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Autore: LubaLuft    27/04/2024    1 recensioni
Questa BokuAka è lo spin off di "Di gatti, dinosauri e chiari di luna" ma può essere letta anche da sola.
Dal testo:
"Accade allora qualcosa che ha sempre a che fare con gli eventi che si sommano casualmente e si attestano poi come fatti.
È un fatto che nella carrozza dopo la sua, verso la coda del treno, ci sia Kōtaro Bokuto, con la sua tuta dei MSBY Jackals, che dorme occupando quasi due posti. Keiji si ferma reggendosi con una mano al poggiatesta del sedile di fronte e resta in muta contemplazione di ciò che ha davanti.
Kōtaro è immenso. Una gamba allungata sotto il tavolino, l’altra piegata e aperta, a mostrare l’interno della coscia, tesa e muscolosa. Le spalle sono rilassate, larghe. Accoglienti.
La testa è reclinata verso il finestrino, dalle orecchie scende il filo degli auricolari. Le braccia, massicce, sono incrociate sul petto.
Quando dorme è serio. Solenne, quasi (..) Keiji osserva ora le sue mani. Quante volte hanno salvato Kōtaro? Quante volte gli hanno alzato un punto, scatenando felicità, godimento, esaltazione laddove solo poco prima c’era stato smarrimento, difficoltà, estraniamento? Quante volte gli ha gridato 'tua, Bokuto-san!'
E perché ora è così difficile svegliarlo? ..."
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Keiji Akaashi, Koutaro Bokuto
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 1  - Con i guanti bianchi 

 

Triptano, pensa Keiji Akaashi mentre uno sbadiglio gli regala uno spasmo doloroso lungo lo zigomo.

L'aura gli accarezza già la parte destra del viso e fra meno di quarantotto ore pioverà, ne è certo. 

Soffrire di emicrania, in fondo, è come avere capacità divinatorie. 

O forse, più semplicemente, è come avere una stazione barometrica trapiantata nel cervello? Fatto sta che ogni volta che Keiji accoglie il mostro in uno dei suoi emisferi, quello poi gli regala la pioggia: sono infatti gocce salate di dolore quelle che gli scivolano dall’occhio lungo la guancia e che preludono alle lacrime che cadranno dal cielo. 

Gli viene in mente Emily Tallis, in Espiazione. La sua emicrania descritta da Ian McEwan in maniera sublime come “una pantera in gabbia che si sposta indifferente alla sofferenza per il solo fatto di essere sveglia, per noia, per muoversi e basta, o per nessuna ragione, e senza alcuna consapevolezza”.

Keiji odia la sua emicrania ma ne adora comunque le potenzialità letterarie. La sua, però, non è rappresentata tanto da una pantera quanto da un serpente, un serpente colorato che entra con prepotenza nella sua testa e scivola finché non raggiunge quel punto esatto che inizia poi a pulsare e che Keiji vorrebbe estirpare con le sue stesse mani.

Piange senza volerlo, senza saperlo, quasi.

Si asciuga le lacrime con un fazzoletto che ha in tasca, le soffia via dal naso mentre cede a un altro sbadiglio e con mano impaziente fruga nello zaino. 

Non ha la forza di guardarci dentro e le dita allora vagano e faticano fra gli appunti, il tablet, i resti di un panino, un libro, finché non trovano sul fondo una scatolina di cartone con una scritta stupida sopra, come lo sono tutte le scritte sulle scatole dei farmaci.

La apre e tira fuori un blister tutto accartocciato e sprimacciato, che però contiene per miracolo un’ultima pasticca. La promessa della redenzione, la radice a cui afferrarsi mentre il terreno sprofonda.

La manda giù a secco e aspetta. Serpente o pantera, quella è la gabbia, calata dall'alto sul mostro.

Effetto rapido. 

Passano quindici minuti e il malessere si attenua, anche se non sparisce. Il grilletto non scatta più ma il suo sistema nervoso rallenta e la visione a destra resta offuscata anche se le lacrime cessano.

Fra meno di quarantotto ore pioverà.
Fra meno di quaranta minuti arriverà in stazione.
Oggi sono due anni senza Midori.

Sua sorella non aveva mai sofferto in vita sua di emicrania, eppure quando a Keiji veniva l’aura la sentiva anche lei. 

Capita, a volte, tra fratelli. 

Capita anche di morire e sopravvivere, e Keiji è il sopravvissuto, la sua aura in questo è una prova incontrovertibile.

Anche la fortuna di aver trovato quell’ultima pasticca è una prova, la fortuna di non esserne sprovvisto, la fortuna di non aver attraversato la strada, come Midori, nel preciso istante in cui una macchina impazzita le veniva incontro, partita chissà quanti anni prima per raggiungerla proprio lì. 

Per nessuna ragione.

Come la pantera della signora Tallis, ma più veloce.

Quando sua madre lo aveva chiamato per dirgli di Midori, Keiji era in ufficio e era corso veloce in ospedale pur sapendo che il grilletto era ormai scattato, che la pantera era balzata con le fauci aperte e che la morte aveva preso ciò che doveva prendere. Era inevitabile, dopotutto si trattava di uno schianto ad almeno 80 km orari e prova ne era la lunga striscia di pneumatici sull’asfalto, sfumata verso la fine, come il tratto spazzolato in un'opera di calligrafia.

Keiji aveva ragionato subito in termini di probabilità, per far sì che la disperazione non lo ingoiasse subito con un boccone solo, e aveva deciso che si era trattato sicuramente di un caso: non c’era stato un accanimento del destino, non si era trattato di sfortuna ma di una somma casuale di eventi che si erano trasformati in un fatto.

È un fatto anche che Keiji abbia sofferto di depressione, un fatto naturale e necessario. 

È naturale che per un certo periodo di tempo abbia lavorato poco perché a corto di idee, è naturale che la sua casa editrice lo abbia messo a correggere bozze in un ufficio distaccato, per fargli cambiare aria. È naturale che diverse volte si sia svegliato di notte sudato e con il cuore in gola, sognando di guidare quella macchina e di sterzare. Di disegnare un tratto nuovo sull'asfalto. 

È naturale che abbia tagliato i ponti, finto di avere impegni, cambiato telefono, cancellato numeri.

Un fatto a tempo indeterminato con cui ormai convive senza problemi.

Si alza per andare alla toilette a sciacquarsi il viso.

Il bagno della sua carrozza è fuori servizio ma quello della carrozza a fianco funziona ed è pulito - meno male, perché l’emicrania accentua la sua percezione dei cattivi odori.

A quell’ora il treno è semivuoto, in parecchi sono già scesi.

Si sciacqua il viso, esce dal cubicolo e naviga a ritroso per tutta la carrozza, sballottato come su di una scialuppa in mare aperto. Il triptano fortunatamente ottunde i sensi e anche i riflessi vagali, per cui la nausea è sotto controllo. 

Accade allora qualcosa che ha sempre a che fare con gli eventi che si sommano casualmente e si attestano poi come fatti.

È un fatto che nella carrozza dopo la sua, verso la coda del treno, ci sia Kōtaro Bokuto, con la sua tuta dei MSBY Jackals, che dorme occupando quasi due posti. Keiji si ferma reggendosi con una mano al poggiatesta del sedile di fronte e resta in muta contemplazione di ciò che ha davanti.

Kōtaro è immenso. Una gamba allungata sotto il tavolino, l’altra piegata e aperta, a mostrare l’interno della coscia, tesa e muscolosa. Le spalle sono rilassate, larghe. Accoglienti.

La testa è reclinata verso il finestrino, dalle orecchie scende il filo degli auricolari. Le braccia, massicce, sono incrociate sul petto.

Quando dorme è serio. Solenne, quasi. 

Il suo borsone giace sul sedile di fronte. Accanto, una busta di carta di una nota catena americana di caffè e dolci a buon mercato.

Che schifo, ma ci può stare, Kōtaro è goloso.

Keiji resta immobile e ringrazia il triptano perché gli rallenta tutto (tutto tranne il cuore, che corre esattamente come quel treno) e lo salva dalla tentazione di allungarsi su di lui e di svegliarlo con un colpetto sulla spalla, perché l’orologio dice che il treno è quasi arrivato a Tokyo e Keiji quando si tratta di Kōtaro si preoccupa sempre. Per un lungo istante, che lo tende come una corda, teme che il suo senpai rimanga a dormire sul treno, ma è solo un attimo. Sono finiti i tempi in cui Keiji interveniva sul continuum spazio-tempo per adattarlo a Kōtaro. Per farlo stare bene.

Indietreggia di un passo, poi di un altro passo.

Ci penserà il solerte capotreno, semmai, a svegliarlo con le sue mani inguantate di bianco, si è appena ricordato che il treno muore a Tokyo. Qualcuno lo salverà.

Poi però smette di indietreggiare e si ferma.

Keiji osserva ora le sue mani. Quante volte hanno salvato Kōtaro? Quante volte gli hanno alzato un punto, scatenando felicità, godimento, esaltazione laddove solo poco prima c’era stato smarrimento, difficoltà, estraniamento? Quante volte gli ha gridato tua, Bokuto-san!

E perché ora è così difficile svegliarlo? Perché abbandonarlo al capotreno?

Perché non lo ha mai cercato per dirgli di sua sorella?

Negli anni si sono sentiti molto sporadicamente e Keiji non gli ha mai scritto nulla di personale, solo complimenti per le sue vittorie, auguri di compleanno e buon anno.

Ha scritto soprattutto nella chat assurda che condivideva con gli ex compagni di squadra, i “🦉🏐Fukurodani Boys🏐🦉”.

Cose da rimpatriata virtuale una volta ogni tanto, con un paio di giorni di messaggi fiume e poi silenzi lunghi mesi. 

Ti ricordi quel punto? Quella finale! Quel muro del Nekoma, il niente-tempo dei gemelli Miya!

Sì, mi ricordo. E non provo nulla. Io non ci sono più.

Poi, dopo Midori ha cambiato telefono e numero. Non ha importato la vecchia rubrica, solo il numero di Kōtaro che ha salvato come una reliquia ma che non ha mai chiamato.

Un calo di tensione fa sfarfallare le luci.

L’occhio destro è affaticato, semichiuso. Keiji si specchia nel vetro del finestrino e rabbrividisce: ha la barba cresciuta e in disordine, mezzo viso in parestesia, è vestito male. È inguardabile, se anche ci fosse una sola ragione valida per guardarlo.

Riprende ad arretrare, quasi corre per tornare al suo posto. 

Ragiona sul da farsi: deve arrancare fino alla prima carrozza, in modo da scendere all’inizio del binario. E poi camminare veloce e perdersi nella folla. Un piano di semplice attuazione anche per uno che ha solo mezzo cervello funzionante e solo un occhio veramente aperto.

Raccoglie zaino e trolley. Il cuore ormai va per conto proprio, l’ansia lo stritola, è come se sapesse che da un momento all’altro possa venire scoperto e catturato come un ladro. Come uno che ha da nascondere qualcosa.

Il treno si ferma.

Scende. Finisce in mezzo alle rapide di bagagli e gente che si saluta e si bacia. Cammina con difficoltà finché non inciampa e rovina sul marciapiede. Lo zaino è aperto e gli vola via tutto, anche gli occhiali. 

“Cazzo!” Geme. Se si abbassa e, soprattutto, se abbassa la testa, non si rialzerà mai più.

Inizia a recuperare a tentoni gli oggetti sparsi intorno a lui, come se fosse diventato improvvisamente cieco, finché non sente una voce conosciuta che pronuncia il suo nome. 

Akaashi!
Sei tu??

La voce è immensa. Kōtaro ha un apparato di fonazione che produce suoni profondi e forti anche senza gridare. Possiede proprio un volume alto di suo e lo sente nonostante il vociare della folla che li circonda e la motrice dello Shinkansen Hayabusa che ancora fa rumore.

Akaashi!

Non ha più importanza se sia una pantera o un serpente a soffocare la sua lucidità. La mente si sintonizza su quella voce, quelle note gravi e solide che escono dalla glottide di Kōtaro e che si strutturano nella sua bocca.

Un’ombra cala intanto su di lui, accanto a lui. 

“Akaashi, sei davvero tu?”

Keiji geme di nuovo. 

“Non… non posso abbassare la testa. Non posso raccogliere nulla.”

“Ti senti male??”

“No. È l’emicrania. Ora mi passa.”

“Aspetta, ti aiuto ad alzarti. Appoggiati a me!...”

Ma Keiji non si appoggia, è Kōtaro piuttosto che lo agguanta e lo raddrizza. Keiji si sente improvvisamente come disarticolato, leggero. Kōtaro lo fa sedere su una panchina poco distante e si mette pazientemente a raccogliere tutto quanto è ancora disperso sulla banchina. 

Poi siede accanto a lui, con lo zaino in grembo.

“Akaashi, dimmi ti senti meglio? Ma da dove vieni?”

“Da Morioka. Per lavoro.”

“Io da Sendai! Pensa che ho quasi beccato Kurō… ma poi… vabbè lasciamo perdere!!” Esclama a voce alta. “Da quanto tempo non ci vediamo? Il tuo numero…” Aggiunge poi ma con un tono più basso, meditabondo, guardando nel vuoto, come se davanti ai suoi occhi, anziché il cemento della banchina, ci fosse un abisso di eternità.

Keiji  si chiede la stessa cosa. Da quanto tempo non sente il suo respiro che a riposo lento, profondo? Da quanto tempo non incrocia quegli occhi grandi, gialli, che sprizzano follia, che ti disarmano quando sono allegri e che ti sciolgono quando si fanno tristi?

Forse da prima Midori…  sicuramente, anzi.

“Da un po’... è vero.” Risponde poi con un filo di voce. Se un po’ vale come misura. L'ha pescata da quello stesso abisso, forse.

"Controllamo se ho recuperato tutto?...”

Keiji si fa coraggio e abbassa lo sguardo verso lo zaino aperto. Stranamente, la testa non gli parte, l'occhio ci vede meglio. Il triptano ha fatto effetto? O non è stata piuttosto la cura, la calma, la vicinanza del suo amico a ridurre dolore e panico a brandelli? Stava fuggendo via e ora si trova sotto la sua ala. Sta meglio.

“Dovrebbe essere tutto a posto. Grazie Bokuto-san.”

Keiji si rialza ma canta vittoria troppo presto ed è costretto a sedersi di nuovo. È come se fosse svuotato. Se potesse chiudere gli occhi, riaprirli e trovarsi magicamente in camera sua, si infilerebbe nel suo letto così com’è adesso: vestito, sudato, con la barba, con i postumi dell’emicrania e del farmaco che ha assunto. E poi ha lo stomaco pieno di acido. 

Fa schifo. Sì, vorrebbe aver appena chiuso la porta del suo appartamento, che però è a quasi un’ora di metro dalla stazione. Anzi, è meglio che si avvii.

Si alza nuovamente. Se cammina piano forse ce la fa.

“Hey! Aspetta un attimo! Come ci torni a casa?” Chiede Kōtaro. Che gli afferra un polso con la sua mano grande e calda. Lo trattiene, non si fida.

“C-con la metro...”

“Ti va se ci prendiamo prima qualcosa di caldo?”

“Ma è quasi l’una… non vuoi tornare a casa?”

Kōtaro fa un sorriso che accorda perfettamente gli occhi enormi e la bocca.

“No! Non se tu stai ancora così!”

“Sto bene, davvero.”

E a casa sua starà meglio, dopo una doccia. Perché se gli resta accanto, la sua vicinanza farà da calamita e gli strapperà dal cuore tutto: L'emicrania, Midori, la solitudine e qualcosa che per anni è rimasta come a pelo d’acqua, qualcosa che galleggia in un punto imprecisato della parte più giovane della sua anima. 

Non è vero che non prova nulla. Non è vero che non c’è più.

Sono bastati dieci minuti per capirlo, con tutta l’emicrania.

“Ascolta: ci prendiamo un tè e vediamo come va. Se ti senti meglio, ok, altrimenti a casa ti ci porta il tuo senpai!”

Kōtaro è serio, nonostante gesticoli vistosamente indicandosi con entrambi i pollici. 

Lo guardano tutti e in effetti è uno spettacolo, grande e grosso com’è.

“Okay.” Risponde Keiji, altrettanto serio.

Ha mille ragioni per rifiutare e nessuna ragione per accettare, ma in quel momento nella sua mente si invertono i poli della questione. 

Kōtaro lo aiuta ad alzarsi. 

“Grazie.”

La motrice del treno si spegne di colpo e fa sì che trionfi uno strano silenzio, nel quale vibra solo un respiro profondo: quello di Kōtaro che si carica il suo zaino sulle spalle. Tira il trolley con una mano e con l’altra tiene i manici del suo borsone. Fa tutto lui, si carica anche del suo peso. E Keiji si sente leggero, finalmente. Il serpente non striscia più.

Il capotreno con i guanti bianchi, in piedi davanti al muso del treno, si inchina al loro passaggio.

 
   
 
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