame
Everything is sacred when you take time to notice
Big love happens in the small moments
Big love happens in the small moments”
“If, if, ment” ha detto lui.
Non capiva cosa quelle parole significassero, ma per me era una canzone importante, perché era la nostra. Tarzan, pur non sapendolo, mi aveva insegnato ancora di più una grande lezione, me ne aveva data una di vita che JJ Heller, la cantante, trasmetteva alla perfezione: bisogna godersi i piccoli momenti di ogni singolo giorno senza affrettare le cose. Ed era quello che io avevo fatto con lui fin da quando era nato.
“Lo, lo-lo-lo.”
Love significa amore.”
“Ve. Vvv. Va-va-va-va-va-vaaah.”
Non riuscivo a smettere un singolo attimo di sorridere. Stava gorgogliando e, allo stesso tempo, cercava di riprodurre alcuni pezzettini di parole della canzone.
“Sei un bambino stupendo, Tarzan, dentro e fuori. E sei così intelligente!”
“Mmm.”
Poi è scoppiato a ridere, chissà per quale ragione, ma a me non importava. Adoravo quando lo faceva.
“Ancoa, mamma. Canta, no finita.”
“Sì, lo so.”
La conosceva davvero così bene? Cavolo!
“Feel the rain on your skin, feel my hand in your hand
You can't do it all, so just do what you can
Feel the rain on your skin, feel my hand in your hand
You can't do it all, so just do what you can
 
Feel the sun on your face (Feel the sun on your face)
Bare feet on the ground (Feet on the ground)
I know you'll see beautiful things if you look around, yeah
Just look around”
“Fi, ba.”
“Ascoltami, Tarzan. Guardami.” Il mio tono era dolce, ma ero seria. Lui ha sollevato la testa. “Non voglio sgridarti, ma è una cosa importante. La canzone dice delle cose vere. Ora te le mostro, vuoi?”
“Gioco?”
“No, non è un gioco, ma è una cosa bella che dice che ci vogliamo bene.”
“Cosa bella? Cos’è?”
“Ti faccio vedere. La tua mano nella mia mano” gli ho mormorato, posando la sua sopra il palmo. “I piedi nudi per terra. Alziamoci.”
Lui non ha protestato. Il pavimento era di legno, quindi non c’era problema: non avrebbe preso freddo.
“Mmm, uauh!”
“Ti piace?”
Ci siamo presi per mano e abbiamo iniziato a camminare per la stanza, poi siamo usciti in corridoio e siamo tornati nella mia.
“Tap, tap, tap, tap, tap, tap, tap, tap, tap, tap” continuava a dire lui a ogni passo, ma lo faceva pianissimo.
Una volta in camera, ho chiuso la porta.
“Luce.”
“D’accordo, apro le finestre. Addio sonno.”
Ho controllato l’ora sul cellulare. Mi bastava premere un tasto sul fianco del telefono e Siri, il programma di sintesi vocale che vi era installato, mi diceva l’ora.
“Sette e cinque.”
“Cazzo, è prestissimo.” Ho storpiato la prima parola, in modo che non la capisse. “Tarzan, ma a che ora ti sei svegliato? È domenica mattina, santo cielo!”
“Io no sonno, no più sonno” ha ribattuto lui. “No stanco.”
“Sì, fin qui ci ero arrivata.”
“Eh?”
“Ho capito cosa volevi dire. Guardami.” Ha alzato la testolina. “Come ti chiami?”
Ha iniziato a dire il suo nome verso i sedici mesi.
“Talzan.”
“Bravo. E io?”
“Mamma, o mami.”
“Sì, ma come mi chiamo?”
“Feia.”
“Freya, esatto. Devi usare sempre la r, anche nel tuo nome, Tarzan.
Ho allungato le r del mio e del suo nome, in modo che gli risultassero più chiare.
Talzan. “Fleia.”
“Meglio. Va bene così, amore.”
“Io e mamma.”
L’ho abbracciato.
“Sì, amore mio. Sì!”
Dio, quanto vorrei perdermi nei suoi occhi azzurri! Quanto vorrei riuscire a vederli, anche soltanto una volta nella vita!
Lui mi stava guardando, lo sentivo. Mi fissava negli occhi, non azzurri come i suoi ma grigio-verdi.
“Disegno.”
“Okay.”
Ci siamo seduti alla scrivania. Ho spostato il computer, preso un album per disegnare e un pennarello che usavo per lui, ho cercato un foglio bianco – riuscivo, e ce la faccio nella realtà, a capire quando sopra c’è qualcosa di scritto oppure no –, e glieli ho messi davanti. Ha preso il pennarello nel pugno, come faceva con le posate quando mangiava, e si è messo al lavoro. Sono rimasta in silenzio; avevo capito da tempo che si arrabbiava, se per caso parlavo, in quei momenti. Immaginavo la sua espressione concentrata, con la fronte corrugata e gli occhi fissi sulla pagina, mentre quegli schizzi infantili prendevano vita grazie a lui. Dopo alcuni minuti, ha alzato il foglio. Me l’ha passato dopo un attimo, come se avesse esitato.
“Mi piacerà di sicuro, Tarzan. Me lo farò descrivere da tua nonna, okay? Ma intanto provo a immaginare, se me lo dai.”
Ha toccato il foglio e ha sollevato le spalle, come se fosse stato orgoglioso del suo lavoro.
“Io e te!” ha esclamato.
Di sicuro aveva creato figure astratte, non un vero e proprio disegno, ma le immaginavo vicine, strette l’una all’altra. Forse si abbracciavano, o si tenevano per mano.
“Piace, mamma?”
“Certo che sì! Lo appenderò al mio armadio con il nastro adesivo, okay? Come ho fatto con gli altri tuoi disegni.”
L’anta ne era piena. Ne aveva fatti alcuni con la nonna che raffiguravano prati, animali, nuvole, il mare e la montagna quando ci eravamo andati, altre erano linee, ma non mi ero voluta perdere nessuno di quei fogli. Invece di raccoglierli in un contenitore ad anelli, li avevo messi lì e, sotto, avevo scritto – chiedendo a mia mamma di ricordarmelo – che cosa ognuno di essi raffigurava. Ogni tanto, soprattutto di notte o quando Tarzan dormiva, leggevo e sorridevo. E gli ho sorriso anche in quel momento.
“È un disegno fantastico, amore!”
Ha battuto le mani, di sicuro sporche di colore, così l’ho portato in bagno, dove gliele ho lavate con il sapone.
Avevo scelto il suo nome perché le lettere a, z e n erano dolci come lui, mentre le altre erano forti e riflettevano, tutte insieme, il carattere che aveva. Era una cosa che avevo spiegato ai miei genitori subito dopo il parto, quando avevo deciso chiamarlo. Gli stava benissimo.
Si è avvicinato al comodino e ha aperto il primo cassetto, tirandone fuori qualcosa.
“Che cos’è?”
Me l’ha fatto toccare e ho capito.
“Bubu.”
“Sì, è un libro.”
Diceva “Bubu” per definire quell’oggetto da sempre. Gli facevo sentire libri illustrati, di quelli che avevo quand’ero piccola, con animali in rilievo o altre figure, ma i miei gli avevano anche comprato altri volumi che io non potevo toccare. In ogni caso, la memoria visiva del mio bambino era importante.
“Non è uno dei tuoi libri, è mio. Lo vuoi lo stesso?”
Si trattava di La forchetta, la strega e il drago di Christopher Paolini, che avevo chiesto a mia zia per Natale. Mio papà doveva ancora scannerizzarlo, prepararmi il file PDF e poi trasformare il file in Word e avrei, finalmente, potuto leggerlo con la sintesi vocale o la Barra Braille. Era un processo, però, che sarebbe durato mesi.
“Lo so. Leggi?”
“Non posso. Non riesco a farlo con questo.”
Gli avevo fatto sentire il computer e la barra e solo di recente avevo cercato di spiegargli come riuscivo a leggere. Era rimasto affascinato dai puntini della Barra Braille e aveva bussato sullo schermo quando aveva sentito la sintesi vocale.
“Pelché signole non esce a giocae con me?”
“Tesoro, è una voce finta. Mi serve per leggere. Non c’è nessuno lì dentro.”
Lui non aveva replicato, per cui la mia deduzione era che fosse rimasto perplesso. Non ero sicura che avesse ancora capito, però non aveva importanza. La cosa che contava era che lui sapeva che non vedevo. Per questo motivo, anche a livello istintivo, era riuscito a imparare a parlare presto. Non troppo in fretta, ma abbastanza da avere piccolissimi dialoghi con me già dopo il primo anno, dato che non avevamo la possibilità di avere un contatto visivo.
“Voio pagine.”
“Va bene.”
L’ho sollevato.
“Vicino.”
“Sì, stiamo seduti vicini sul letto. Eccoci qua.”
Gli ho dato il libro. Lui mi ha stretto un dito per lungo tempo. Il contatto fisico fra noi era importantissimo, anche se lui non era più piccolissimo, perché il fatto che io non vedessi rendeva questi gesti fondamentali per entrambi.
Tarzan ha iniziato a girare il libro, muovendolo da una parte all’altra mentre se lo passava tra le mani. Era intrigato, poi l’ha aperto e ha quasi tolto la parte in carta che si trovava sopra la copertina.
“No, così lo rovinerai, amore.”
Allora si è messo a girare le pagine. Erano grosse e il fruscio della carta attirava entrambi. Gli ho mostrato alcuni fogli in Braille sui quali avevo stampato una favola e lui ha girato anche quelli, mentre toccava la mia scrittura.
“Lettele qui e qui” ha detto, mentre indicava i due libri, con la mia mano sopra la sua. “Ma quette di mamma più belle.”
“Davvero?”
Ero sorpresa. Non credevo che gli piacessero di più quelle in Braille rispetto alla scrittura delle persone vedenti, che i non vedenti definiscono in nero.
“Nascondino.”
“Ma non la smetti mai di giocare?”
“No.”
Ho riso forte.
“D’accordo. Nasconditi e io conto. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, dieci.” Non che in camera mia ci fossero molti posti dove farlo. “Chissà dov’è Tarzan!”
“Mmm.”
Gli avevo detto di non parlare, altrimenti l’avrei trovato subito. Mi aveva mai ascoltata in proposito? Ovviamente no.
“Uaaah. Mmm.”
“Chissà dove sarà il mio bambino? Oh, povera me, come farò adesso?”
La mia voce era disperata, ma lui rideva. Io sorridevo, in realtà.
Ho cercato sotto la scrivania, ma sapevo che non era lì. Allora ho provato sotto il letto.
“Uah!”
È saltato fuori di scatto.
“Eccolo qui! Hai vinto, Tarzan. Il mio bambino.”
L’ho preso in braccio e lui si è accoccolato contro il mio petto.
“Mmmmm.”
“Sei proprio in fase “Voglio ancora le coccole”, vero?”
“Go-co-go.”
Ho fatto finta di ringhiare.
“Yayay, yh. Grrr” ha ripetuto, imitando il mio ultimo gesto.
“Sì, ringhia come una tigre.”
“Tigle.”
“Una come quel peluche marrone che ho sulla scrivania e con cui giochiamo.” Gliel’ho preso.

“Tieni.”
Gliel’ho messa in grembo e lui le ha tirato i baffi, così l’ho fatto sdraiare e gli ho fatto il solletico al pancino con il muso dell’animale, mentre lui rideva.
“Aaaaah!”
“Urli perché non ce la fai più? D’accordo, allora smetto.” Desideravo farlo divertire, non che rimanesse senza fiato fino a che io non gli avessi procurato dolore. “Facciamo entrare un po’ di luce, ti va?”
“Sì.”
Mentre aprivo le finestre, mi sono resa conto che pioveva ancora. Lo faceva da giorni. Non potevamo uscire, se non con l’ombrello, ma una persona non può fare tanto con un bambino così piccolo, se piove o, come in quel momento, diluvia. Era difficile trovare sempre attività da fare con Tarzan stando in casa, perciò io, mia mamma e, quando c’erano, mio papà e mio fratello ci inventavamo di tutto. Gli avevamo perfino fatto impastare le polpette, cosa che io amavo fare e lui si era divertito un mondo ad affondare le dita in quella morbida miscela fatta di carne macinata e patate lesse schiacciate ancora tiepide. Essere mamma non sarebbe stato sempre bello, ma ero fortunata ad avere lui nella mia vita. L’avevo sempre voluto, fin da quando avevo scoperto di essere incinta. Non avevo mai pensato, nemmeno per un momento, di non tenerlo. L’adozione o l’aborto non mi erano passati nemmeno per l’anticamera del cervello, sia perché, riguardo il secondo, ero contraria per motivi religiosi e secondo i valori con i quali i miei mi avevano cresciuta e nei quali credevo, sia perché l’idea di dare mio figlio o mia figlia ad altri mi faceva venire la nausea. Era il mio bambino e restava con me. Punto. E così era successo.
“Tarzan, vieni qui sul letto.”
Gli ho infilato i calzini e le scarpette con gli strap e poi ci siamo avvicinati alla finestra.
“Pioggia!” ha esclamato, mentre annusava l’aria.
Come me, ne adorava il profumo di pulito e di buono.
“Sì, piove anche oggi.”
“Tanta acqua. Voio toccae, mamma.”
“Va bene.”
Siamo scesi in salotto. Lo tenevo sempre per mano, perché avevo paura che cadesse e facevamo, con lentezza, un gradino alla volta, rispettando i suoi tempi. Non era ancora sicuro sulle gambe, quando si trattava di fare le scale.
Siamo usciti in giardino e l’ho portato fuori dalla pompeiana. Ha allungato le mani, se le è riempie d’acqua e me l’ha lanciata tutta addosso.
“Ma… piccolo monello che non sei altro!”
Io ho fatto lo stesso e ci siamo ritrovati bagnati, mentre ridevamo come matti.
Una volta dentro, mi sono asciugata in fretta, ma prima l’ho fatto con lui. Per fortuna, non eravamo tanto fradici da doverci cambiare.
L’ho sollevato in alto.
“Andiamo a cambiarci, Tarzan.”
“Cosa?”
Avrei potuto non dirgli niente, ma tanto se ne sarebbe reso conto presto.
“Dobbiamo cambiare il pannolino.”
Quando si è reso conto di quello che avevo appena detto, ha aperto la bocca e ha gridato:
“No!”
“Tesoro, non urlare. Lo sai che non si fa, soprattutto non con la mamma. Non cominciare.” La mia voce era ferma ma non troppo dura. L’ho addolcita. “Sei bagnato e sporco, e…”
“No” ha detto più piano.
“E,” ho continuato imperterrita, “ti farà male il sederino, se non ti cambio. Brucerà, farà la bua.”
Qualche volta, soprattutto da piccolo, aveva avuto degli arrossamenti da pannolino e la mamma era andata a comprare una crema che gli lenisse il dolore, perché piangeva tanto che mi straziava il cuore. Per fortuna, ora non succedeva più tanto spesso.
“Poi giochiamo?”
“Mangiamo e giochiamo, promesso.”
Si è arreso.
Avevo messo il ciuccio nell’apposita scatolina, dopo averlo lavato per bene e lui non si era lamentato. Stavo cercando di toglierglielo. Glielo davo solo quando doveva riposare il pomeriggio e dormire la notte, oppure nei momenti nei quali piangeva tanto che non riuscivo a consolarlo in nessun modo.
L’ho disteso sul fasciatoio e spogliato, cosa non facile, visto che si muoveva come impazzito.
“Fermo.”
“Ah, ah, ah, ah.”
Agitava braccia e gambe.
“Sì, ma adesso devi stare più fermo che puoi. Sai cosa ti dice la mamma, adesso?”
Intanto gli stavo tirando su la maglietta.
“Cosa?”
“Facciamo un gioco.”
“Sì, gioco, gioco, gioco!”
Ha battuto le mani e abbiamo riso insieme. L’ho liberato del pannolino. Ho stretto fra le braccia Tarzan, mentre mi godevo il tepore della sua pelle nuda contro di me, e gli ho schiacciato le guance paffute. L’ho fatto sedere sul fasciatoio e gli ho preso le manine.
“Se resti immobile, o più tranquillo che puoi, hai vinto tu. Se non lo fai, vincerò io.”
Non avevo mai sperimentato quella tecnica, prima d’allora, ma a tutti i bambini piaceva vincere, fin da piccoli, quindi spesso lasciavo che fosse lui a farlo, in ogni gioco, anche a Nascondino.
“Bene, io bavo bambino” ha risposto.
“Okay, perfetto.”
Sono riuscita a cambiarlo senza difficoltà. È rimasto fermo come gli avevo chiesto, senza fare capricci. Giocava con le sue mani, lo toccavo e lui le batteva piano e non la smetteva di dire parole incomprensibili.
“Tarzan, hai vinto!” ho esclamato.
“Sì, io vinto!”
La sua voce era piena di entusiasmo.
Una volta cambiato e rivestito, l’ho portato in cucina. Gli ho scaldato un biberon di latte vaccino, che si dà ai bambini dopo il primo anno di vita, e gli ho fatto mangiare alcuni biscotti che ho spezzettato, poi, mentre mi sedeva in braccio, ho fatto colazione io.
“Mamma, latte come me?”
“Sì, è come il tuo.”
“Pelché tu quella e io no?”
“Perché sono più grande, ma la userai anche tu.”
Iniziavo a dargli il latte anche con il bicchiere e lui beveva da solo. Mangiava anche senza aiuto da qualche mese, anche se io e i miei stavamo sempre attenti e gli avevamo comprato posate di plastica.
“Tuo più buono.”
Ho sorriso.
“Tarzan, ha lo stesso sapore. È uguale.”
“Eh?”
Non gli avevo ancora fatto vedere il film con il personaggio che aveva il suo stesso nome. L’avrei fatto in futuro, non volevo confonderlo, ma quel versetto sembrava proprio quel “Eh?” prolungato che il bambino aveva pronunciato quando Kala l’aveva trovato nella capanna. In quel momento, però, lui non aveva capito ciò che intendevo.
Gli ho accarezzato una guancia e lui ha fatto lo stesso.
“È buono come il tuo.”
Speravo che avrebbe capito quelle parole più semplici.
Lui ha girato il viso verso di me.
“Voio il tuo.”
“Lo sapevo.”
Ne ho messo un po’ in un bicchiere, versandolo con l’imbuto, e lui ha bevuto e si è leccato le labbra.
“Com’è?”
“Buono, più buono di mio latte.”
“Immaginavo.”
“Mamma?”
“Dimmi, Tarzan.”
“Solletico.”
“Ancora?”
“Sì, solletico è bello.”
“Sei sicuro di volerlo?”
“Sì.”
Ho fatto finta di mangiargli il pancino, tirandomi indietro con la sedia, e lui è scoppiato a ridere.
“Sei davvero sicuro, sicuro, sicuro?”
“S-Sì” ha detto fra le risate.
“D’accordo.”
L’ho fatto sdraiare sul divano e gli ho tolto le scarpe, ma lasciando i calzini. Solleticargli i piedi era divertente sia per lui che per me. Ogni tanto scalciava, ma non lo soffriva tanto come mia mamma, che doveva dirmi di non farglielo perché le dava fastidio.
“Aaah, aaah, aaah” diceva, perché era anche rilassato.
Quando sono passata ai fianchi, ha cominciato a dire:
“No, no, no, no, no, no mamma, basta, basta” e non riusciva a smettere di ridere.
“E io ti dico sì, sì, sì, sì, sì e ancora sì, invece.”
Quando gli ho toccato l’ombelico è rimasto senza fiato e ha riso ancora più forte. A quel punto ho smesso, per dedicarmi a qualcosa che calmasse entrambi. E sapevo benissimo quel che volevo fare.
Gli ho massaggiato i piedini. Ci somigliavamo in questo. Poi l’ho preso in braccio mentre lui gridava per la contentezza.
“Non te l’aspettavi, vero?”
L’ho tenuto verso di me, finché mi sedevo, e gli ho solleticato le ascelle e la pancia, facendo anche finta di mangiargliela. Ridevamo in modo genuino, spontaneamente, e la stanza era piena di allegria.
“No, mamma, petta.”
Mi sono fermata con le mani sul suo pancino.
“Che c’è?”
Freya, cerca di capire cosa vuole dirti il tuo bambino.
“Non vuoi più il solletico?”
“No, dopo.”
“Va bene, che gioco ti piacerebbe fare, allora?”
“No, io no gioco.”
Ho sospirato.
Pensavo che la fase del no fosse superata. Insomma, dai quindici mesi ha iniziato a dire “No”, ma non lo fa quando si tratta di giocare.
L’ho disteso di nuovo e mi sono avvicinata, con le mani accanto alla sua testa e il corpo poco sopra il suo.
“Tarzan, stai bene?”
La sua voce era seria e mi ero insospettita.
“Sì. No. N-no”
“Cosa c’è che non va?”
È rimasto in silenzio.
“Di’ alla mamma cosa ti succede. Prova a parlarmi. Come riesci, come vuoi.”
Il suo respiro era irregolare. Sapevo esserci qualcosa che non andava. Gli ho toccato le mani e il viso: erano sudati.
C’era forse qualcosa che lo preoccupava, o lo turbava, o lo angosciava? Io l’ho rassicurato con parole dolci, dicendogli che ero lì.
“In blaccio, mamma.”
“Vieni, piccolo. Vieni.”
L’ho preso e mi sono seduta sul divano. Ho iniziato a cantare una melodia inventata sul momento per aiutarlo a rilassarsi, mentre gli massaggiavo il petto, il pancino, le mani e le braccia come mi aveva insegnato la mamma quando aveva sei mesi. Era importante farlo, per aiutarlo a calmarsi e a rilassarsi.
“M-Mamma, io pima ogno tanto butto.”
Ci ho messo qualche secondo a capire.
“Hai fatto un brutto sogno?”
Siccome non mi ha risposto, gli ho appoggiato una mano sulla testa e ho ripetuto la domanda.
Lui ha annuito.
“Oh, piccolo mio!” L’ho stretto forte a me. “I sogni brutti fanno tanta paura, non è vero?”
“Sì.”
“Ma non sono veri, non possono farti del male. Nessuno ti farà del male, finché ci sarò io a proteggerti.”
Era una promessa che avevo fatto a lui e a me stessa e che gli avevo ripetuto spesso. Non so perché. Non c’era nessuno che volesse fargli qualcosa di brutto o addirittura orribile. Tutta la mia famiglia lo adorava, compresi i miei cugini che non vedevo spesso, e anche gli amici di famiglia erano innamorati di lui.
“Cos’hai sognato?”
“Non so, non… Ma tu non lì, non lì con me, io solo.”
Era solo e io non ero con lui. Stavo cercando di mettere insieme i pezzi.
“Dove? Dov’eri?”
“Fuoi, boo, fleddo. Tanto fleddo. Neve ma neve cattiva, bianca ma butta.”
Ho cercato di processare le informazioni.
Era fuori, nel bosco – o, almeno, credo che intendesse quello –, al freddo e con la neve bianca, che gli sembrava cattiva e brutta perché era solo. Aveva senso.
“Non c’era un fuoco? O qualcosa che ti scaldava?”
“No, io nudo per tella.”
Dio Santissimo! Ma come ha fatto a sognare una cosa del genere? Nessuno di noi l’ha mai lasciato solo e sì, quest’inverno siamo andati in un bosco e sulla neve, ma ci siamo divertiti e anche lui era felice.
Lui è scoppiato di nuovo a piangere, apriva e chiudeva la bocca.
“I-Io tanta fame, là, ma no mangiale.”
“Io non c’ero, ma Tarzan, dimmi se c’era qualcun altro.”
“No, no, io solo, tutto solo. Pelché? Io cattivo? Io bambino no più bavo?”
Sentivo i miei russare di sopra, ma non riuscivo a prestarci attenzione. Avrei voluto svegliarli per farmi aiutare, ma erano stanchi, soprattutto mio papà, a causa del lavoro. Volevo gestire questa situazione da sola, perché sapevo di poterlo fare.
“Shhh, shhh, tranquillo. Buono, buono, buono. Ci sono io qui con te. La mamma è qui, non ti lascia. Su, non piangere. Non lascerò che nessuno ti abbandoni mai, te lo prometto!”
“Mmmmm.”
Era un lamento. Uno che mi ha straziato il cuore e l’anima, che li ha piegati. Avevo fatto qualcosa per scatenare tutto questo? Ero stata io la causa? Per caso gli avevo letto qualcosa che non avrei dovuto? Non mi sembrava. Erano tutte favole come Cappuccetto rosso, Il gatto con gli stivali, La piccola fiammiferaia.
Oh, cazzo. Oh, merda. Oh, merda, oh, merda, o, merdaa!
“Cazzo, no” ho mormorato, come se le parolacce precedenti non fossero state già sufficienti-
La piccola fiammiferaia era una favola che non avrei dovuto raccontargli. Perché parlava di una bambina che prendeva freddo e si scaldava con i fiammiferi che aveva e che non era riuscita a vendere. Il papà era cattivo con lei e la mamma era morta. Non gli avevo letto la fine, ma sapevo che la piccina moriva. Non credevo che avrebbe avuto questo effetto su di lui. Si era addormentato quasi all’inizio, la sera prima. Eppure, in qualche modo, doveva aver sentito.
“Tarzan, guardami.” Lui ha sollevato la testolina e io gli ho asciugato le lacrime. “Non piangere, piccolo mio! Va tutto bene. Sai che ho scritto una storia in cui quella bambina si salva? Tu non sei come lei, non ti ha abbandonato nessuno.” Lui forse capiva quelle parole, ma coccolarlo e abbracciarlo era la cosa più giusta. “Nella storia che ho scritto, la bambina trova una famiglia che si prende cura di lei, lo sai?”
Era vero, l’avevo scritta quando lui era piccolo e stava dormendo. L’avevo anche postata sul sito di scrittura amatoriale sul quale pubblicavo storie, fanfiction come quella e poesie, e siccome si potevano inventare finali alternativi per le storie, io l’avevo fatto. Anzi, in realtà l’avevo scritta quand’ero incinta, ora che ci pensavo bene, perché il bambino, di cui non avevo voluto conoscere il sesso, scalciava mentre digitavo sulla tastiera. In seguito l’avevo cancellata e migliorata, ma non ero più riuscita a postarla di nuovo. Con l’arrivo di Tarzan le mie priorità erano state altre. Lui era il centro della mia vita e solo adesso ricominciavo a scrivere qualcosa.
“Andiamo a leggere la storia. Vedrai cosa accadrà!”
“S-Sì.”
Mi stringeva il cuore sentire la sua vocina esitante, ma l’avrei fatto stare meglio.
Siamo saliti in camera e io ho acceso il computer con il mio bambino in braccio. Lui, che si stava calmando, toccava lo schermo.
“Uah!” ha esclamato, quando la mia sintesi vocale del PC, diversa da quella del cellulare, ha fatto un suono e poi ha detto:
“Desktop finestra. Barra delle applicazioni.”
“Lo sai che fa sempre così.”
Gli ho accarezzato il mento e mi sono messa a cercare il file. Quando l’ho trovato, ho scorso fin quasi alla fine e ho letto il pezzo che mi interessava.
“Il giorno seguente la piccola Malka si svegliò e non capiva dove fosse. Si trovava distesa su qualcosa di morbido e sentiva un fuoco che scoppiettava. I piedini e le manine erano caldi e non indossava più quegli stracci, ma un abito lungo e pesante.
"Ben svegliata, piccola" le disse una donna con dolcezza.
"Ma dove… cosa…"
“Eeeh?”
“Sei sorpreso? Aspetta di sentire il resto.”
"Eri svenuta vicino alla nostra casa. Ti abbiamo portata dentro e ci siamo presi cura di te" le spiegò l'uomo. "Avevi la febbre, ma ora è passata."
"Però il cerusico ha detto che devi riposare."
"Hai una famiglia?" le domandò l'uomo, che si presentò.
"Ho un papà, ma non mi vuole bene" disse e, pur essendo debole, raccontò la sua storia. "Credo che non gli interessa nemmeno se torno a casa o no. È cattivo con me, a volte mi picchia."
I due sorrisero per quel piccolo errore, ma non la corressero.
"James, posso parlarti un secondo?"
Si ritirarono in un angolo della stanza.
"Non possiamo mandarla via, se torna a casa chissà cosa le potrebbe succedere" disse Megan.
"Hai ragione. È così piccola e ha già sofferto tanto! I soldi non ci mancano, quindi sfamare un'altra bocca non sarà un problema."
"Sempre se lei vuole restare."
"Chiediamoglielo."
“Mmm.”
Tarzan non sembrava convinto.
“Sì, hai ragione tu, hai ragione tu. Forse avrei dovuto ponderare di più la scelta di adottarla, ma dovevano prenderla in fretta, visto che la bimba era quasi morta. In futuro vedrò se potrò migliorare questo pezzo.”
“Ancoa, mamma. Leggi.”
“Okay, principino!”
"Come ti chiami, piccola?" le domandò Megan.
"Malka, signora."
“Hai un bellissimo nome!”
“Vi ringrazio.”
“E quanti anni hai?”
“Cinque.”
"Io sono Megan. Ti piacerebbe restare a vivere con noi e chiamarci mamma e papà? Lo so che hai perso la tua e che ti manca molto, ma se tornassi da tuo padre lui potrebbe farti del male e noi non lo vogliamo. Se resterai qui starai bene, avrai giocattoli, potrai studiare e soprattutto ricevere tanto amore. Tutto l’amore che abbiamo, te lo prometto, tesoro!"
Finito il discorso di Megan, Malka aveva le lacrime agli occhi.”
“Malka?”
“Sì, bravissimo. Ti piace come nome? Me l’ha consigliato un’amica. Non so che origine abbia.”
Avrei dovuto trovare dei nomi ottocenteschi, perché quella favola di Hans Christian Andersen era ambientata in quell’epoca, ma ormai era andata.
“Malka, Malka, Malka.”
“Sì, lo adori davvero.”
“Ma… Ma…ka. Lka.”
Io ho riso.
"Lo fareste davvero?" chiese a entrambi con un filo di voce.
"Ma certo!" rispose James. “Noi ti amiamo. Ci siamo occupati di te con attenzione e premura.”
“E ti abbiamo voluto un bene immenso fin da quando ti abbiamo vista.”
“Vieni qui!”
James la abbracciò e Megan si unì a lui. La strinsero forte.
“Per noi sei importante” le sussurrò la donna.
“Conti più di ogni altra cosa al mondo. Tu e Josh lo fate.”
Malka avrebbe voluto chiedere chi era Josh – forse un altro loro figlio? – ma era talmente commossa che non riusciva a parlare.
“Sei al sicuro, ora” continuarono a dirle. “Va tutto bene. Va tutto bene.”
“Posso davvero chiamarvi madre e padre? Essere vostra figlia sul serio?”
“Certamente!”
Megan la baciò e anche James lo fece.
“Ho di nuovo due genitori.” La piccola scoppiò a piangere. "Allora grazie madre, grazie padre, vi devo la vita."
“Oh, James, le abbiamo dato la vita che si meritava.”
Lui abbassò la voce, ma Malka riuscì comunque a sentire.
“Sì. Non potremo cancellare quello che è successo nel suo passato, ma ne parleremo e cercheremo di affrontarlo insieme. Possiamo, comunque, darle il miglior futuro possibile.”
“E la ameremo sempre.”
“Sempre e per sempre.”
La abbracciarono, felici di averla adottata.
“Anche per me tu conti più di ogni altra cosa, Tarzan.”
Gli dicevo spesso che gli volevo bene e mi rispondeva che me ne voleva anche lui. Ma il mio amore per Tarzan non aveva confini. Lo amavo. L’avevo sempre amato più di me stessa. Avevamo vissuto alti e bassi, come in tutte le famiglie, ma nonostante l’enorme responsabilità che comporta ogni maternità, Tarzan mi aveva trasmesso, fin da quando avevo udito il suo primo vagito, una tranquillità e una serenità che non avevo mai provato prima, e non avrei potuto dare quell’amore a nessun altro, se non ai figli che, magari, avrei avuto. Mi sarebbe piaciuto dargli un fratellino o una sorellina, ma in Italia i single non possono adottare, il che è una cazzata colossale, e non era detto che, se avessi trovato un ragazzo, lui sarebbe stato disposto ad accettare che avessi un bambino. Gliene avrei parlato subito e gli avrei detto che averlo tenuto era la cosa migliore, più giusta e della quale andavo più fiera, perché l’amore che provavo per Tarzan era quanto di più vero io avessi sperimentato in tutta la mia vita. Ma non era il momento di pensarci ora. Non c’era nessuno che mi interessava. Alle superiori, una mia amica mi aveva detto:
“Tu hai tanto amore da dare. Spero che avrai il tuo bambino, un giorno. Almeno uno.”
E così era stato.
“Se sapessi quanto ti amo” gli ho detto.
“Lo so. Io bene a mamma, tanto, tanto, tanto bene.”
Queste parole mi hanno scaldato l’anima.
“Oh, piccolo mio!”
“Mamma, lallalla.”
“Sì. Non ho ben capito cosa vuoi dire ma sì, sono d’accordo.”
“Uah!”
Ha sbadigliato.
“E ti amerò sempre e per sempre. Hai ancora sonno, vero?”
“Sì” ha sussurrato.
“Non mi stupisce affatto. Ti sei svegliato così presto e abbiamo giocato, ci siamo divertiti, ti ho letto qualcosa, è ovvio che tu sia stanco. Lo sono anch’io.”
“Mmm, eeeh.”
“Ti porto nel tuo lettino.”
Quando faceva così, significava che era davvero stanco. Non riusciva neanche a dirlo, per cui lo comprendevo da sola. E poi sbadigliava in quel modo adorabile.
Mi sono chiusa la porta della sua camera dietro le spalle e l’ho rimesso giù.
“Oh, com’è bello il mio bambino in questo lettino” ho sussurrato con dolcezza.
Gli ho baciato la fronte e l’ho stretto a me, anche se era sotto le coperte.
“No, mamma, io con te. Butto sogno paula.”
“Non devi aver paura, non…”
Avevo ancora le mani sopra di lui. Ha sporto il labbro inferiore mettendo probabilmente il broncio. Gli ho accarezzato l’interno del labbro, umido per la saliva. Non veniva spesso a letto con me. Come avrei fatto a dirgli di no? Chi poteva resistergli?
Ho chiesto a mia mamma di spostare una delle sponde del suo letto, che si potevano rimuovere, e metterla da me, dall’altra parte, in modo che fossi sicura che non sarebbe caduto.
“Va tutto bene?” mi ha chiesto.
“Sì, è solo che si è svegliato presto, come hai visto.”
“Credevo fosse venuto da te e che si fosse riaddormentato.”
“No, era pieno di energia, ma ora è stanchissimo e anch’io ho voglia di tornare a letto.”
“È presto, avete tempo per dormire.”
“D’accordo. Abbiamo già fatto colazione e l’ho cambiato.”
Mia mamma dà un bacio a entrambi.
“Sei stata bravissima, Freya. E anche tu, tesoro della nonna.” L’ha accarezzato sotto il mento e lui ha fatto una piccola risatina, poi ha schioccato le labbra. “Ora tornate pure a fare la nanna.”
L’ha detto con una dolcezza tale che mi sono sentita di nuovo una bambina piccola.
Una volta sotto le coperte, Tarzan si è accoccolato a me, mi ha stretta forte e si è sistemato bene sul fianco, con il viso così vicino al mio che potevo sentire i nostri respiri fondersi.
“Mmmm, mmm.”
E, detto quello, si è addormentato.
“Buon riposo, amore mio.” Ho chiuso gli occhi e continuato a tenerlo con me. “Quando ti sveglierai, io sarò qui.”
E in quel momento io, che non mi chiamo Freya, ho aperto gli occhi e mi sono svegliata dal sogno.
È stato un sogno lungo e, per ricordarlo bene tutto, siccome era frammentato nella mia mente e anche intricato – probabilmente si era unito con altri – ho dovuto fare un po’ di meditazione, prima di mettermi a scrivere, ho preso tre pagine di appunti per riuscire a ricordare tutto. Solo dopo aver fatto quella scaletta ho cominciato la scrittura vera e propria.
Ma prima, quando ho aperto gli occhi, non mi sono sentita persa, come invece mi capita sempre quando sogno i bambini. Non ho provato quel senso di vuoto e di perdita, non sono andata a cercare Tarzan per poi accorgermi che era tutto un sogno e starci malissimo – per non dire di peggio. No. Era come se lui fosse vicino a me, se io potessi sentire il suo corpicino e il calore che emanava. Non è durato molto, ma è bastato per farmi sorridere. La mia gatta, Alba, dormiva fra le mie gambe. Forse è stato grazie a lei che questo sogno è stato diverso. La luce del mio sogno è stata, ed è, proprio Tarzan, su cui sto scrivendo una fanfiction alla quale lavoro quasi tutti i giorni da settembre. Ma sentivo di dover trascrivere quello che ho sognato. Perché sì, era un sogno. Sì, c’era un bambino, io non ho figli, o almeno non ancora, e questo a volte mi rende triste o mi fa disperare. Ma mi sentivo talmente piena d’amore per Tarzan, così immersa nel calore che provavo, che mi sono detta:
“Questo è un sogno speciale. Devo raccontarlo, perché è uno di quelli che non voglio dimenticare.”
E così ho fatto. Ne sono felice.
 
 
 
CREDITS:
JJ Heller, Big Love, Small Moments
 
 
 
NOTE:
1. I bambini di due anni riescono a pronunciare da centosessantaquattro a trecentotrentuno parole, secondo le ricerche che ho svolto. E, dato che mio fratello ha iniziato a parlare presto per relazionarsi con me, ha senso che Tarzan faccia lo stesso.
2. I non vedenti definiscono sul serio così la scrittura di chi ci vede, anche se, pur non riuscendo a vedere, non ne ho mai capito il motivo.
3. Ho fatto svolgere a Tarzan attività adatte alla sua età. Ho svolto diverse ricerche in proposito per capire al meglio che cosa sappiano fare i bambini di due anni, anche se ognuno è diverso e ha i propri tempi per imparare.
4. Quello che ho detto sulla favola è vero. Il pezzo che ho riportato è tratto da lì. Forse un giorno la riposterò, chissà.
   
 
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