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Autore: Kerberos 1001    24/03/2024    0 recensioni
"La Terza Guerra Mondiale durò sette mesi esatti, la risposta del consesso internazionale al vile attacco portato con armi bandite dalla Convenzione ad una nazione neutrale da secoli, un vero e proprio crimine che nessuno poteva lasciare impunito; a nulla valsero le proteste indignate e le contro-accuse avanzate dal governo sovietico, poiché le prove della sua colpevolezza erano evidenti ed inequivocabili. Quanto poi alle misure autorizzate dalle massime cariche sovietiche nell'estremo tentativo di ribaltare una situazione critica e di conseguire la vittoria in extremis, possono unicamente venire deprecate e condannate."
Ecco! Vedi, bambina mia, questo è quanto storici e politologi avranno mai da dire sull'argomento, quanto viene riportato nei loro saggi e nei libri di testo. Ma sarei poco onesto con te se non ti dicessi che c'è un verità segreta, nascosta agli occhi del mondo; una storia diversa, già.
Ora io ti chiedo: ti andrebbe di ascoltarla?
Genere: Drammatico, Guerra, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo
Capitoli:
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1 – Nubi all’orizzonte

Mettevo ordine tra gli appunti di un recente incarico che mi era stato assegnato, quel pomeriggio di tarda estate; la biblioteca, altissima, era fresca, accogliente ed io, tra un foglio e uno scarabocchio, osservavo Maya che sonnecchiava al sole in giardino, allungata sulla sua sdraio preferita.
Ogni tanto, la bava di vento che batteva la scogliera giocava con l’orlo del suo prendisole, facendola somigliare ad una mongolfiera indecisa sul quando spiccare il volo.
Sorrisi, al ricordo del nostro primo incontro: ancora non riuscivo bene a comprendere cosa l’avesse indotta a scegliere un perfetto sconosciuto e rimanere con lui in un luogo che, sino ad allora, le aveva riservato unicamente smacchi e sofferenza; non che mi dispiacesse, anzi, la mia segreta speranza era che rimanesse con me per sempre: sapevo perfettamente cosa significasse giungere prematuramente a quel fatidico ”Finché morte non ci separi”, e forse era solamente la paura a farmi preferire lo status quo, noi due a vivere insieme senza altro obbligo che quello che provavamo l’uno per l’altra.
Durante le settimane seguite al mio arrivo nel nord della Francia, ci eravamo incontrati, ci eravamo scontrati, bisticciando, rare volte litigando per davvero, finché non avevamo scoperto che, in realtà, quello che temevamo maggiormente era di rimanere feriti a vicenda, qualora avessimo ammesso i nostri reciproci sentimenti; da quel momento, vivere divenne dolce, sereno e questo nonostante il segreto che, complice la mia dannata curiosità, eravamo condannati a mantenere: conoscere le cause profonde, le motivazioni occulte che, messe in movimento, scatenano una guerra le cui conseguenze risultano epocali non rende di certo facile prendere sonno …
Scuotendo il capo per deviare fisicamente il corso dei miei attuali, fin troppo cupi pensieri, sprofondai nella mia solita poltrona tentando di dipanare un periodo particolarmente astruso: lo avevo scritto di mio pugno, indubbiamente, ma qualcun altro doveva avere preso possesso del mio corpo, in quel momento, perché giuro che non riuscivo a trovarci né capo né coda, in quel labirinto di abbreviazioni stilate in fretta chissà dove, chissà per quale motivo; ero talmente concentrato che sussultai quando una mano delicata mi sfiorò la spalla: «Chi?...»
Domanda stupida, ovviamente: in casa eravamo in due!
«E chi potrebbe mai essere? Devo forse pensare che tu abbia trovato un’amante?» Sorrideva, con quell’espressione furbesca che riservava ai momenti in cui si divertiva a bersagliarmi con le sue frecciatine.
«Perché un’amante?» ribattei, marcando il numerale, «Ho stuoli di donne che bramano le mie attenzioni, qui e altrove!»
«Altrove … altrove … Scusa, quand’è che la tua fantasia malata sarebbe assurta al rango di luogo fisico?»
«Dubiti forse della mia parola?! A letto senza cena!»
«Con te ai fornelli, più che una punizione sarebbe un premio ...»
«Ah, davvero? Perché tu invece sei uno chef stellato!»
«Grazie per averlo finalmente notato: la mia ultima zuppa ha vinto un premio!»
«E quale?»
«Quando l’ho gettata in strada, i cani che l’hanno lappata non sono fuggiti guaendo: è un progresso, non trovi?»
«Che stupida!»
Si sedette sulle mie ginocchia, carezzandomi distrattamente i capelli: «Non cambierai mai, vero? Sempre ad impelagarti in qualche nuova ricerca, a spulciare qualche nuovo incartamento! Ti stavo fissando da almeno venti minuti e tu non te ne sei minimamente accorto!»
«Davvero imperdonabile, da parte mia. Scusa.» E la baciai, abbracciandola stretta.
Lei si accomodò meglio facendo frusciare la gonna, prima di dedicare la sua attenzione ai fogli che avevo posato sul tavolino: «Geroglifici? Oh, no: riconosco la mano, è un tuo autografo …» motteggiò «Per caso, si tratta di quella richiesta giunta da Parigi?»
Annuii: «Esattamente! Hanno intenzione di ricostruire, ammodernandolo, uno dei quartieri periferici danneggiati dall’invasione e mi hanno chiesto alcuni suggerimenti, dopo aver esaminato la documentazione.»
«Gentili, non c’è che dire. Però, adesso,» disse, spingendo il tutto da parte con sommo disinteresse «tu verrai con me.»
«Ma ...»
«Subito. E senza storie!» mi rimbeccò, l’espressione minacciosa completamente fuori posto su quel viso angelico.
«D’accordo!» mi arresi, perché sapevo quanto potesse partecipare del mulo, quando si metteva in testa qualcosa «Se per te è così importante …»
«Adesso non farla apparire come una concessione da parte tua, per favore! Riguarda noi due, se proprio lo vuoi sapere!»
«Cosa ho combinato, di recente? Spero non sia troppo grave.»
Usciti in giardino, ci avviammo lentamente lungo il sentiero verso la cancellata a picco sul mare: avevo mantenuto la promessa fatta a Maya quel giorno di un paio d’anni prima così che il parco, adesso, era un mosaico di colori attraversato da passerelle d’ardesia, con tanti punti appartati fuori vista in cui potersi intrattenere serenamente senza pericolo di venire disturbati.
La mano stretta nella mia, Maya camminava lenta, rimuginando pensieri che dovevano essere alquanto tristi, a giudicare dalla sua espressione.
«Tesoro, qualcosa ti preoccupa.» azzardai, nella speranza che si confidasse con me.
«È così evidente?»
Annuii: «Abbastanza. Credo di poter dire di conoscerti, ormai. Almeno un po’.»
Sorrise mesta: «Arthur il veggente!» e subito dopo: «Scusa! Non avrei dovuto.»
Pazienza. Ce ne voleva molta con lei, quand’era di quell’umore. Mi limitai a sorridere.
«Beh?! Non dici niente? Non ribatti con una delle tue solite battute salaci?»
«Se è per farti piacere …»
A quella mia risposta, lasciò andare la mia mano, si voltò verso di me, indietreggiando di un paio di passi e mi gratificò di una riverenza, sollevando di un centimetro esatto l’orlo della gonna sulle gambe appena appena abbronzate: «Milord, la gentilezza che dimostra nei confronti di quest’umile cameriera davvero mi confonde!»
«Lo sai, Maya, credevo che fossimo andati ben oltre queste stronzate e che avessi accettato il fatto che con me ti puoi confidare.» Non ero arrabbiato, solo molto amareggiato, triste e deluso, in quel momento: «Io torno in biblioteca: se e quando deciderai di avere una conversazione adulta con me, sai dove trovarmi!»
«Arthur …»
Non cercò di trattenermi, in alcun modo: bastò il tono di quell’unica parola ad impedirmi di andare via.
«Mi hanno avvicinata. In paese, mentre andavo a fare la spesa.» Tremava, non so se di paura o di rabbia repressa: «Mi hanno costretta ad andare al pozzo, sai di quale parlo, quello nella piazza.»
Adesso ero io a tremare: se avessi avuto con me un fucile sarei corso fuori a cercarli per fare giustizia sommaria! Come avevano osato? «Ti hanno …»
Un sorriso striminzito le stirò le labbra: «Mio eroico cavaliere! No, volevano solamente parlare. Non credo nemmeno sapessero cosa significasse quel luogo per me, per il paese.» Teneva le mani strette dietro la schiena, probabile che fosse per orgoglio, per non farmi vedere che le tremavano come foglie; in silenzio, spostò un rametto con il piede, usandolo come compasso per un cerchio invisibile: «In realtà, credo fossero stranieri. Cercavano informazioni. Cercavano te.»
«Capisco. Che tipo di informazioni?»
«Non hanno voluto dirmelo, Arthur, scusami.»
«E di cosa? Sono io a dovermi scusare. L’hai detto tu: cercavano me, è tutta colpa mia.» Sorrisi: «Ricordi la prima volta che venimmo qui?»
«Come potrei dimenticarmene? Ero ferita, vulnerabile e tu, bruto che sei, ti sei approfittato di me, con la scusa di offrirmi un picnic!»
«Hai ragione! Avrei dovuto spaccarti quella testaccia dura sulle pietre dov’eri caduta, invece di riportarti a casa in braccio!»
«Ancora mi chiedo come ci sia riuscito un mollaccione cittadino come te ...»
«Semplice: mi sono comportato esattamente come il mulo che tenevo tra le braccia!»
«Zotico! Barbaro!»
Mi inchinai, rendendole deliberatamente la pariglia: «Al vostro servizio, madame!»
Maya rise: «E questo che vorrebbe dire?»
«Mi sembra sufficientemente chiaro …»
«Sai che non ti sopporto, quando fai così?»
«Sai che la cosa è reciproca?»
«Ah, davvero?»
«Proprio!»
«Mi cacceresti?» “Può farlo. Ma … vuole farlo? No, vero? Vero?
«Mettimi alla prova!» “No, non farlo! Te ne prego!
Mi picchiettò con l’indice sullo sterno, scuotendo il capo: «Finiamo sempre per litigare per ogni minima cosa, noi due.» e si strinse a me, nel vento che rinforzava.
«Vero. Litighiamo sulle piccolezze.» concordai, abbracciandola stretta, «Hai notato che non lo facciamo mai per le poche cose veramente importanti?»
La udii ridacchiare contro il mio petto: «Come, ad esempio, impedirti di avvicinarti alla cucina?»
«Esatto! Oppure il tentare di farti entrare in testa che non è necessario spolverare ogni singola scheda dell’archivio, in biblioteca.»
Le accarezzai i capelli, stupito come sempre dalla loro morbidezza setosa, dal colore particolare che la luce assumeva quando vi passava attraverso. «Non preoccuparti, ne verrò a capo anche questa volta, vedrai.» Il mio sussurro venne portato via dal vento, ma Maya mi rispose ugualmente, rabbrividendo un poco: «Lo so. Ed è proprio questo a spaventarmi.»

Tornati in casa, ci rilassammo chiacchierando in soggiorno sino all’ora di cena, quando decisi di portarla fuori.
Maya protestò, all’inizio, come sua abitudine, per poi capitolare quando le dissi che era mia intenzione andare da Mirò: «Mi chiedo quando si deciderà ad andarsene in pensione!» commentò acidamente, mentre l’aiutavo con il soprabito, ma in fondo anche lei apprezzava la cucina del vecchio espatriato; si potevano dire molte cose di lui, la maggior parte negative, tutti però concordavano sul  fatto che fosse un vero artista tra i fornelli. Mirò era un personaggio scomodo, ingombrante, burbero sino quasi a risultare fastidioso, tanto che ben pochi scambiavano con lui più dello stretto necessario, fossero parole, denaro o servizi: tra quei pochi, io e la mia compagna dovevamo occupare un posto speciale nel suo cuore perché ogni volta che ci vedeva, veniva personalmente ad accoglierci: «Ma che piacere! Il signore e la signora Morris! Bellissima come sempre, mia cara! Un giorno dovrete svelarmi il vostro segreto ...» ammiccò, scostando la sedia per Maya: questa volta ci aveva riservato un tavolo d’angolo nella stanza che dava a picco sulla scogliera, con la sua parete di fondo vetrata che offriva una vista mozzafiato del mare sino all’orizzonte. Esauriti i convenevoli, indaffarato come sempre tornò verso le cucine bofonchiando un «Vi mando immediatamente un cameriere con i menù!» da sopra la spalla, mentre sgusciava di lato tirando in dentro la pancia smisurata per attraversare la stretta porta che dava sulla sala da pranzo principale. Seguii la scena ridacchiando, prima di rivolgermi alla mia compagna: «Signora Morris … suona bene, non trovi?»
Maya sbuffò, leggermente stizzita: «Madame Leroux suonerebbe anche meglio. O madame June, se è per questo!»
«D’accordo, d’accordo! Vedrò di prendere appuntamento all’anagrafe per cambiare cognome, solo, potresti deciderti prima su quale preferisci? Te ne sarei immensamente grato!» commentai, scherzando, ma solo per metà: mi sentivo … non so nemmeno io come, ferito? No, rattristato, ecco, sì, decisamente.
Lei rise, alla mia risposta, solo per metà: aveva compreso il sottofondo, ovviamente, non era una stupida oca che si faceva apprezzare unicamente per il suo bell’aspetto! «Arthur, io ...» iniziò, ma si interruppe quando vide il cameriere avanzare riflesso nella vetrata. “Tempismo perfetto, non c’è che dire!” lo rimbrottai tra me e me, mentre rispondevo con un sorriso al suo cenno di saluto ed iniziavo a leggere il menù.
Dopo neanche due minuti, lo posai sul bordo della tavola: «Sa una cosa? Chieda allo chef di stupirmi.»
«Benissimo, monsieur! E per madame?»
Maya fece la sua ordinazione tenendo lo sguardo fisso su di me, cercando di valutare lo stato d’animo che la sua risposta aveva generato: «Scusa. Non era quello che intendevo.» mormorò, una volta ripartito il cameriere.
«Lo so. Solo, speravo che ...»
Lei scosse il capo: «È un paesino di provincia, dove tutti sanno tutto di tutti, dove tutti s’impicciano di qualunque cosa: io oramai ci sono abituata, ma tu …»
«Io cosa?»
«Non riusciresti più a vivere, a lavorare … arriveresti ad un punto tale di esasperazione per cui l’unica soluzione sarebbe andartene il più lontano possibile da qui, armi e bagagli e ...» guardava fuori, adesso, gli occhi fissi su un punto lontano tra cielo e mare.
«E …» l’incitai
«Mi lasceresti.»
Giuro che rimasi interdetto: «Ma come ti è venuto in mente?»
«Non far finta di non saperlo!» Si stava scaldando, un lieve rossore cominciava a soffonderle le guance: «Per te magari – dico, magari – no, ma per tutti gli altri io rimango una cameriera, una domestica, oltre tutto di quelle che lavoravano in quel posto. Capisci cosa significa?!»
«Certamente! Significa che tutti gli abitanti di questo dannatissimo buco sono, nessuno escluso, degli impiccioni maldicenti, ignoranti come le vacche che portano a pascolare la mattina per rientrare la sera!» risposi, facendo in modo che mi udissero forte e chiaro, «E ti dirò di più: dal paragone, le vacche ne escono sminuite e offese!» Mi guardai attorno, sostenendo e rintuzzando di proposito le occhiate degli avventori presenti.
Maya scosse la testa: «Arthur, Arthur … ti rendi conto del fatto che ti stai bruciando letteralmente la terra sotto i piedi?»
«E tu ti rendi conto che non me ne può importare di meno?» risposi, afferrandole la mano e stringendola con forza «Qualora volessimo, potremmo tranquillamente andarcene, in ogni momento» spiegai «In Canada, posseggo tuttora un villino con un bel appezzamento di terreno in mezzo ai boschi, se proprio lo vuoi sapere! È un po’ isolato, ma è tranquillo, immerso nella natura e si respira un’aria meravigliosa!»
«Sarebbe sempre presente lei, però ...» tenne gli occhi bassi, fissi sulla tovaglia, mentre dava voce alle sue paure più profonde in un sussurro udibile soltanto da me.
Jean.
«Oh, andiamo! Sai benissimo che non è così!» protestai veemente «Ovvio, non potrò mai dimenticarla, questo sì, ma da qui a dire che sarebbe sempre presente …» sorrisi, mesto «Maya, speravo che mi reputassi migliore di così!»
Lei rimase in silenzio; arrivarono le pietanze e vi si dedicò completamente: era il suo modo di evadere le domande scomode, prendersi del tempo per riflettere facendo tutt’altro. Non avrei ricavato nulla, assillandola, così la lasciai in pace e mi gustai il ben di dio che avevo di fronte, annaffiandolo con dell’ottimo vino. Dalla prima volta che mi ero seduto alla sua tavola, mangiare da Mirò era un cimento, sembrava facesse apposta a sommergerti di cibo, sfidandoti ad arrivare in fondo e, non per vantarmi, io ne ero uscito sempre vincitore, sino ad allora. Forse perché adoravo il pesce, che lì veniva servito in abbondanza, forse perché qualunque cibo preparato da lui era invariabilmente delizioso, non lo so, fatto sta che, nonostante le sue riserve sulla persona in sé, il vecchio grassone era riuscito a conquistare persino il palato della mia compagna, che avevo scoperto essere decisamente difficile da accontentare: Maya mangiava composta, in un silenzio rotto unicamente dal rintocco dell’argenteria – fine e di gran pregio – sulla maiolica dei piatti; ogni tanto, il tovagliolo nettava le labbra rosee, piene, appena sottolineate da un filo di rossetto poco appariscente, che le donava moltissimo. Si stava rilassando, poco a poco, non dimenticando le sue recenti preoccupazioni, no, semplicemente mettendole da parte, per il momento.
«Va meglio, vedo!» commentai a piatto vuoto.
«Eh? Oh!» Mise il broncio per un secondo «Dannazione! Sai benissimo che non dovrei ingozzarmi tanto, eppure non perdi occasione per tentarmi!»
«Io?! Ma se stavi correndo, venendo qui!»
«Non è assolutamente vero! Io ...» incespicò, cercando una risposta pepata. Adorabile. «Volevo solo essere sicura che ci dessero un buon tavolo, per non sentirti lamentare come tuo solito. Ecco tutto!»
«Sicuro, come no.»
Alzai esageratamente gli occhi al cielo, guadagnandomi un calcio indignato negli stinchi sotto il tavolo: «Cafone!»
«Questa è nuova ...» Le sorrisi, carezzandole la mano: «Allora, cosa mi rispondi?»
«Che dovrei risponderti?» esasperata, imbarazzata, adesso: Maya non era tipo da sbandierare le proprie emozioni in pubblico: «Mi hai rovinata dal momento e nel momento in cui ho risposto a quella tua prima lettera.» Sospirò, sull’orlo delle lacrime: «Altrimenti perché avrei accettato di tornare in quel palazzo, secondo te?»
«Una sottile vena di masochismo?»
«Sottile un accidente! Hai una vaga idea di quanta pazienza occorra per sopportarti?!»
«Credo di sì, ma non ne sono troppo sicuro ...» risposta che mi costò un altro calcio: «Ahi! Mi hai scambiato per un pallone?»
«Te lo meriti!» Di nuovo quella luce birichina nello sguardo, finalmente!
In quel momento, notammo la corpulenta figura di Mirò farsi strada tra i tavoli diretta alla nostra volta: portava un vassoio con un assortimento di piccola pasticceria fresca, una caffettiera e tre tazzine: «Signori, spero abbiate gradito la cena!» esordì gioviale, posando il tutto davanti a noi «Un piccolo omaggio da parte della casa.» spiegò, una volta apparecchiate le tazzine.
Le occhiate degli altri avventori scivolarono su di lui come acqua: per quanto gliene importava, il ristorante poteva anche essere vuoto. «Posso sedermi con voi? È da tanto che non si scambiano due chiacchiere, noi due, monsieur Morris ...»
«Ci mancherebbe! Prego!»
La sedia urlò quasi alla lettera, nell’accogliere il suo occupante, ma in qualche modo resse: «Dannazione! Temo che dovrò ordinare ad un buon falegname delle sedie più robuste.»
«Potrebbe tentare una dieta …» suggerì Maya pungente.
Mirò non se la prese: «Mia cara signora, ci ho provato un’infinità di volte: non sono mai riuscito a calare. Oltretutto, quel poco che perdevo lo riprendevo nel giro di un mese a dieta terminata!» A sentirlo parlare, uno lo avrebbe creduto del posto: non aveva il benché minimo accento; sapevo che aveva ricoperto – o ancora ricopriva? – un ruolo primario nell’organizzazione segreta che aveva fatto del villaggio la sua base operativa su suolo francese sin dalla fine della Prima Guerra Mondiale, ma da questo a raggiungere una tale padronanza della lingua … Mirò doveva essere di gran lunga più intelligente di quanto amasse dare a vedere, tratto che sicuramente gli era riuscito utile in più di un’occasione.
«Ho saputo che alcune persone hanno preso contatto con lei, madame.» buttò lì con fare casuale, servendoci un ottimo caffè.
Vidi Maya irrigidirsi, le labbra strette pronte a rispondere in maniera piccata, ma il nostro anfitrione la prevenne offrendole un pasticcino: «Ho anche saputo che si sono comportati in maniera decisamente sgarbata, con lei.»
Sorseggiò il caffè, con una grazia che non avrei mai sospettato possedesse: «La qual cosa, devo ammetterlo, mi ha alquanto indignato.» Un pasticcino, masticato lentamente e con gusto: «Motivo per cui mi sono preso la libertà di liberare lei e il suo compagno qui presente dall’incomodo di rivederli.» Sorrise, strizzando un poco gli occhi: «Monsieur Morris, il suo caffè finirà per freddarsi!»
Il sottotesto, per me, era chiarissimo: altri cadaveri – quanti? Quanti erano gli uomini che mi avevano cercato per interposta persona? – erano andati ad impilarsi sulle decine che già popolavano il fondale davanti alla forra. Sorseggiai a mia volta la bevanda bollente senza neppure sentirne il sapore: «Chi li ha mandati?» chiesi, con il tono di voce più normale che potessi assumere, guadagnandomi un sorriso d’approvazione da parte di Mirò.
«L’ho sempre detto, al vecchio, che lei è un uomo con le palle!» Fece per stiracchiarsi, ma lo scricchiolio allarmante del legno lo indusse a desistere: «Quanto alla sua domanda, davvero non lo immagina? Assaggi un cannolo, sono deliziosi!»
Ne presi uno e lo masticai a lungo, riflettendo: «Quando ho inviato il mio rapporto, due anni fa, ho detto chiaro e tondo a quei signori che non desideravo avere più niente a che fare con loro. Ho pure specificato che non sopporto di essere manovrato e preso in giro, quindi, no, non ho idea di chi possa essere stato.»
«Già, ho letto quel rapporto: un vero e proprio capolavoro! Sa, monsieur Morris, lei è sprecato per il lavoro che svolge: ho incontrato ben poche persone in grado di cogliere i particolari nascosti e di collegarli tra loro a formare un quadro coerente. Dannazione, lei sarebbe stato un’ottima risorsa per qualsiasi agenzia di intelligence!»
«Dovrebbe essere un complimento?»
«Lo interpreti come vuole. O lo lasci cadere sotto il tavolo: a me poco importa.» si strinse nelle spalle, spostando a caso le grosse dita sopra il vassoio, in cerca di qualcosa di suo gradimento: «Vede, il successo della nostra piccola operazione che lei ha così ben celato – tra parentesi, perché l’ha fatto? Non era proprio quello, il vero scopo del suo incarico quaggiù? – ha lasciato l’amaro in bocca a più di una persona, ma soprattutto ha fatto schiattare di rabbia un certo personaggio e il suo entourage, un personaggio che avrebbe molto gradito allungare le sue mani su un altro pezzetto dell’Europa, a guerra finita, come io sto facendo su questi pasticcini.» Nel prenderne uno, mi strizzò apertamente l’occhio: si era fatto tardi, gli inservienti stavano già apprestando per la chiusura, spazzando e pulendo i locali ormai vuoti, non c’era alcun bisogno di ulteriori infingimenti. 
«Quindi …»
«Già!» Sorrise, prima di alzarsi pesantemente: «Bene, signori! È stato un vero piacere, per me! Vi saluto e vi lascio tornare a casa. E non preoccupatevi per il conto: offre la casa!» Detto questo, se ne tornò in cucina rollando sulle anche come una nave in tempesta.

Per rientrare, seguimmo un percorso diverso dal nostro solito: negli anni, passeggiando, Maya aveva finito per farmi conoscere ogni singolo vicolo del paese, portandomi in un determinato punto e sfidandomi a ritrovare la via di casa nel minor tempo possibile; era una specie di problema del commesso viaggiatore semplificato, col quale ci divertivamo quando non sapevamo che altro fare, un innocuo passatempo che ci aveva portato a scoprire molti angoli intimi e graziosi che né io né lei sapevamo esistessero.
Quella sera, stavamo percorrendo uno degli stretti passaggi alle spalle della chiesa parrocchiale, la luce dei lampioni che generava ombre dalle falene che vi sfarfallavano attorno. Era decisamente molto tardi, nessuno per le strade, tutte le imposte erano chiuse, ma nessuno di noi due se ne preoccupava, troppi pensieri per la testa, accavallati e confusi, almeno per quanto riguardava me. Maya mi teneva per mano dopo avermi preso sottobraccio, lo sguardo perso sui muri delle case antiche intonacate a regola d’arte ad anni alterni, mantenute linde e pulite come fossero appena state costruite. «Dovresti cercare qualcuno per rimodernare un po’, non credi?»
«Forse. Forse no. Che la gente pensi pure quello che le pare.» mugugnai incupito «Tra parentesi, la giusta persona è la prima plurale, dovremmo.» la corressi.
«Cosa?»
«Se non sbaglio, tu vivi ancora con me. E non dire che sei soltanto una domestica, se no ti giuro che ti prendo a sculaccioni, qui, in mezzo alla via! Oggi non è davvero serata!»
Lei mi fissò per un lungo momento, prima di chinare il capo: «Lo avevo immaginato.» mormorò.
Proseguimmo per un tratto in silenzio, il rumore dei tacchi sul selciato netto nel silenzio.
«Chi erano?»
«Non lo so.» risposi, prendendo tempo, «Non ancora …»
Mi sferrò un pugno sulla spalla: «Sei un bugiardo.» accusò «Pessimo, ma bugiardo: quando Mirò ha fatto quel suo commento, tu hai capito subito a chi si riferiva.»
«Come fai ad affermarlo? Mi leggi nel pensiero, adesso?»
«Non che sia poi così difficile.» la mia accusa venne liquidata con somma sufficienza. «Andiamo! Sono grande abbastanza, papà, non mi metterò a piagnucolare spaventata in un angolo!»
«Incorreggibile, purtroppo.» sospirai: «D’accordo, mi arrendo: erano russi. Nutrono dei sospetti, evidentemente, con ogni probabilità perché monitorano da sempre le comunicazioni dei miei precedenti committenti, così come detti committenti monitorano le loro, e vogliono vederci chiaro in tutta quanta la faccenda. Probabilmente si è trattato di una cellula dei servizi segreti, nulla di ufficiale, che possa essere ricollegato a loro …»
Maya mi fissava, sentivo i suoi occhi addosso: «Sei tu quello spaventato, vero?» Era una domanda a cui si rispose da sola: «Certo che è così. Ed è tutta colpa mia.»
«Maya …»
«Vedi che ho ragione? Staresti di gran lunga meglio senza di me: se non ti ostinassi a tenermi attorno … Sai quante belle donne ho visto voltarsi al tuo passaggio, solo qui in paese? E tu ...» Scosse il capo: «Proprio non capisco!»
Non risposi a parole: l’abbracciai stretta e la tenni così per almeno mezz’ora, immobili nel bel mezzo di non so più quale via, assaporando il suo profumo e il suo tepore. Piangeva piano, in silenzio, composta e riservata come solo lei sapeva essere.
Lentamente, proseguimmo sino a casa, lasciandoci la tenebra alle spalle.
   
 
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