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Autore: crazy lion    09/04/2024    1 recensioni
Sono passati sette anni dalla morte del suo cucciolo e Kala non riesce ad accettarlo. Non ne può più delle parole di speranza che gli altri dicono per incoraggiarla, ha litigato diverse volte con Kerchak ed è stanca di ogni cosa. E prenderà una decisione che, spera, la porterà ad arrivare dove vuole, anche se per farlo dovrà mentire e lasciare tutto e tutti, per sempre. E se sentisse il pianto di Tarzan, come si comporterebbe?
Attenzione! Leggete le note prima della storia. Sono importanti.
Ho deciso di scrivere questa fanfiction dopo mesi di riflessione. Kala è del tutto OOC a causa di qualcosa che succederà verso la fine. Ho stravolto, volutamente, il suo carattere, quindi se questo non vi piace, vi prego di non leggere. Io la adoro come personaggio, ma qui volevo rappresentarla in un modo del tutto diverso e più realistico, riferito proprio al comportamento reale dei gorilla.
Storia presente in italiano anche su archiveofourown, dove il mio nickname è crazy_lion.
Disclaimer: i personaggi qui presenti non mi appartengono, ma sono proprietà della Disney. La fanfiction non è a scopo di lucro.
Genere: Dark, Drammatico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Kala, Kerchak, Terk
Note: OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
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NOTE:
1. Non ci sono prove che dimostrino che un animale abbia la volontà di prendere una decisione come quella di Kala, però si sono verificati casi simili, ad esempio quello di un cucciolo che si è lasciato morire, in uno zoo, un mese dopo la morte della mamma, e gli esperti stanno ancora cercando di capire. Gli animali non ragionano come noi, per cui la questione è più complessa rispetto a quanto accade all’uomo in certe situazioni.
2. Ho scelto io il nome Kiran. Mi sembrava brutto non dare un’identità a un piccolo che nel film viene a malapena nominato. È come se, dopo aver adottato Tarzan, a Kala non importasse più di lui. Non ne parla neanche una volta, in seguito, e ritengo che la Disney abbia sbagliato in questo. Se avesse trattato tale tematica, il film sarebbe risultato più profondo.
3. È riconosciuto e documentato il fatto che gli animali possono soffrire di ansia, agitazione e depressione e anche stare male, per lungo tempo, dopo aver perso un loro piccolo.
4. Il personaggio di Kala è OOC perché l’ho voluto. È stronza, odiosa e fredda, tutto il contrario di quanto è nel film. Ma l’ho fatto per varie ragioni che io, come autrice, ritengo valide e riguardano il momento in cui sente il pianto di Tarzan ed è in una certa situazione mentale e fisica. Anche se fosse stata bene, nella realtà una gorilla non si sarebbe mai comportata come ha fatto Kala. Forse sarebbe riuscita a prendere il bambino in braccio, ma la sua forza l’avrebbe ucciso. Oppure l’avrebbe trovato e, ritenendolo un pericolo, abbandonato di conseguenza.
Io amo il personaggio di Kala, adoro il rapporto che ha con Tarzan e il momento nel quale si incontrano e non voglio mancarle di rispetto con questa storia, ma qui desideravo descrivere come si comporterebbe sul serio un animale se sentisse il pianto di un bambino. Certo, ci sono stati rari casi in cui alcuni bimbi sono stati cresciuti da animali, ma non è mai successo con i gorilla e, comunque, questi bambini hanno avuto conseguenze fisiche e psicologiche gravissime. Per tali ragioni, non scriverò mai una storia in cui siano presenti sia Tarzan che Kala come mamma e figlio.
Ho dato a Kala un’umanità, perché nel film è umanizzata, ho messo come genere anche il Fantasy, visto che lei e gli altri parlano, ma il focus della storia non è su Tarzan, tanto che non l’ho inserito come personaggio. Io adoro quel bambino e mi si è stretto il cuore a scrivere una cosa del genere, mi sono sentita male e una stronza totale, perché Tarzan forse è morto – anche se io preferisco pensare che, in questo caso, Kala si sbagli, lui stesse solo piangendo forte e Sabor non avesse mai attaccato.
La mia fantasia ha un limite oltre il quale non riesce ad andare. Un animale è pur sempre tale e, anche se ha dei sentimenti e un’anima, deve comportarsi come tale. Può parlare, provare sentimenti umani, ma il suo comportamento, secondo il mio punto di vista, riguardo ciò che io in questo caso ho scritto, resta quello di un gorilla. È giusto che sia così. Per tale motivo, Kala può apparire stronza e fredda. Lo è, dal nostro punto di vista di umani, ma questo è il modo in cui si sarebbe comportata.
Ho desiderato, dopo adeguate ricerche svolte nel corso di varie settimane su internet, su siti come Quora, che sono affidabili e le cui risposte sono date anche da esperti nei settori più svariati, parlare di un personaggio in un modo del tutto diverso rispetto a quello che si pensa di lei. E so che potrei ricevere critiche per questo, ma non è stata una cosa fatta a caso, così, tanto per. Si è trattato di qualcosa di voluto e su cui mi sono documentata a dovere.
5. Ultima cosa: sono stata in dubbio riguardo il rating della storia, ma ho scelto questo a causa delle tematiche trattate.
 
 
 
Ne vale la pena?
 
Sono seduta fra l’erba, vicino all’albero dove io e Kerchak abbiamo costruito la nostra tana. Lui non è qui. Si sta assicurando che tutti i membri del branco stiano bene. Ci fermeremo per un paio di giorni, poi ci sposteremo di nuovo. Dobbiamo sempre fare così, noi gorilla, e non solo noi, per andare in altri territori più sicuri, o con più abbondanza di cibo e acqua. Riprendo a mangiare formiche e foglie – sempre che piluccare e provare nausea subito dopo si possa definire un pasto – e guardo le mamme che allattano i cuccioli. Anch’io lo facevo con Kiran. Sono passati sette anni e non ho ancora superato questo dolore. Parlo di più, adesso, però fingo.
“Zia Kala?”
Mia nipote, Terk, mi raggiunge.
“Ehi, piccola, come stai?”
Mi forzo e riesco a sorriderle.
“Bene.”
“Hai mangiato?”
“Sì, e la mamma dice che, se finisco sempre tutto il cibo, un giorno diventerò come te.”
Le accarezzo la testa.
“Davvero? E tu vuoi diventare come me?”
“Sì, certo!” Saltella sul posto. “Sei così bella e coraggiosa.”
Ti prego, ti prego, non essere come me, Terk.
Non ho potuto fare a meno di pensarlo. Io non voglio che lei diventi una bugiarda come lo sono io. Sorrido solo per far piacere agli altri, in modo che non soffrano o che lo facciano di meno per me, che non si preoccupino, che pensino che io stia tornando a una vita normale. Ma è tutta una finta. Gli unici con i quali sono me stessa sono i cuccioli, Terk compresa. Con loro gioco volentieri. Non ce ne sono molti, ma voglio bene a tutti quanti allo stesso modo. Amo mio marito, però ormai siamo distanti. Lui ha cercato di andare avanti e ha stretto i denti, io ho preso un’altra strada.
“Devi superare la disperazione, Kala. Dura da troppi anni. È vero, ognuno ha i suoi tempi per reagire alle varie situazioni e prove che gli mette di fronte la vita, ma non puoi lasciarti andare per sempre” mi ha detto qualche tempo fa.
“E chi l’ha ordinato?” gli ho risposto, mentre alzavo il tono. “C’è una regola del nostro branco che lo rende obbligatorio, per caso?”
Conoscevo la risposta.
Lui ha esitato.
“No.” Ha abbassato lo sguardo, ma ci ho visto passare un lampo di dolore, anche se è durato pochissimo. “Ma io voglio che tu stia meglio. Non puoi permettere che la perdita del nostro cucciolo ti distrugga fino a consumarti. Kiran non lo vorrebbe.”
Io ho mandato giù un groppo che mi si era formato in gola.
“Lo so, ma so anche che cosa voglio io.” Mi sono messa a piangere. “Da quando lui non c’è, in me è cambiato tutto. Il mondo non è più bello come prima, ogni posto fa schifo, ogni giorno è orribile, le notti non hanno mai fine e io mi sono arresa a questo dolore già tempo fa.”
Sono viva fuori e morta dentro, come faceva a non capirlo?
“Sei la moglie del Leader del branco, devi dare il buon esempio.”
Adesso era lui ad aver alzato il tono.
Ho ruggito. Un suono gutturale, basso, di avvertimento.
“Credi che non ci stia provando? Sorrido, gioco con i cuccioli, prendo decisioni con te, ma non posso fare più di così, nemmeno avere un altro figlio.”
“La nostra è unaquestione di discendenza. Il Capobranco deve dare una continuazione a esso.”
Respirava con le narici dilatate.
“Vuoi forse costringermi ad avere un rapporto sessuale in modo che io resti incinta?”
Stavolta è stato lui a ruggire e l’ha fatto mentre si batteva il petto, gesto che ha reso il verso ancora più potente. Avrebbe voluto intimidirmi, ma io ho sostenuto il suo sguardo.
“Kala, stiamo soffrendo entrambi. Non ti costringerei a fare niente, ma in qualche modo dobbiamo trovare un accordo. Magari avere un altro cucciolo ti aiuterà a stare meglio, a pensare a vivere una bella gravidanza, a riflettere con me sul nome. Magari sarà una femminuccia, bella come te.”
Ed è stato da quella sera, due settimane fa, che ho cominciato a sentirmi soffocare. Lui continuava a chiedermi se avrei voluto accoppiarmi, ma io lo respingevo. Gli ho spiegato che, se avessi avuto un aborto anni fa, avrei voluto un altro figlio, ma tradire Kiran? Mai.
“Non lo tradiresti” mi ha detto Zuri, mia sorella, quando ne abbiamo parlato.
Lei è la mamma di Terk.
“Certo.”
“No, non fare finta di darmi ragione. Kala, lui sarebbe felice di avere un fratellino da proteggere da lassù, ovunque si trovi. E non sarebbe un rimpiazzo ma una benedizione. Per te e per Kerchak in primis e, in secondo luogo, per tutti quanti. E non perché dovete dare una discendenza al branco, non è questo il punto della questione. Ma avere in grembo un figlio è una gioia! Lo sai anche tu. Non ti piacerebbe provarla di nuovo? Io e Yabi stiamo cercando di avere un altro figlio. Vogliamo dare un fratellino o una sorellina a Terk.”
Ho sorriso.
“Un altro nipotino?”
Lei mi ha abbracciata, come solo Zuri sa fare, con quel calore che ti può dare soltanto una sorella.
“Sì. Saresti contenta?”
“Molto!” Ero sincera. “Avrei qualcun altro che mi riempirebbe di domande come Terkina.”
Zuri ha riso.
“A volte non ti rende la vita facile, eh? Le ho detto di stare in silenzio, ma non mi ascolta.”
“I cuccioli sono curiosi, non reprimerla.”
All’improvviso, mia sorella si è fatta seria.
E in quel momento, non solo ho capito che c’era qualcosa che non andava, ma che io non volevo sentire quelle parole piene di speranza riguardo la questione “avere un altro figlio con Kerchak”.
“Non sono venuta a parlarti io, oggi. Non solo.”
Le ho lanciato uno sguardo interrogativo.
“Che cosa vuoi dire?”
Lei si è bloccata, si è schiarita la voce, mi ha puntato addosso uno sguardo colpevole e ha sussurrato:
“Kerchak mi ha chiesto… di convincerti. Perché lui non ci riusciva. Ma io gli ho detto che mi sarei comportata in modo naturale con te, che non avrei finto, e avevo già intenzione di tirar fuori l’argomento con te, Kala, te lo giuro. Lui non voleva che ti confessassi che mi aveva parlato, ma non ce l’ho fatta a mentirti fino in fondo. Hai tanto amore da dare, non te ne rendi conto? Guarda nel tuo cuore. Tu sei qui, lui batte, sei viva, e se rimarrai concentrata abbastanza a lungo e guarderai in te, vedrai che, piano piano, potresti desiderare un altro figlio. Kiran…”
“No.” La mia risposta secca l’ha bloccata. È rimasta immobile a guardarmi con gli occhi sbarrati. “Mi hai mentito. Io ti voglio bene, mi fido di te, mi sono sfogata in questi anni, mi hai sempre ascoltata, detto che ci saresti stata per me in ogni situazione, e ora mi hai mentito. Non mi interessa se, alla fine, mi hai detto la verità. Non so più se avere fiducia in te o no, Zuri, perché tu l’hai violata. Ci eravamo dette di non raccontarci mai bugie, quando eravamo più giovani, te lo ricordi? Io ho mantenuto fede alla mia promessa, tu no.”
“Kala, ti prego di perdonarmi. Non volevo farti del male, stai già soffrendo così tanto!”
La sua voce era spezzata, pregna di un dolore che mi faceva capire quanto avesse il cuore a pezzi. Ma a me non importava. Si è avvicinata, però io l’ho spinta via.
“Non toccarmi!” Il mio urlo ha fatto girare tutti, Kerchak compreso. “Perché avete la pretesa di sapere solo voi che cos’è meglio per me? Mi dite cosa devo fare e cosa no, come devo o non devo comportarmi, avete lasciato stare i dovresti. Ma voi non siete nella mia testa, nessuno lo è.”
“Kala, non sappiamo più cosa fare per aiutarti, cazzo! Lo capisci o no? Siamo disperati perché ti vediamo stare sempre male, non migliori mai.”
Mi sono rivolta a mio marito, che mi aveva parlato.
“Anche tu mi hai mentito. Hai convinto mia sorella a parlarmi.” Gli ho ruggito contro, di nuovo. C’era tensione nell’aria. Tutti rimanevano in silenzio e ci guardavano. “Non credi che anche la mia, come quelle che nella vita prendiamo tutti, sia una scelta che debba essere rispettata?”
“Non più. Non dopo così tanti anni. Sembra quasi che ti piaccia crogiolarti nel tuo dolore, che tu ami stare male. Smettila di scappare.”
“Cosa?”
“Mi hai sentito.”
“Io odio stare male.”
“E allora dimostralo.”
“In che modo?”
“Non fare la cretina e comportati da gorilla adulta, da moglie del Leader di un branco quale sei. Smettila di scappare, di usare il tuo dolore come scusa per essere compatita.”
Questo era troppo.
“Io non ho mai voluto compassione, solo appoggio, e l’ho ricevuto. Ma non sono riuscita a reagire, pur sforzandomi. È una colpa?”
“Sì, lo è. Fermati, tira fuori il coraggio che hai dentro e affronta questo dolore, accettalo e vai avanti anche se non lo dimenticherai, perché è questo che ho fatto io, è così che si sono comportati tutti, è il modo in cui si comportano gli animali normali quando stanno male.”
“Quindi insinui che non sono normale?”
“Ai miei occhi no. Prendersi i propri tempi è giusto, ma non puoi continuare a sopravvivere, devi ricominciare a vivere. Non è facile, lo so per esperienza, non voglio dire che basterà poco tempo. Io ci ho messo anni. Tutti ti possiamo aiutare, ma sei tu la prima che deve combattere e permettere a noi di darti una mano.”
Da quel giorno non abbiamo fatto che discutere e litigare, anche dal punto di vista fisico, con spintoni e manate.
“Zia Kala, giochi con me?”
La voce di mia nipote mi riporta alla realtà.
“Scusa, tesoro, mi sono persa a… pensare.”
“A una cosa bella?”
“Sì, direi di sì.”
Ma non riesco più a sorriderle, adesso.
Non ho più parlato con Zuri, da quel giorno. Neanche con Yabi, suo marito, che sapeva tutto ed era d’accordo. Terk, però, non ha nessuna colpa. È troppo piccola per capire.
“Pensi a Kiran, vero? Vedo che sei triste.”
È una piccola gorilla sensibile, è questo che mi piace di lei. Da grande sarà una creatura ancora più splendida di quanto è ora.
“Sì, sono triste. Ogni cosa che me lo ricorda mi fa sentire di più la sua mancanza.”
Voglio essere sincera con lei, ma le sorrido per nascondere le lacrime che vorrebbero scendere. Devo usare un linguaggio semplice, adatto a una cucciola della sua età, senza farla stare male o, peggio, traumatizzarla.
“Ad esempio cosa?”
I cuccioli. Tutti quelli del branco. Voi con le vostre mamme, loro che allattano i più piccoli. Vedervi giocare. Guardare altri animali farlo con i loro piccini. E, in ogni luogo in cui andiamo, penso che Kiran non c’è e provo un senso di perdita maggiore, un dolore che non posso controllare o scacciare.
Il mio passato mi perseguita e lo farà per sempre, ma non posso dire questo a Terk. Ci starebbe malissimo e non voglio farla piangere.
“Niente di importante, non preoccuparti.”
“Allora è vero.”
“Cosa?”
Lei mi salta in braccio io la prendo al volo. Si aggrappa con le zampe al mio collo.
“La mamma dice che stai guarendo, che non ti senti più male come prima!”
Io non le rispondo, ma lei lo prende come un sì e batte le mani. Se non la sostenessi, avrebbe perso la presa su di me e sarebbe caduta.
“Però, zia, avrei voluto conoscerlo meglio. Avevo un anno quando è morto e lo ricordo poco. Mi dispiace.”
È scesa dalle mie braccia e ha abbassato lo sguardo. Io le ho alzato il viso in modo che potessimo guardarci negli occhi.
“Non fare così, cucciola.” Le parlo con dolcezza e spontaneità, dal cuore. “Non è colpa tua se non lo ricordi bene, eri piccola e anche lui. Aveva solo pochi giorni.”
“Posso… chiederti com’era, qualche volta? O stai troppo male, se parliamo di lui?”
È sua cugina, non voglio negarle questo. È un suo diritto sapere, anche se mi si spezza il cuore al solo pensiero di parlarne.
“Puoi farmi tutte le domande che vuoi, su Kiran e su tutto, lo sai.”
Non aggiungo altro, perché dire che mi fa piacere parlare di lui sarebbe una bugia e non voglio mentire alla mia nipotina. Io soffro quando qualcuno pronuncia il suo nome. Mi si blocca il respiro, il mio cuore salta un battito, o forse più di uno. E, dato che nella nostra lingua significa raggio  di sole o raggio di speranza, viene usato anche come nome comune. Lo sento spesso. E ogni volta il dolore divampa in me come gli incendi che, qualche volta, ci sono anche qui nella giungla. Le fiamme mi bruciano e mi mangiano viva dall’interno.
“Vuoi giocare con me?”
“Domani, signorina, ora è il momento di dormire.”
Stavo per dire di sì, l’avrei fatto volentieri, ma Zuri ci ha raggiunte.
“No, mamma, voglio stare con la zia. Posso riposare con lei, se vuole.”
“Certo, Terk può…”
“No no, non preoccuparti. Terk, andiamo. Papà ci sta aspettando.”
Mia sorella non mi guarda in viso, ma nemmeno io lo faccio.
“Perché non vi salutate? Avete litigato?”
“No” diciamo all’unisono.
Lei batte un piede a terra in modo frenetico.
“No, amore della mamma, siamo solo stanche. Buoanotte, Kala.”
Mi guarda e io ricambio. Ci sorridiamo solo per il bene di Terk, che si rilassa.
“Sarei tanto, tanto triste, se foste incavolate fra voi.”
Mi è sfuggita una risata, e succede di rado. Anche Zuri scoppia a ridere.
Incavolate, eh? Voi cuccioli e il vostro linguaggio.”
“Già, dove hai sentito questa parola? Chi te l’ha insegnata?”
“Papà.”
“Papà? Allora dovrò sgridarlo. Andiamo.”
Terk mi sorride per salutarmi e io ricambio, poi torno nella tana senza aver finito la cena. Non ho più fame.
Kerchak è disteso dentro il nostro albero, in un nido che abbiamo creato con rami e foglie intrecciati. Mi sdraio accanto a lui. Per diverso tempo restiamo in silenzio. È lui a romperlo.
“Pensi di risolvere le cose continuando a non parlare? Bel modo di scappare dai problemi, complimenti.”
Il suo commento mi fa sussultare. Non mi parlava da tanto e la sua voce profonda e così vicina mi ha spaventata per la prima volta.
Ho paura di mio marito? È assurdo! Non può essere. Io non dovrei temerlo.
E la cosa giusta sarebbe dirglielo, ma non ne ho il coraggio.
Sospiro, mi giro e cerco la sua mano nel buio. La stringo piano. Non possiamo guardarci, ma i nostri visi sono rivolti l’uno verso l’altro.
“Hai detto che devo accettare che Kiran se ne sia andato. Be’, io accetto il fatto che questo è il mio processo di guarigione, ma che non starò mai bene dal punto di vista mentale. Ne vale la pena, Kerchak? Me lo sono chiesta, sai, ultimamente. Vale la pena lottare dopo così tanti anni di sofferenza?”
“E che risposta ti sei data?”
Lui si porta le mani al petto – lo sento perché gli sono vicinissima – quasi gli facesse male il cuore. La sua voce ha tremato. Ha paura di sentire la risposta. Ma io voglio dirgli ogni cosa, anche se farà male a entrambi, anche se ci spezzerà del tutto.
“Ti avevo promesso che ti avrei parlato con franchezza, ed è quello che voglio fare.”
La mia voce trema in modo impercettibile, per il resto è volutamente incolore.
“Lo so. E…?”
“E non ne vale la pena, Kerchak. Non per me.”
“Perché?”
Gli sfugge un singhiozzo. Immagino i suoi occhi pieni di lacrime e mi si stringe lo stomaco in un nodo che mi fa salire un conato di vomito. Gli ho fatto male, ancor più di prima, ma è questa la verità. Aspetto che lui aggiunga qualcosa, ma non lo fa.
“Perché per me è troppo tardi per ricominciare. Senza nostro figlio io non sono nulla. Non sono una degna compagna e non… non posso più stare qui.”
Per Madre Natura, quanto è stato difficile dirlo. Ho la gola riarsa, come se non bevessi da giorni. Qualcosa mi si lacera dentro. Quante volte ho immaginato questo momento, nelle ultime settimane? Tantissime, miliardi, forse. Mi figuravo ogni possibile scenario, ma nessuno è al pari di questo. Restiamo immobili, entrambi incapaci di assimilare il tutto. Fatico io stessa, anche se l’ho detto.
Kerchak mi afferra una mano in un gesto disperato.
“Cosa stai dicendo? Vuoi… andartene?”
La voce gli si spezza del tutto.
“Sì.”
“P-Per sempre?”
“No.”
Mio marito si rilassa, ma dentro di me tutto grida:
“Sei solo una bugiarda!”
Ignoro quelle voci e dico una mezza verità.
“Ho bisogno di allontanarmi da tutto e da tutti. Per qualche giorno.”
Kerchak rimane senza parole.
“N-Non ti lascio sola in questo stato. Non posso. Se proprio vuoi partire, se non te la senti di restare per un po’, d’accordo, ma manderò qualcuno con te.”
“Kerchak…”
“No, ascoltami. Io ho ancora speranza. C’è una luce, in te, sotto tutto questo dolore. Tu devi solo scegliere la vita, anche se è la cosa più difficile. In questo periodo, mi sembra che tu stia meglio. Allora continua così, permetti alle cose di fare il loro corso e di cambiare, di migliorare. Se desideri stare sola per riflettere, lo capisco e lo rispetto. Mi occuperò io del branco e di spiegarlo agli altri, però, ti supplico, lascia che mandi qualcuno con te. Un maschio. Gli dirò di guardarti e basta, di starti lontano e di lasciarti in pace. Gli parlerai solo se vorrai, e così almeno avrai protezione.”
Un fiotto di lacrime di commozione mi sgorga dagli occhi come un diluvio. Non lo voglio fermare. Kerchak mi ama e si preoccupa per me, e io sto per spezzargli il cuore un’altra volta.
“Ho fatto finta” ammetto.
“Che?”
“Ho finto di sentirmi meglio solo per farvi un piacere, ma non è così. Non lo è mai stato e non lo sarà mai. Non voglio fare a gara a chi soffre di più di noi due, non sono così stronza, però non ce la faccio, Kerchak. Sono stanca di stare qui, ho bisogno di rimanere sola.”
“Soffrirai ancora di più. E anche tu hai mentito, se la vogliamo mettere su questo piano.”
Ha alzato di nuovo il tono.
“Se desideri mandare qualcuno con me, se questo ti fa sentire più tranquillo, fa’ pure. Non ho voglia di litigare ancora.”
Avrei voluto spiegargli tutto con più calma e più dolcezza, andarci piano, ma le parole hanno fatto fatica a uscire. Non avrei dovuto dire queste cose in tal modo e con una voce del genere, ma ormai è troppo tardi. Mi sento una grandissima stronza. Gli ho mentito un’altra volta. E sto così anche perché non voglio e non posso dirgli la verità. Se lo facessi, non mi permetterebbe mai di andarmene. E, nel profondo, una parte di me mi dice che non ho nulla di cui scusarmi, mentre l’altra fa il contrario. Apro la bocca per comportarmi in modo educato, per dirgli che lo amo, ma non ci riesco. Perché la verità è che sì, voglio allontanarmi, ma poi tornerei indietro. Lo amo così tanto che non sarei mai in grado di lasciarlo. E lui vorrà un figlio e ogni cosa ricomincerà daccapo. Non posso sopportare ancora tutto questo. Mi resta solo una cosa da fare. Non avrei voluto arrivare a tal punto, ma non ho altra scelta. Sono giunta a questa conclusione tra notti insonni, agitazione e incubi, ma è l’unica via che posso percorrere.
Aspetto che lui si addormenti, mi alzo con cautela, attenta a fare il minimo rumore possibile, esco dalla tana e sussurro:
“Addio, Kerchak. Ti amo, ma non ce la faccio. Se puoi, perdonami. Non soffrire per me, non me lo merito. Smetti di amarmi e dimenticami.”
Le lacrime scendono copiose sul mio viso e lungo il collo, mentre il dolore mi spacca il cuore, lo calpesta e lo fa a pezzettini. Passo davanti a ogni tana e dico addio a tutti, ma farlo con Zuri e Terk è quanto mi provoca più sofferenza, oltre a essermi allontanata da Kerchak. Come potrà dimenticarmi? Mi amerà per sempre, come io farò con lui. Non ci scorderemo l’uno dell’altra. Dirglielo in tono glaciale, però, è stato
giusto.
Quando arrivo alla fine del nostro territorio, mi guardo indietro un’ultima volta. La decisione che ho preso, ponderata per settimane, mi strazia come gli artigli di un leopardo che mi sventrano. Come quelli di Sabor che hanno massacrato il mio piccolo. I sensi di colpa si agitano in me al pari di un branco di pesci che si trovano in un fiume con troppa poca acqua. Dischiudo le labbra e le mie gambe tremano. Nessuno può salvarmi dall’inferno in cui sono precipitata. Nemmeno io stessa.
E così inizio a camminare.
Vado avanti, avanti e avanti per ore. Non guardo nessuno. Cammino e basta. Non mangio nemmeno e sono sempre più debole. Bevo. E passa un giorno. Alla fine crollo, distrutta, vicino a un albero. Mi fa male tutto, le gambe e i piedi chiedono pietà. La mia marcia è stata lunga e vissuta in solitudine, proprio come avrei voluto. Ho solo pensato:
Voglio allontanarmi il più possibile da qui.
Non ho riflettuto nemmeno su Kiran. Lui non vorrebbe tutto questo e non ho la forza di chiedergli perdono. Avrei dovuto proteggerlo e non sono riuscita a salvarlo. Come potrebbe perdonarmi, sapendo che ho lasciato suo padre? Come minimo, ora Kerchak avrà detto a tutti i maschi più forti del branco di venire a cercarmi, per questo ho anche corso. Dovevo andare via da lì il più in fretta possibile. E non tornerò. Non lo farò mai più.
Passo altri due giorni a camminare quasi senza riposarmi. Mangio per puro istinto di sopravvivenza, solo il minimo che basta per tenermi in forze, soprattutto vista la calura di queste giornate d’inferno in terra, come se il dolore che mi brucia dentro non fosse già sufficiente.
Con l’anima a pezzi, continuo a vagabondare. Non so nemmeno dove sto andando, ma è la cosa giusta. Anch’io credevo che ce l’avrei fatta, mi ero sempre lasciata un piccolo spiraglio di speranza, ma alla fine ho capito che non ce l’avevo più. Io non ho né vita, né futuro, né speranze, né sogni. Dalla mia esistenza voglio una cosa sola: la morte. E che sopraggiunga il più in fretta possibile.
Mentre sto per addormentarmi vicino a un albero, guardo la tempesta che arriva dal mare. Respiro il vento freddo e mi lascio bagnare da una pioggia ghiacciata. Ci sono delle fiamme, in lontananza, ma non mi curo di ciò che sta accadendo. Perché dovrebbe importarmene, in fondo? Non mi frega più di niente.
Vorrei trovarmi là in mezzo. Io non desidererei essere in quella tempesta, io sono quella tempesta. Essa è l’espressione più violenta e reale del mio dolore. Anche da qui, a centinaia di metri di distanza, vedo i cavalloni che si alzano con una forza che solo il mare riesce ad avere. E, in questo momento, il fatto che la sua potenza si stia sprigionando in tutta la propria cattiveria, mi fa provare un senso di sollievo. È come se quell’acqua riuscisse a capirmi, a leggermi fin dentro l’anima.
Mi sono allontanata abbastanza. Ora sono sola e vivrò un’esistenza immersa nel mio dolore, senza nessuno che mi dica nulla, senza unirmi ad alcun branco. È questa la decisione che ho preso e non tornerò indietro. Mai più, per nessuna ragione.
Il giorno dopo la tempesta, il vento sopraggiunto dal mare ha sparso in terra così tante foglie che ci cammino in mezzo per non so quanto prima di trovare di nuovo un terreno un po’ più stabile. I rami degli alberi più fragili si sono piegati, altri sono spezzati.
A metà mattina arrivo vicino a un albero. Salto su uno di quelli a fianco. C’è qualcosa di strano e, nonostante io non voglia parlare con nessuno, benché non mi importi se rimarrò muta, anche se non mi interessa più di niente e di nessuno, ho scelto io di vivere quest’esistenza, e sono pronta a pagarne qualunque prezzo, ma… Ma la curiosità, solo una scintilla di essa, si accende in me.
Ci sono tre creature vicino a una tana fatta con materiali della giungla, ma costruita in una forma che non ho mai visto. Anche loro sono strane. Parlano una lingua sconosciuta e, da come si stringono, sembrano una famiglia. Non so che creature siano, però presumo che si tratti di una mamma, un papà e un cucciolo. Non li vedo bene da qui, ma i suoni del piccolo catturano per un attimo la mia attenzione. La mamma lo tiene in braccio e lui si guarda intorno e sorride. Non capisco se ha peli o meno, sono troppo distante. Poi non riesco a guardare oltre. Quella famiglia felice mi ricorda ciò che io non ho più da tanti anni. Mi allontano, perché le lacrime stanno ricominciando a scendere. Non voglio vedere quella felicità che io non potrò più sperimentare.
Passo tutto il giorno a camminare e giungo fino alla spiaggia. L’acqua si è calmata e mi sdraio sul bagnasciuga. Rimarrò qui. Immobile. Ma è più difficile di quanto avrei immaginato. Col lento passare delle ore, tra sonnellini, risvegli, incubi, momenti in cui mi appisolo, altri durante i quali la testa mi gira e quei pochi di lucidità, i morsi della fame mi tormentano, ho sete, tutto in me grida disperato:
“Mangia, bevi!”,
ma io non gli do ascolto. Sopporto, stringo i denti per non gridare, mi indebolisco sempre di più, per cui dico alla mia mente di non farmi alzare. Io voglio rimanere qui, voglio lasciarmi morire. Senza Kiran, niente ha senso per me. È tutto inutile, non tornerò mai quella di prima, nemmeno se riuscissi a cambiare, neanche se lo volessi, neppure se ci provassi. Non servirebbe. E sono stanca di lottare contro le notti insonni, l’ansia, la depressione, il dolore e l’agitazione. Sono stufa, cazzo.
Passo tutto il giorno distesa. E anche il seguente. Non ho più forze, ormai. Sono disidratata, debole, stanca e affamata. Sto morendo.
“Ho paura” mormoro, e sono scossa da un fremito.
Prima non mi sentivo così, ma ora il pensiero di lasciare questo mondo mi mozza il fiato. Sto morendo chissà dove, in una spiaggia, da sola.
Ma non ho il tempo di pensarci. Un pianto risveglia per un attimo i miei sensi. Alzo la testa. È la stessa voce del cucciolo che ho sentito prima. È disperata e, per un solo istante, il mio istinto materno cerca di prendere ilsopravvento. Forse Sabor ha attaccato e ucciso i suoi genitori e lui è solo.
Per quel che mi frega…
I gorilla non adottano cuccioli di altre specie e, comunque, non lo conosco. Potrebbe rappresentare un pericolo per me. In parte vorrei almeno vederlo, però non ho la forza di alzarmi, quindi lascio perdere. Il suono si fa sempre più ovattato, anche se è irritante, e alla fine mi addormento.
Durante la notte, avverto una fitta al petto più forte delle precedenti. Non si tratta solo di un dolore interiore, è qualcosa di fisico. Respiro con affanno e difficoltà, vomito quel poco che ho mangiato, ho una sete tremenda e sbavo. Che mi sta succedendo? Non so più se sento il pianto o se è solo un’allucinazione, ma, ancora una volta, non ci bado per nulla. È la natura a decidere chi deve vivere o morire in questa giungla, non io. E non mi è mai importato di lui o della sua famiglia. Ero solo curiosa, però ora anche quel sentimento è spento. Mi lascia del tutto indifferente.
Il mio cuore accelera i battiti e il dolore è così straziante che grido:
“kiran!”
Un ultimo, disperato urlo di una mamma che ha perso il suo cucciolo e che sta per raggiungerlo. Chissà se il mio branco mi troverà e che ne sarà del mio corpo, ma almeno il mio spirito sarà tranquillo per l’eternità. Non so quanto tempo passa. Alla fine non sento più niente, smetto di respirare e raggiungo la pace eterna che ho tanto agognato.
   
 
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