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Autore: Ederaria    30/04/2024    5 recensioni
Questa è una raccolta di one shot (a carattere leggero/comico) spin-off della mia long precedente “Quattro stagioni”. Dunque sono immesse in quell’universo narrativo e sono rivolte solamente a chi quella storia l’ha seguita e apprezzata (e, banalmente: la conosce).
Genere: Comico, Fluff, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Aziraphale/Azraphel, Crowley
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Il maestro di violino

ovvero

Di eserciti ed eredità artistiche

 

 

Maggie stava riponendo sullo scaffale gli esercizi che, quella mattina, le erano stati consegnati dal corriere quando entrò Crowley, con la custodia dello Stradivari in una mano e una borsa piena di fogli pentagrammati che uscivano dai bordi in modo disordinato nell’altra – li aveva sicuramente schiacciati dentro alla rinfusa.

“Ah, sono arrivati! Era ora, cazzo!” esclamò lui senza salutare.

Le andò vicino e si mise a scrutare i volumi che le aveva detto di ordinare un mese prima.

“Ancora non capisco perché mi hai fatto prendere anche i Borciani”, disse Maggie, “Sono in italiano, i bambini a malapena sanno l’inglese…”

“Credimi se ti dico che è meglio familiarizzino subito con l’italiano. Lo sai pure tu che le indicazioni espressive su spartiti e partiture sono in quella lingua. L’Italia è un attimo essenziale per la storia della musica”.

“Eh, ho capito…”, Maggie non era troppo convinta, “Mi sembra comunque prematuro…”

“Naa!”, Crowley posò il violino e la tracolla ai piedi del bancone, “Lascia fare a me”.

“Chi hai oggi?” chiese Maggie.

“Timothy prima e Ruth dopo”, rispose Crowley, “Ma sono un po’ in anticipo. Vado a prendere un caffè da Nina; tu vuoi qualcosa?”

“No, grazie. Sono a posto”.

“Come ti pare. A tra poco” disse uscendo.

 

Maggie, avendo finito di disporre i testi sui ripiani, fece un passo indietro per meglio ammirare il suo operato, soddisfatta.

In una miriade di mobili ricolmi di LP e dischi vari, era ormai da tempo entrata a far parte del negozio anche la sezione dedicata agli spartiti per violino. Non ricordava più di chi fosse stata l’idea, se sua o di Crowley. Era successo in modo del tutto spontaneo: si erano guardati negli occhi, avevano pensato alla stessa identica cosa e l’uno aveva finito la frase dell’altra.

 

Erano trascorsi un paio d’anni da quel pomeriggio d’autunno; quel giorno diluviava. Crowley era passato da lei dopo le registrazioni, fradicio, alla ricerca di qualche incisione di Ughi* che, a quel tempo, si era incaponito nel voler studiare. Si era sfilato gli occhiali per ripulirli dalle gocce d’acqua che scivolavano sulle lenti nere per asciugarli, ma si era dimenticato di rindossarli. Mentre Maggie frugava e cercava, manco fosse la prima volta che la notava, Crowley aveva domandato, indicandola: “Cosa c’è dietro quella porta?”.

Maggie, estraendo trionfante da un mucchio le Sonate per pianoforte e violino 5 e 9 di Beethoven registrate dall’interprete a cui l’amico era interessato, aveva risposto: “Mah, niente di che. Dischi invenduti, copie rovinate e immondizia varia. Dovrei veramente decidermi a dare una ripulita”.

Crowley si era avvicinato alla soglia e, quando Maggie aveva assentito alla richiesta se potesse o meno aprirla, si era ritrovato in una stanza piuttosto spaziosa usata a mo’ di magazzino, piena di scatole sbrindellate e polvere.

“È roba che devi o vuoi conservare?” aveva chiesto Crowley.

“È per lo più roba che devo buttare, in verità” aveva ammesso lei.

“Se vuoi ti do una mano nel weekend…” aveva proposto lui, ma continuando a curiosare nella penombra, aveva scorto un vecchio leggio e, accostati alla parete, una coppia di pannelli fonoassorbenti. Incuriosito, aveva chiesto spiegazioni.

“Quando ho aperto suonavo ancora il violoncello. Credevo che avrei utilizzato questa stanza come sala prove nei tempi morti o quando il negozio era chiuso. Ma poi… Insomma: lo sai com’è andata. E il disordine ha preso il sopravvento”.

“È un peccato”, aveva risposto lui, “Ripulito e sistemato sarebbe un buono spazio per suonare. Anche perché, pure non insonorizzassi perfettamente, accanto hai Aziraphale che non credo ti romperebbe mai i coglioni se gli arrivasse qualche stonatura di un tizio che si sta esercitando con il suo strumento. Potresti affittarlo. Le sale prove ti svenano e i solisti in erba non se le possono permettere” aveva aggiunto non filtrando pensieri e parole emesse.

“Oppure…”, Maggie aveva preso a rimuginare scrutando anche lei quella camera dimenticata, “Più che una sala prove, potrei…”, si era interrotta per riflettere meglio, “Quello che è veramente proibitivo, Crowley, non sono le salette che affitti a ore, ma le scuole di musica, le lezioni. I bambini fanno già tremila cose oggi, attività fisica soprattutto. Ma se una famiglia deve pagare mensilmente una quota all’associazione sportiva del figlio, qualsiasi essa sia, ne viene che non ha anche i mezzi per coltivare magari il suo lato artistico. Ecco… Lezioni di strumento a prezzi stracciati come dopo scuola, quello sarebbe utile!”.

Si era fermata nuovamente e aveva guardato l’amico negli occhi, come illuminata da una sfolgorante idea che, un secondo dopo, era andata a riverberare nelle iridi distoniche di Crowley.

“Potresti…” aveva cominciato lei, “…insegnare il violino ai ragazzini” aveva concluso lui.

E, così dicendo, Crowley e Maggie si erano rimboccati le maniche, avevano ripulito la stanza, avevano comprato altri pannelli fonoassorbenti e li avevano disposti lungo tutte le mura. Ci erano entrati anche una piccola scrivania, una manciata di leggii, un paio di seggiole e un divanetto a due posti sgangherato, datato e di seconda mano, che avevano reperito non si sa come.

 

Crowley rientrò dieci minuti dopo.

“Cazzo, tua moglie prima o poi mi farà venire un infarto” disse sfilandosi il cappotto. Lo sistemò sull’appendiabiti.

“Non credo sia colpa del caffè di Nina”, rispose lei girando distrattamente le pagine di una rivista musicale, “È colpa tua che ne bevi troppi”.

Crowley grugnì in segno di plateale dissenso mentre recuperava il violino e la borsa ai piedi del bancone.

In quell’esatto momento fecero il loro ingresso una signora giovane dall’aria trasandata e un bambino mingherlino sui dieci anni che si portava dietro una custodia per violino più grande di lui. Ma non era solo quella a sembrare fuori misura: indossava un cappotto di qualche taglia in più e usurato (probabile riciclo di fratelli maggiori o cugini che, nel frattempo, erano cresciuti) e, ogni dieci secondi, tirava su col naso. Un bambino cagionevole col perenne raffreddore: di ragazzini così ne è pieno il mondo.

“Oh, il piccolo Timmy!”, esclamò Maggie vedendolo, un ampio sorriso che le andava da una parte all’altra del viso a corredare il suo benvenuto, “Sei guarito, menomale!”

“Eh, sì”, disse sua madre, “Sta bene ed è pronto a riprendere. A tal proposito, per il pagamento…”

“Non si preoccupi, signora”, intervenne Crowley, “Appena può, non c’è fretta”.

La donna parve rincuorata. Aiutò il figlio a levarsi la giacca e la sistemò sull’appendiabiti accanto a quella del maestro. Poi si chinò per baciare una guancia di Timothy.

“Ti vengo a prendere tra un’ora. Fai il bravo e suona bene” gli disse.

Il bambino annuì, tutto convinto, e seguì Crowley nella saletta in cui impartiva le sue lezioni.

 

I sessanta minuti, tra stonature e offese alla musica stessa, passarono lentamente. Crowley, oltretutto, si manteneva a debita distanza: era convinto che il ‘piccolo Timmy’, come lo chiamava affettuosamente Maggie, fosse un’incubatrice di germi e non intendeva ammalarsi a sua volta.

Quando lo salutò e lo riconsegnò alla madre, tirò un sospiro di sollievo.

Ma non ci fu il tempo per far riposare le orecchie poiché, poco dopo, entrò trafilata Ruth.

Ruth era una bambina di undici anni orgogliosa e intelligente. Se avesse avuto un briciolo di pazienza in più sarebbe stata anche piuttosto brava a suonare, Crowley vedeva in lei del potenziale. Tuttavia, se non le riusciva qualcosa si innervosiva e lasciava che i suoi scatti d’ira prendessero il sopravvento. E quel giorno non andò diversamente.

“Devi stare rilassata! Sei troppo rigida; la postura, la postura! Quante volte devo ripetertelo?” domandò Crowley spazientito.

“Ah, uffa!” esclamò la bambina lanciando il violino sul pavimento.

“E datti una calmata, ragazzina! Ma che modi sono?”, Crowley si chinò per recuperarlo, “Sai quanto costa uno Yamaha? Se lo rompi tua madre ti ammazza. Il tuo strumento va rispettato, se vuoi diventare brava non puoi mica lanciarlo per terra in questo modo!”

“Tanto non ci riesco!”, arrabbiata, mettendo su un broncio infantile, si mise a sedere sul divanetto incrociando le braccia sul petto, “Io non sarò mai brava!”

Sospirando, domandosi quante altre crisi come quella avrebbe dovuto scampare in futuro, Crowley le si sedette a fianco.

“Non ti dirò stronz-scemenze”, si corresse immediatamente scuotendo il capo, “Non ti dirò scemenze, Ruth. Non sei brava. Non ancora, almeno. Ma ti devi esercitare, credi che si impari a suonare così, in qualche mese di lezione? Ci vogliono anni di pratica e impegno, dedizione e costanza”.

“Tu quanto ci hai messo, maestro?” chiese la ragazzina spalancando gli occhioni nocciola, speranzosa.

Né voleva mentirle, né poteva ammettere che lui veramente ci aveva messo circa cinque minuti a capire come muovere le dita sulla tastiera dello Stradivari da bambino: l’avrebbe inutilmente scoraggiata.

“Lascia perdere me, non sono un esempio a cui rifarsi”, si risolse a dire, “Fidati, Ruth, fa quello che ti dico io e abbi pazienza. Devi solo piantarla di arrabbiarti se qualcosa non va subito come vuoi tu”.

“Va bene”, disse alzando le spalle; parve persuasa, “Ricominciamo?” domandò alzandosi e allungando una mano per farsi restituire lo Yamaha vilipeso.

 

Il resto dell’ora, fortunatamente, proseguì senza intoppi e ulteriori scenate.

“Ci vediamo la prossima settimana, Ruth. Esercitati a casa, mi raccomando” la esortò Crowley accompagnandola verso l’uscita.

“Com’è andata?” domandò Maggie vedendoli emergere dalla stanzetta.

“Una schifezza” rispose la bambina infilandosi il cappottino rosso.

“Suvvia, non ci credo proprio. Un po’ ti ho sentita suonare il Minuetto di Bach, che ti credi! Non era male per niente!” tentò di consolarla la donna.

La ragazzina si limitò ad alzare le spalle con noncuranza.

Fece per uscire.

“Ehi, Ruth!”, la fermò Maggie, “Non aspettiamo tua mamma ti venga a prendere?”

“No, mia mamma oggi non viene. Ha detto che dovevo tornare per conto mio. Mi sta insegnando a essere indipendente”, sostenne con fierezza la bambina, “E poi abito qui vicino”.

Maggie parve dubbiosa: fuori era già buio e, per quanto Soho fosse molto trafficata, non le sembrava affatto il caso lasciarla andare da sola.

“Facciamo così”, propose la proprietaria del negozio, “Ti accompagna il maestro oggi”.

Crowley, che si stava mettendo la giacca completamente assorto nei suoi pensieri, probabilmente proiettandosi già al momento in cui sarebbe andato a prendere Aziraphale per tornarsene nell’appartamento di Mayfair assieme – un luogo silenzioso e, soprattutto, pieno di vino –, spalancò gli occhi dietro le lenti nere esterrefatto prima verso la ragazzina, poi verso l’amica; le sopracciglia svettarono verso l’alto.

“Sua madre le sta insegnando l’indipendenza…” bofonchiò lui, interdetto, e, contemporaneamente Ruth, offesa: “Ma io non ho mica paura a tornare da sola!”

“Tesoro, lo so che tu non hai paura!”, sostenne Maggie lasciando la sua postazione e avvicinandosi a Crowley; si chinò e afferrò la borsa e la custodia del violino dell’amico e glieli sbatté con veemenza sul petto, “Sono io che non sono molto coraggiosa, sarei più tranquilla se permettessi a lui di accompagnarti. Al maestro credo vada molto di passeggiare con te, vero Crowley?” e lo guardò minacciosa.

“Ehm… suppongo di sì…?” rispose il musicista, vinto.

“Ok” disse la ragazzina, nuovamente alzando le spalle – sì, era decisamente uno dei suoi gesti preferiti. Oltretutto, era ovvio si stesse impegnando a recitare indifferenza, e lo fu ancora di più quando un sorrisetto di sollievo si aprì sulle sue labbra, tradendola.

“Forza, allora. Diamoci una mossa”, disse Crowley scortando Ruth verso la porta; poi, prima di uscire, alzando la voce, aggiunse: “Sono sicuro che la prossima volta sarà Maggie ad avere molta voglia di passeggiare”.

Maggie sorrise tronfia e li salutò con una mano.

 

Era vero, Ruth abitava a poche centinaia di metri da Whickber Street, vicino al palazzo di Maggie e Nina – elemento che, un domani, si fosse ripresentata l’occasione, Crowley non si sarebbe risparmiato dall’utilizzarlo per convincere l’amica a prendersi l’onere delle sue stesse preoccupazioni. Lei aveva l’ansia che la ragazzina rincasasse sana e salva e doveva essere lui ad accompagnarla? Ma era assurdo! Lui era il maestro di violino, mica un baby sitter!

Tuttavia, per tutto il tragitto, nonostante Ruth lo avesse intontito con vane chiacchiere fanciullesche e domande a cui lui aveva replicato con monosillabi generici, aveva avuto come l’impressione qualcuno li pedinasse… Più volte si era voltato per verificare i suoi sospetti, ma aveva scorto solo passanti che si facevano i fatti propri e seguivano la loro strada, ignorandoli.

“Ecco, sono arrivata” disse la bambina di fronte al portone.

Citofonò e, dopo pochi secondi, la serratura schioccò.

“Buona serata, maestro”.

Crowley le rispose con un cenno del capo, girò i tacchi e imboccò la via del ritorno.

Il suono dei suoi stessi passi coprì il “grazie” che Ruth pronunciò a mezza bocca.

 

***

 

“Crowley! Hai fatto tardi, ti stavo per telefonare!” esclamò Aziraphale vedendolo comparire nella libreria.

Trascinando i piedi, il musicista raggiunse il marito che se ne stava dinanzi lo scrittoio ma, invece di salutarlo, lasciò cadere in terra tracolla e violino, lanciò gli occhiali sul tavolo e si gettò, sfinito, sul divano – con un atteggiamento tanto drammatico quanto ostentato.

“Qualcosa non va, mio caro?” chiese il libraio divertito, era perfettamente conscio non ci fossero reali motivi per cui angosciarsi.

“Quella ragazzina mi farà diventare matto…” borbottò Crowley col viso premuto sul cuscino.

“Ancora problemi con Ruth?”

Crowley si risollevò con uno scatto e assunse una posizione più consona – o, almeno, consona per lui: seduto a gambe larghe, con la schiena incurvata sullo schienale e le braccia libere di gesticolare per aria.

“Ma è pazza! Oggi ha buttato il violino per terra in preda all’isteria! Cazzo, angelo, il modello che ha lei costa sulle quattrocento sterline! Pazza scriteriata!”

“Beh, spero tu l’abbia rimproverata senza eccedere”, Aziraphale si mise a sedere sulla poltrona tentando di contenere la sua ilarità: era sempre uno spasso per lui vedere il marito alle prese con i bambini, “In caso contrario saresti stato a dir poco incoerente: il tipico esempio del bue che dice cornuto all’asino” recitò con un dito puntualizzante sollevato all’altezza del volto.

“Scusa?”

“Anche tu sai essere abbastanza isterico se le cose non vanno esattamente come brami…”

“Io? Ma quando mai!” sostenne Crowley con aria innocente.

“Ah, devo forse ricordarti che fine hanno fatto le zucchine che avevi deciso di arrostire tu la settimana scorsa? O il gilet che non sei riuscito a ripulire da quella macchia di whiskey? Sembravi un folle mentre gli urlavi contro ogni genere di improperio intanto che lo facevi a brandelli! E proprio l’altro ieri quand-”

“HO CAPITO! Ho afferrato!”, lo interruppe Crowley esasperato, “Cazzo, Aziraphale, da che parte stai?”

“Ma dalla tua, ovviamente!”

“Sì, ovviamente proprio…”, Crowley lo guardò di sottecchi, gli occhi ridotti a due fessure, come a interrogarsi se continuare a lamentarsi fosse un’opzione, se la sua credibilità fosse già andata a farsi fottere.

Si alzò ringhiando – optò per continuare la sua performance.

“Timothy mi attaccherà il colera prima o dopo, lo so. Ruth mi farà venire un esaurimento nervoso!”, camminava avanti e indietro dinanzi ad Aziraphale che lo contemplava tra la costernazione e risa a stento trattenute, “Adelaide mi farà diventare sordo a furia di far stridere quel cavolo di violino – ti giuro, angelo, non so come non abbia ancora preso vita per fuggire da quella bimbetta sorda e incapace. E poi c’è Alexis che non dice una parola nemmeno se la preghi: ogni volta che le faccio una domanda pare io la stia torturando! Che cazzo! Ma i ragazzini problematici tutti da me dovevano venire?!”

Finalmente arrestò quel girovagare sul posto e, sospirando, si inginocchiò andando a posare la testa sul grembo del marito, per farsi accarezzare e consolare.

“Perché mi sono lasciato convincere dall’amica tua? Maledetta Maggie… Maledetta, maledetta…”

Intenerito da una scenetta che si ripresentava sempre tale e quale, Aziraphale assecondò l’implicita richiesta del compagno e prese a lisciargli i capelli. Si lamentava sempre e sempre, poi, gli andava vicino per farsi accudire. Aziraphale cominciava a sospettare fosse tutta una scusa per ottenere attenzioni e coccole – e mai, lo sapeva, l’altro avrebbe ammesso di desiderarle. Dunque, il libraio lo assecondava: stava ad ascoltarlo blaterale iracondo contro gli allievi e poi lo accoglieva nel suo corpo per dargli ristoro. Era altresì conscio del fatto che adorasse avere degli studenti che pendevano dalle sue labbra e che si prodigavano per lui tanto quanto lui si prodigava per loro: ma era un’altra delle cose che il suo orgoglio non gli avrebbe mai concesso di confessare – se ad altri o a se stesso non faceva differenza.

“Via, come sei melodrammatico”, gli sussurrò, chinandosi, vicino l’orecchio; posò le labbra sulla tempia di Crowley e gli diede un bacio, “Addirittura il colera? Credo non sia un problema di Londra da oltre un secolo…”**

“Guarda che se qualche ceppo è sopravvissuto credo il piccolo Timmy lo stia coltivando gelosamente per scaraventare contro gli inglesi una nuova epidemia. Quello è un’arma letale”, alzò il viso su quello di Aziraphale, “Cazzi tuoi, ormai siamo sposati: in salute e malattia, no?”

Aziraphale non riuscì più ad arrestarla ed esplose in una risata cristallina.

“Vorrà dire che affronteremo anche una recrudescenza del colera, insieme”.

 

***

 

La vita di Crowley era molto diversa da quella in cui era rimasto incastrato per cinquant’anni d’esistenza. A differenza di Aziraphale, aveva evitato l’abitudinarietà e la prevedibilità come fossero due cose riprovevoli. Tuttavia, la linea di demarcazione che il libraio simboleggiava, quella che aveva segnato un incontrovertibile prima e dopo, lo aveva restituito ad una routine che mai avrebbe creduto potesse appartenergli. L’unico aspetto di relativa incertezza rimanevano le commissioni di autori, band e orchestre che, ancora, si ritrovava a frotte nella sua casella postale virtuale. Ma non le accettava più tutte e, soprattutto, non le sceglieva a caso: aveva preso a studiarle attentamente per meglio decidere a chi vendersi – a volte accattivato dal compenso, altre perché credeva nel progetto. Dopotutto, adesso aveva altro da fare e non poteva passare le giornate in sala a registrare. Le mattine della settimana erano dedicate alle incisioni, i pomeriggi se ne rimaneva sovente in libreria a disturbare il marito – eccezion fatta per il martedì e il giovedì in cui aveva le lezioni con i quattro bambini: il suo piccolo esercito di disagiati, come amava definirlo tra sé. Il weekend componeva pezzi suoi – spesso a Tadfield, dove si recava col compagno all’incirca due volte al mese. Aziraphale gli aveva infatti messo in testa l’idea di registrare un suo proprio album, per un grande debutto sulle scene musicali in cui avrebbe finalmente rivelato la vera identità che si celava dietro al violinista misterioso. Crowley non è che fosse molto convinto, nutriva seri dubbi in proposito – da un lato temeva che quel disvelarsi avrebbe nuociuto ai suoi affari, dall’altro era intimorito dall’eventuale attenzione mediatica in cui sarebbe stato gettato qualora, disgraziatamente, avesse avuto successo. Conferenze stampa, concerti, interviste, persone con cui parlare… No. Proprio no. In un mondo in cui si sgomitava per vincere ed emergere, Crowley era l’individuo che osannava l’anonimato, che si accucciava nell’oscurità e che si vantava di possedere l’unico superpotere veramente utile nell’era delle infinite vetrine egotiste: l’invisibilità. Perciò, sì, scribacchiava note su fogli pentagrammati, componeva sonate e capricci, ma, con ogni probabilità, avrebbe rimandato il giorno del suo debutto a oltranza.

A volte gli mancava la sua solitudine, rimpiangeva il suo randagismo. Persino provava nostalgia nei confronti dei suoi demoni che pareva lo avessero immancabilmente abbandonato. Ma poi si voltava, vedeva Aziraphale intento a fare le sue cose – cucinare, leggere o scrivere –, con quell’espressione concentrata, le sopracciglia contratte e le labbra arricciate, e nel petto gli si accendeva un fuoco: nel paesaggio invernale arido e affamato che sempre lo aveva abitato, tornava la primavera. Germogliavano amore e speranze come fiori esotici e si levava alto nel cielo un sole che scaldava e illuminava benevolo, che accudiva e proteggeva i frutti del suo operato: il suo sole era Aziraphale. E, dopo qualche istante, ogni volta che lo lasciava risorgere dentro di sé, le sue inutili malinconie scomparivano con la stessa semplicità con cui erano emerse; si ritrovava a fissarlo con un sorrisetto ebete e, quando Aziraphale se ne accorgeva e chiedeva spiegazioni di quella strana espressione che sentiva egli stesso impressa sul proprio volto, gli rispondeva semplicemente: “mi piace guardarti perché sei ridicolo con quella faccia tutta assorta mentre fai le tue cazzate”. Aziraphale sorrideva a sua volta senza dire nulla e tornava alle sue faccende: lui lo sapeva, lo conosceva, Crowley era un libro che sapeva ormai a memoria ma che mai si sarebbe stancato di continuare a leggere.

 

Tornò il giovedì, il giorno di Timothy e Ruth.

Sin dalla mattina, il cielo era stato bigio e minaccioso. Aveva retto fino al primo pomeriggio quando tuoni e lampi avevano iniziato il loro concerto – overture al diluvio che, come una diva, sembrava volesse tardare per dar più risalto al suo ingresso in scena.

Il piccolo Timmy andò via con sua mamma attorno alle 17.00 e la pioggia arrivò assieme a Ruth. 

La bambina, entrando nella stanzetta, si sfilò zaino e cappotto e li buttò sul divanetto.

Crowley strabuzzò gli occhi: indossava una gonnellina scozzese e delle calze bianche bucate. Sulle ginocchia rimaste nude dagli strappi, un poco di sangue incrostato.

“Che hai fatto? Sei caduta?” le chiese.

Ruth abbassò lo sguardo sulle sue stesse gambe, come se nemmeno si fosse resa conto prima di quella domanda la condizione in cui versavano.

“Ah, sì. Ma non mi sono fatta niente” rispose tirando fuori il violino dalla custodia e mettendosi in posizione.

Era meno sorridente del solito. Già non è che fosse la ragazzina più solare dell’universo, ma Crowley sospettò che il suo fastidio, quel giorno, poco c’entrasse con le sue manie di perfezionismo.

Interrogandosi se lasciar correre o chiedere ulteriormente – se, insomma, farsi gli affari suoi o indagare –, alzando gli occhi al cielo, arresosi a quello che reputava giusto fare, piuttosto che a quello che voleva fare, le domandò ancora cosa fosse accaduto.

“Ma niente!”, esclamò lei, “Sono i Quelli!”

“I che…?”

“I Quelli, maestro!”, il fastidio di Ruth sembrava si fosse improvvisamente accresciuto non solo pronunciando la parola, ma anche perché Crowley continuava a ignorare cosa lei intendesse con quel pronome dimostrativo utilizzato a mo’ di sostantivo. Rimise lo strumento e l’archetto nel fodero. Quindi, sbuffando, spostando la giacca e lo zaino, si mise a sedere sul piccolo sofà. Si leccò un dito e prese a strofinarlo sul ginocchio per ripulirlo dal sangue.

“Cosa sono i Quelli?” incalzò Crowley.

“Sono dei bambini della mia scuola. Oggi dovevamo rimanere di più per fare dei lavori e mi stavano dando fastidio”.

Un campanello d’allarme si accese nel cervello del musicista: il bullismo era una brutta faccenda e lui, purtroppo, lo conosceva bene.

Tentando di mantenersi sereno e di non sovrapporre la sua esperienza a quella di Ruth, andò a poggiarsi col sedere alla scrivania e infilò le mani in tasca.

“Ti picchiano?”

La ragazzina scoppiò a ridere.

“Se! Ci devono solo provare”.

“Lo hai detto agli insegnati?”

“Mica sono una spia! Me la cavo da sola. Mia mamma mi sta insegnan-”

“Sì, ti sta insegnando l’indipendenza. L’ho già sentita questa”, la anticipò Crowley, “Guarda che chiedere aiuto non è mica segno di debolezza. Dà retta a me, ne so qualcosa”.

Sospirando, raggiunse Ruth sul divano e, come una settimana prima, di nuovo le si sedette accanto per provare a esserle d’aiuto.

“Che ti fanno?”

“Mi prendono in giro. Mi rubano le riviste che mi presta mia mamma e mi chiamano strega, fattucchiera, megara… Cose così”.

“Magari megera, Ruth…” suggerì l’uomo.

“No. Sono abbastanza sicura sia megara” sostenne lei, le ginocchia ormai ripulite dalle macchie di sangue.

“Come ti pare. E questo che c’entra con le ferite?”

“Stavo inseguendo Adam nel cortile per farmi restituire il New Aquarian che mi aveva rubato e sono scivolata” rispose con indifferenza.

“Mh… Ma poi te l’ha ridato il giornaletto?”

“Non è un giornaletto! È una rivista serissima!”, puntualizzò oltraggiata, “Comunque, sì, me lo ha ridato”.

“Tutto a posto, allora” Crowley fece per alzarsi ma Ruth allungò una mano e gli afferrò una spalla per non farlo andar via.

Sul volto della bambina si aprì un sorriso sadico e negli occhi le brillò una luce malevola che riuscì a far rabbrividire l’insegnante.

“Sto progettando una vendetta…” disse in un sussurro.

“Ah, sì?”

“Mio papà costruisce esplosivi. Un giorno ne rubo uno e lo porto a scuola. Lo metto nello zaino di Adam e, quando lo apre, BOOM” gridò direttamente nell’orecchio del maestro.

Crowley saltò sulla seduta; poi, riavendosi dallo spavento per quell’urlo inatteso, la guardò interdetto: come era possibile che una creaturina dall’aspetto così docile covasse nel suo animo un’indole tanto bellicosa?

“Mi sembra una reazione un po’ eccessiva, Ruth”.

“Non credo. Così impara. Poi tu che ne sai di quanto sono cattivi…”

Tirando l’ennesimo sospiro, Crowley si voltò verso di lei.

“Prendevano in giro anche me alla tua età, perciò lo so”.

“E perché?”

Sentendo la responsabilità delle sorti di quei poveri bambini ignari del fatto che avessero deciso di schernire proprio la ragazzina più pericolosa di tutta Londra, si sfilò lentamente gli occhiali dal volto e le mostrò i suoi occhi. Ruth spalancò la bocca, incredula.

“Vedi? Sono diverso. Mi dicevano che ero un mostro”.

“E tu che facevi?”

“Li menavo” rispose lui senza riflettere.

“Vedi allor-”

Ma io ero uno stupido!”, si affrettò a replicare per cercare di rimediare al suo errore, “Ero stupido e non avevo adulti a cui chiedere consiglio. Ora sono mooolto intelligente perciò ti svelerò quel segreto che avrei voluto tanti anni fa rivelassero a me”.

Ruth parve molto incuriosita, aguzzò vista e udito e disse in un soffio: “Sentiamo…”

“Assecondali e perderanno interesse. Ti chiamano strega? E tu digli che sei infatti la strega più potente che sia mai stata vista sulla faccia della Terra. Ti dicono megera – o megara, come piace a te? E tu rispondigli che sei la regina delle megere” tanto non sapete neanche che cazzo vuol dire, pensò senza dirlo, “Loro si divertono se ti arrabbi. Se non ti arrabbi il gioco perde attrattiva e diventa noioso. Perciò, prima di far saltare per aria la scuola, prova a fare questo. Se non funziona, pensiamo a un’altra strategia”, si tirò su dal divano e si stiracchiò – quel coso era davvero troppo basso per lui – “Ma promettimi che la bomba la teniamo come piano zeta, va bene?”

“Va bene” rispose Ruth, era palese si fidasse del suo maestro sopra ogni altro.

“Forza adesso, prendi il violino e cominciamo a suonare che qui abbiamo già perso troppo tempo per i miei gusti”.

 

Quando uscirono dalla stanzetta trovarono Maggie che si stava intrattenendo con la madre di Ruth: una donna avvenente, dall’età indefinita, con lunghi capelli scuri che incorniciavano un viso altero e intelligente. Indossava un lungo cappotto taffetà che dardeggiava riflessi che spaziavano tra varie tonalità di blu e di viola.

“Mamma, sei venuta!” esclamò la bambina andandole incontro, stupita nel vederla.

“Certo, non avevi l’ombrello; ti saresti inzuppata” rispose la donna accennando un sorriso lieve.

“Signora Pulsifer, sono lieto di vederla” le disse Crowley.

“Device”, lo corresse lei in un moto d’orgoglio, alzando il mento, “Anathema Device. Sposandomi ho mantenuto comunque il mio cognome”.

“Va bene, allora, signora Device. Scambiamo due parole, le va?”, poi si rivolse a Maggie, “Maggie, perché non porti Ruth da Nina e le fai assaggiare uno di quei cosi che piacciono tanto ad Aziraphale mentre io parlo un momento con la signora?”

Anathema passò l’ombrello alla figlia e Maggie, prendendo il suo, accompagnò fuori la bambina.

 

Rimasti soli, Crowley si schiarì la voce, ma fu la signora Device a rompere il silenzio.

“Spero non mi voglia ammonire sugli scatti d’ira di Ruth. Ne sono consapevole e preferisco che lei perseveri nell’esternare la sua collera: voglio che rimanga sempre a contatto con le sue emozioni e che non le censuri o le rinneghi” sostenne altezzosa.

“No, non si tratta di questo”, ma quando arriverà il giorno che ti distruggerà casa perché non riesce a pettinare una bambola poi ne riparliamo, pensò, “Volevo sapere se è a conoscenza del fatto che a scuola-”

“Ah, non mi faccia parlare della scuola!”, proruppe lei interrompendolo, “Deprecabile strumento repressivo dello stato!”

“Sssì, certo”, Crowley era allibito, “Non me ne frega niente della scuola in sé. O dello stato…”

“Beh, rimanere nell’ignoranza è una sua scelta” Anathema socchiuse gli occhi verso il basso, sdegnata.

Crowley tentò di racimolare tutta la pazienza di cui disponeva per non mandarla a quel paese.

Inalò un quantitativo d’aria esagerata e la risputò fuori sbuffando rumorosamente.

“Signora Device, lo sa che Ruth è vittima di bullismo a scuola?” chiese tutto d’un fiato per non concederle altre interferenze.

Sul viso della donna scomparve ogni rimasuglio di biasimo, alzò il volto e prese a fissare le lenti nere dell’interlocutore, seria.

“Quei ragazzini…”, disse meditabonda, in un tono sospeso, “Certo che lo so. Non sono cattivi, ma quando sono in gruppo seminano il terrore. Ho già parlato con i genitori del capetto, un certo Adam, sono brave persone… Deirdre mi ha detto che non fa che metterlo in castigo ma pare comunque riesca a fare sempre come più gli piace. Non se ne preoccupi, Ruth sa cavarsela”.

“No, non credo di essermi spiegato”, rispose Crowley portandosi una mano sulle tempie e prendendo a massaggiarsele, “È proprio questo che mi dà pensiero. Io non temo per sua figlia: temo per gli altri”.

“Cosa sta insinuando, mi perdoni…”

“Mi ha detto che suo marito costruisce ordigni esplosivi e, glielo dico chiaro e tondo, Ruth sta premeditando di rubarne uno e portarlo in classe per farlo esplodere!”

Il biasimo tornò a colorare lo sguardo scettico di Anathema assieme a un sorrisetto sbieco pieno di derisione.

“Signor Crowley, mio marito è un contabile” disse semplicemente.

Crowley non si risparmiò dal dimostrarsi confuso, inclinò il capo da un lato cercando il quesito giusto da porre alla donna tra le miriadi di domande che si affollavano nella sua mente. Ma fece prima Anathema.

“Mi stupisce che lei abbia preso sul serio i vaneggiamenti di una bambina di undici anni. Sono solo fantasticherie. Probabilmente Ruth crede che gli strumenti elettronici che il padre si ostina a maneggiare si rompano assecondando il suo volere. Ma lasci che la tranquillizzi: mio marito è solo imbranato e se un tablet o un computer gli esplodono sotto al naso è solo perché lui ama la tecnologia forse solo la metà di quanto la tecnologia odia lui. Se volesse costruire una bomba credo che riuscirebbe a trovare il modo di far nascere la vita piuttosto che annientarla. Dunque: non perda il sonno per questa cosa”.

Crowley si sentì stupido come poche altre volte nella sua vita.

“Dovrebbe invece preoccuparsi per le linee di forza che percepisco da un po’ di tempo a Soho”, continuò la donna cominciando a guardare per aria, scrutando l’invisibile, assorta, “C’è qualcosa che non va. Ma non so ancora cosa…”

Crowley indietreggiò di un passo e aggrottò le sopracciglia.

“Linee di forza…?” chiese.

“Sì, linee di forza. Le studio da quando sono piccola. In famiglia siamo occultisti da generazioni” e lo rese partecipe di quell’informazione con la stessa semplicità che un qualsiasi altro essere umano avrebbe utilizzato per dire, ad esempio, che lavorava come netturbino.

“Ah, certo… Le linee di forza, sì. Beh, signora Device, mi pare di capire che il destino di Londra sia nelle sue mani. Dunque lei continui pure a interrogare l’aldilà, io mi occuperò dell’aldiqua: più precisamente del fatto che Ruth impari a suonare decentemente e che non distrugga lo Yamaha prima della fine dell’anno. A ciascuno il suo dono…”

Anathema rimase assorta nel suo universo metafisico e non colse nemmeno un grammo del sarcasmo del maestro di violino.

Maggie e Ruth rientrano in quel momento.

La proprietaria del negozio passò un sacchetto di carta ad Anathema, riportandola nel mondo fisico.

“Signora, tenga. Sono un paio di Eccles Cakes. Ruth è proprio una bambina giudiziosa: non ha voluto mangiare nulla per non rovinarsi l’appetito per la cena, dunque mia moglie le manda queste per il dessert augurandosi vi piacciano”.

Ruth guardò sua mamma agognando un ‘brava’ che non arrivò. Arrivarono, invece, un timido sorriso e una carezza sulla guancia: alla bambina parvero bastare per inorgoglirsi del suo operato.

“La ringrazio”, rispose Anathema afferrando la bustina, “Siete molto gentili. Ringrazi molto anche sua moglie”, poi si voltò verso Crowley, “La saluto, signor Crowley”.

Prese una mano della figlia e la condusse fuori dal negozio.

 

“Che volevi dirle?” si impicciò Maggie una volta rimasta sola con l’amico.

“Ma sai che non lo so più? Quella donna mi dà i brividi…”

“Il solito esagerato. Io la trovo molto gentile”.

“Tu troveresti gentile pure un cane idrofobo, non conti. Come non conta l’amico tuo…”

L’amico mio sarebbe Aziraphale, alias tuo marito?” chiese Maggie con tono di scherno.

Ma Crowley rimase serio continuando ad interrogare la porta.

Dopo qualche secondo scrollò il capo, scacciò gli ultimi pensieri e perplessità, e si diresse verso l’appendiabiti per recuperare la sua giacca.

“Maggie, ho capito perché i miei ragazzini sono rincretiniti”, disse infilandosela, “Non è colpa loro, poveracci. Temo sia un’idiozia che hanno ereditato dai genitori”, poi recuperò violino e borsa, “A parte il tuo caro piccolo Timmy: quello è un sadico e un’arma batteriologica. Ci sterminerà tutti, prima o dopo”.

Crowley riuscì a schivare uno schiaffo che Maggie aveva direzionato contro la sua spalla.

Le fece una linguaccia, lei sogghignò, e andò via.

 

***

 

I mesi trascorsero, l’inverno passò e l’alba di una nuova primavera si levò sui cieli di Soho. Certo, quelli si ostinarono a restar foschi, ma le temperature tornarono miti e la vegetazione dei parchi di Londra a crescere vigorosa e florida.

Ma non era solo l’avvento della stagione della rinascita a bearsi dei suoi frutti; anche Crowley aveva un motivo per cui andare fiero: Ruth aveva pedissequamente seguito i suoi consigli in merito ai Quelli e, oltre ogni previsione, sembrava fossero diventati grandi amici e che l’avessero accettata come membro onorario di quella banda di scapestrati. Era infatti emerso che le rubavano le riviste perché segretamente interessati al loro contenuto esoterico e avevano preso a passare interi pomeriggi a disquisire di antiche bestie mitologiche e incantesimi, di campi magnetici e forze auratiche. Ruth gli aveva raccontato con sicura fede che da grandi sarebbero stati proprio loro a confermare l’esistenza di Nessie – già programmavano per filo e per segno il viaggio in Scozia nel quale avrebbero dimostrato al mondo intero che il mostro di Lochness era vivo e vegeto e che andava protetto.

Queste mirabolanti narrazioni, fortunatamente, non avvenivano mai durante le ore di lezione, ma quando Crowley riaccompagnava la bambina a casa. Capitava sempre più spesso e, nonostante amasse costantemente lamentarsene con Maggie o con Aziraphale, sotto sotto sentiva che non avrebbe mai voluto rinunciare a quella camminata in sua compagnia piena di chiacchiere e sogni, teorie e ingenuità. La prendeva sempre in giro, ma lei non si offendeva; anzi: rideva e rispondeva a tono, oscillando costantemente tra il rispetto per l’autorevolezza del suo maestro e piccole ribellioni innocenti.

Anche con gli altri soldatini del suo esercito i rapporti si fortificavano e davano buoni risultati: Alexis stava imparando a parlare in modo relativamente sciolto, Adelaide aveva fatto pace col suo violino fino al punto di farlo smettere di latrare e cominciare a cantare, e Timothy… Beh, Timothy si era ammalato un altro milione di volte e un milione di volte era guarito, stoico, ma pareva riuscire a tenere a bada le sue coltivazioni di germi e godersele per lui solo, come fossero i suoi animaletti domestici – l’incarnazione di Pestilenza ormai pensionato (o detronizzato da Inquinamento) che aveva abbandonato le sue mire di sterminio dei terrestri.

 

Era aprile e Crowley percorreva quella strada che ormai avrebbe saputo fare anche a occhi chiusi verso l’abitazione di Ruth, con l’allieva che gli trotterellava al fianco mettendolo al corrente delle teorie femministe che le aveva giustappunto quella mattina insegnato Pepper, di una guerra che si preparavano loro due sole a dichiarare al patriarcato e al maschilismo tossico. E che, ovviamente, era sicura avrebbero vinto.

Crowley l’ascoltava con discreto interesse, ma continuava ad avere la sensazione che qualcuno li stesse osservando. Era talmente perso a domandarsi se ci fosse una qualche fondatezza dietro quella perenne impressione che nemmeno si rese conto che erano giunti dinanzi al portone di casa della bambina.

“Maestro…?”

Crowley ritornò in sé.

“Oh, eccoci. Bene. Ci vediamo la settimana prossima”.

“Maestro, aspetta! Ti devo dare una cosa…” disse Ruth abbassando lo sguardo, improvvisamente velato da una timidezza che lui non credeva le appartenesse.

“Che mi devi dare?” domandò alzando vertiginosamente il sopracciglio sinistro.

La bambina gli passò il violino per farselo tenere. Poi si tolse lo zainetto dalle spalle, si accucciò per terra ed estrasse dai suoi libri un volantino spiegazzato. Si risollevò, rinfilò le bretelle della borsa e gli passò il foglietto. Lui lo prese restituendole lo Yamaha.

Era la locandina di uno spettacolo scolastico che ci sarebbe stato il lunedì mattina della settimana che sarebbe arrivata di lì a tre giorni.

Indovinando dove la bambina voleva andare a parare consegnandogli quel dépliant, uno strano imbarazzo lo colse.

“C’è questo spettacolo alla mia scuola…”, cominciò lei titubante, dondolandosi sul posto, gli occhi fissi sulle punte delle sue Mary Jane laccate di nero, “I professori ci avevano detto che chi voleva poteva esibirsi con quello che sapeva fare. Ci stanno quelli che balleranno, quelli che canteranno… Io suonerò il pezzo che stiamo studiando, l’Adagio di Albinoni. Mi chiedevo se… Insomma…”, si interruppe per trovare il coraggio di esplicitare la sua richiesta, “Ti va di venire a vedermi?”

“Non lo so, Ruth…”, rispose Crowley impacciato, “La mattina devo lavorare, sono impegnato”, tuttavia, non appena vide il viso di lei rattristarsi, si rattristò a sua volta, “Senti, non te lo posso promettere”, aggiunse, “Farò comunque del mio meglio per passare, va bene? Ma non ci restare male se non mi vedi”.

La bambina alzò il volto e gli sorrise, radiosa.

“Va bene!”, esclamò citofonando e, quando il portone si aprì, entrando, concluse con un: “Non ci resterò male se non vieni, ma ci spero lo stesso! Ciao!”

 

***

 

Davanti al leggio con lo spartito e ai vari microfoni della sala di registrazione, Crowley continuava a fissare l’orologio appeso al muro al di là dell’acquario in plexiglass in cui era rinchiuso.

“Ti mando in cuffia la base della terza traccia”, disse una voce metallica direttamente nelle sue orecchie. Crowley annuì oltre il vetro da cui intravedeva il tecnico che aspettava le sue direttive.

Dopo qualche secondo, cominciò a udire i fagotti che preludiavano il suo intervento. Tuttavia, più interessato al movimento delle lancette sul quadrante che non alle battute sul pentagramma, perse l’attacco e la musica si interruppe.

“Crowley, dovevi entrare alla quinta misura” riparlò la voce.

Sbuffando, Crowley si levò le cuffie, le posò sul leggio, e rimise il Guarneri nella custodia assieme all’archetto.

Uscì dalla stanza a passo svelto e raggiunse il tecnico, il quale, trovandoselo davanti, lo guardò sconcertato.

“Senti, Charles, ho un impegno. Devo andare via” gli disse Crowley sbrigativamente.

“Ma non siamo nemmeno a metà!” provò a ribattere l’altro.

“E allora!? Torno nel pomeriggio e finisco”.

“Lo sai che il pomeriggio le sale sono occupate, teniamo questa per te la mattina…”

Crowley ringhiò.

“Vorrà dire che allora le inciderò domani, o dopodomani o quando cazzo sarà! Non starmi a rompere i coglioni! È una faccenda importantissima, non posso mancare” e, senza perdersi in ulteriori spiegazioni, senza dare il tempo al tizio di provare a replicare in qualche modo, corse verso l’uscita e lasciò gli Abbey Road Studios.

 

Entrò nella Bentley e poggiò la custodia del violino sul sedile accanto al suo.

Mise in moto e, a una velocità impossibile, raggiunse in fretta e furia la scuola di Ruth facendo lo slalom tra gli altri veicoli che popolavano le strade di Londra.

Inchiodò dinanzi la struttura; nonostante l’urgenza, rimase lucido quando decise di portarsi appresso il Guarneri: non sarebbe stato affatto saggio lasciare uno strumento dal valore di diverse migliaia di sterline in un’automobile incustodita.

Quindi scese, richiuse la macchina e corse verso l’entrata dell’edificio.

 

Varcando la soglia, entrando nell’androne affannato, attirò l’attenzione di una bidella che gli andò in contro per domandargli chi fosse e cosa volesse.

“Lo spettacolo… Sono qui per lo spettacolo…”, disse boccheggiando – era troppo vecchio per mettersi a correre a quel modo –, “Mi ha invitato Ruth Pulsifer, suonerà il violino. Sono il suo maestro”.

“Ah, il maestro di Ruth. Prego, l’auditorium è di qua”, gli disse facendogli strada verso un lungo corridoio, “Ma non c’era mica bisogno si scapicollasse in questo modo! Mi ha fatta spaventare! Mancano dieci minuti, non è cominciato nulla”.

Crowley, seguendola docilmente, si tirò su la manica della giacca quel tanto che bastava per scoprire il polso. La bidella aveva ragione, non erano ancora le 10.00: l’orologio della saletta doveva andare avanti di parecchio.

Ma possibile che pure quando faccio tardi arrivo in anticipo? Ma che cazzo…! Pensò.

“Eccoci”, disse la signora indicandogli una grande porta a qualche metro da loro. Era spalancata e, dal suo interno, arrivava un brusio indistinto, un parlottare indomito di tutti gli spettatori – praticamente: genitori e parenti – che si stavano apprestando a rimirare le esibizioni dei bambini – praticamente: figli e nipoti.

Crowley la ringraziò e raggiunse l’auditorium.

Era uno stanzone molto grande, a pianta quadrata. Diverse file di sedie, ognuna delle quali già occupata, erano disposte dinanzi un palcoscenico di tutto rispetto, dai cui lati calavano due spesse tende di velluto rosso legate con cordoncini dorati in modo tale la scena fosse visibile: ma era spoglia, né una scenografia, né un qualche attrezzo drammaturgico la calcavano.

“Signor Crowley!”

Crowley si voltò e, appoggiata al muro sul fondo, scorse Anathema.

La raggiunse.

“Salve” la salutò.

“Alla fine è venuto, bene: Ruth ne sarà contenta”, disse la signora Device, poi voltò un poco il capo e indicò l’uomo che la stava impalato di fianco, “Lui è mio marito, non credo vi siate conosciuti”.

“Tanto piacere, signor Crowley, sono Newton” disse cordiale allungandogli una mano per presentarsi.

Crowley l’afferrò: una stretta anonima tanto quanto lo era il suo aspetto. Un giovane uomo sulla quarantina scarsa, con un viso da tonto e l’aria innocua. Inoltre, non poté fare a meno di notare che era vestito come se fosse ancora sua madre a decidere cosa dovesse indossare quotidianamente. Ad aggravare il tutto c’era la figura invece altamente autorevole della moglie, con quello sguardo affilato e l’atteggiamento di una che sapeva esattamente cosa voleva e che non era intimorita dal prenderselo. Stravagante, certo, ma bellissima e la sua persona intera rendeva più impietoso il confronto con quell’omuncolo molto più che ordinario che si portava dietro.

“Piacere mio”, rispose; ma, in quel momento, lo osservò meglio: aveva un nonsoché di familiare, “Scusi, ma non ci siamo già incontrati?” domandò perplesso.

Newton ridacchiò con aria colpevole.

“Suppongo mi abbia intravisto una delle volte che ha riaccompagnato Ruth. Ho cercato di essere discreto, non volevo mi vedeste…”

Anathema sbuffò contrariata e Crowley finalmente comprese che i suoi sospetti in merito all’essere pedinato, sì, erano assolutamente fondati.

“Mi scusi, ma se veniva lei ogni volta a prendere sua figlia perché caz-volo ha lasciato l’accompagnassi io?”

L’uomo sorrise docilmente, in un’espressione e metà strada tra vergogna e dolcezza.

“Su questo punto io e mia moglie non siamo molto d’accordo. Lei vuole lasciarla libera, io… Beh: io ho qualche difficoltà. Siamo dunque scesi a patti: Ruth crede di tornare da sola, ma io la seguo per accertarmi non le accada nulla di spiacevole. Ci tenevo, anzi, a ringraziarla per le sue premure, lei è davvero gentile. Sono molto più tranquillo da quando so che lei la scorta sana e salva fino a casa.  Sa, è solo una bambina e Londra è grande e minacciosa…”

“Non è più una bambina”, si intromise Anathema stizzita, “È una piccola donna forte e indipendente”.

“Mettiamo le cose in chiaro: la accompagno solo perché Maggie mi costringe e se non l’assecondassi mi darebbe il tormento. Non certo perché sono gentile…” Crowley mentì sapendo di mentire, omettendo completamente il fatto che lo divertisse oltremodo sentire i racconti di Ruth.

Le luci dell’auditorium si spensero e, sul palcoscenico, accompagnata da uno scroscio di applausi, fece il suo ingresso una signora arcigna e anziana: forse la preside o l’insegnante che aveva organizzato lo spettacolo, Crowley di certo non poteva saperlo. 

“Certo, certo”, fu di nuovo Anathema a parlare, e sussurrò quelle parole intanto che la tizia sul palco presentava al pubblico la scaletta delle esibizioni, “Ruth mi ha chiesto di dirle se si metteva davanti così almeno, in caso fosse venuto per davvero, lei se ne sarebbe accorta. Si è tanto raccomandata. Dunque, se non le dispiace…” e alzò un braccio in direzione di un punto preciso, verso il proscenio, dove voleva lui si mettesse. Perentoria.

Crowley, che un po’ la temeva, annuì e fece come aveva ordinato. Arrivato all’altezza della prima fila delle sedute, posò la custodia del violino in terra e si poggiò al muro lì di fianco.

Dovette sorbirsi una coreografia parecchio brutta sulle note di una canzonetta di una certa Billie Elish o Eilish – come diavolo l’aveva chiamata la presentatrice dell’evento non se lo ricordava già più –, un paio di pezzi cantati da due ragazzini decisamente talentuosi e la schitarrata di un giovanissimo musicista che era ovvio stesse prendendo lezioni di chitarra classica da diversi anni, con quella postura tutta impettita che Crowley aveva sempre reputato a dir poco ridicola. Poi, finalmente, fu il turno di Ruth.

Stupito dalle sue stesse emozioni, quando la vide camminare verso il centro del palco e inchinarsi in risposta all’applauso d’incoraggiamento degli astanti, esile e intimorita, cinta dal suo vestitino blu elegante, il cuore prese a martellargli nel petto. Cercò di fermarlo, di imporsi autocontrollo: mica è figlia tua, coglione, si rimproverò, ma non ci fu verso di arrestare le palpitazioni.

Il pubblicò tornò silenzioso e Ruth posizionò lo Yamaha sulla spalla.

Rilassata, Ruth, sembri una scopa vestita. Sciogli quei cazzo di muscoli.

Come se avesse udito il pensiero del suo maestro – che nemmeno sapeva essere proprio lì accanto a lei, sotto al palco –, si scosse un poco e distese schiena e braccia.

Crowley ghignò compiaciuto.

Ruth portò l’archetto sulla tastiera e cominciò a suonare l’Adagio.

Le prime quattro battute filarono lisce ma, alla quinta, invece di prendere il La il violino stridette un Si diesis steccando clamorosamente.

Ruth si immobilizzò e spalancò gli occhi, nel panico.

Silenzio.

Crowley aveva già allertato i suoi riflessi qualora lei, in preda alla familiare ira che temeva sarebbe presto sopraggiunta, avesse deciso di scaraventare lo Yamaha e l’archetto in platea per allungarsi e cercare di afferrarli prima che colpissero la faccia di qualcuno.

Ma non arrivarono né rabbia, né follie.

Sul viso dell’allieva leggeva solo paura e gli occhi di lei si inumidirono tanto che credette sarebbe scoppiata a piangere, pentita di aver deciso di esibirsi prima di essere pronta abbastanza.

Senza pensare, Crowley si chinò, estrasse il Guarneri dalla custodia, se lo portò sotto al mento e suonò l’attacco dell’Adagio per darle l’intonazione, per farle sapere che lui era lì, con lei; che non era poi tanto diverso da quando suonavano da soli nella saletta del negozio di Maggie.

Lei si voltò, lo scorse e sorrise.

Riposizionò il violino e si accodò alle note emesse dal Guarneri di Crowley, in un concerto all’unisono che durò giusto qualche misura poiché, appena Ruth riacquisì la sua sicurezza, il maestro smise di suonare lasciandola continuare per conto suo, per educarla all’indipendenza. Eppure Anathema si sbagliava, non era una piccola donna: era solo una bambina e Crowley, in quel momento, si augurò lo rimanesse ancora per lungo tempo, cosicché avrebbe potuto continuare a seguirla nell’apprendimento del suo strumento e sentirla narrare le fantastiche gesta che, assieme ai suoi nuovi amici, si augurava con tutto il cuore sarebbero riusciti a compiere.

Ruth suonò il resto del pezzo perfettamente e l’applauso entusiastico che arrivò quando lo Yamaha tornò quieto se lo meritò tutto. Ma lei, invece di rivolgersi al pubblico, inchinarsi per ringraziare o cercare tra la folla la madre e il padre, si voltò verso il maestro. I loro occhi si incontrarono, lui le sorrise e le batté le mani alzandole all’altezza del viso, facendole un cenno del capo in segno di approvazione.

Forse Crowley aveva appena trovato la sua erede.

 

***

 

“Caro, che ci fai qui a quest’ora?” domandò Aziraphale confuso vedendo comparire il compagno in libreria.

“Passavo di qui” disse Crowley indifferente. Lo raggiunse e gli diede un bacio a fior di labbra.

Poi posò il violino per terra, si sfilò gli occhiali da sole mettendoli sulla scrivania e si distese sul divano sospirando. Poggiò la testa su un bracciolo e cominciò a guardare il soffitto.

Aziraphale, finendo di riporre gli ultimi testi sullo scaffale – volumi che aveva tirato fuori solo una mezz’ora prima per mostrarli a un cliente che poi non aveva comperato nulla – lo raggiunse, impensierito da quell’atteggiamento anomalo: di solito il marito entrava come un uragano, non ricordava l’ultima volta che lo aveva invece visto tanto tranquillo e meditabondo. Ecco: di questo sì che doveva preoccuparsi.

“Crowley, cos’hai?” chiese il libraio come intimidito.

“Mi porti un po’ di whiskey?”

“Whiskey?”, Aziraphale afferrò l’orologio che gli penzolava dal panciotto per accertarsi fosse presto o tardi, “Ma, Crowley, non è nemmeno l’una. Non te lo do il whiskey a quest’ora!”

Crowley sbuffò.

“Che palle che sei. Ho bisogno di alcol. Mi sa che ho fatto una buona azione e vorrei davvero dimenticarla…”

A quel punto, ad Aziraphale fu tutto chiaro. Tirò un sospiro di sollievo e raggiunse il marito.

“Su, fammi un poco di posto” gli disse battendogli una mano sulla spalla.

Crowley tirò su la schiena, Aziraphale si sedette e, quando fu sicuro che l’altro si fosse accomodato, si ridistese e poggiò la testa sulle cosce del compagno.

“Sei dunque andato allo spettacolo di Ruth”, cominciò Aziraphale accarezzandogli i capelli, “È stato carino?”

“Bah… carino… Sarei dovuto rimanere in sala a registrare, te lo dico io. Mi stai facendo diventare uno smidollato…”

“E Ruth è stata brava?” domandò Aziraphale ignorando completamente l’ultimo commento.

“Bravissima. È stata bravissima”, un sorriso spontaneo si aprì sulle labbra sottili del musicista, ma, accorgendosene, lo cancellò tornando ad aggrottare le sopracciglia nella sua solita espressione contrariata, “Ho conosciuto suo padre. Mi ha detto che sono gentile…”

“Oh, tu gentile? Ma non ti conosce affatto, mio caro. Tu sei la persona meno gentile che sia mai esistita. Sei anzi scortese e cattivo!” lo rassicurò Aziraphale continuando a coccolarselo.

“Vero? Glielo vai a dire, per piacere? Tanto lo so dove abita…”

“Certamente, mi preparerò un bel discorsetto. Non capisco proprio come abbia osato tanto!”

“Vero, vero” bofonchiò Crowley.

Poi chiuse gli occhi e rimase a godersi le dita del marito che si muovevano sapienti tra i suoi capelli amaranto.

“Grazie, angelo” disse dopo un po’.

“Dovere, mio caro” rispose Aziraphale.

 

_________________________________________________________________

 

N.d.A.

 

Caro lettore,

eccoci giunti al terzo episodio.

Ti ringrazio per avermi ancora una volta donato la tua attenzione. Spero di non averla delusa.

Due precisazioni (inutili, eh, ma chi se ne frega):

*Uto Ughi è un violinista italiano tra i più famosi oggi.

** A mia conoscenza, l’ultima grande epidemia di Colera in Inghilterra è proprio quella di Broad Street (oggi: Broadwick Street), Soho, Londra, del 1854.

La scena finale, invece, è stata ispirata da un’illustrazione che ho letteralmente adorato sin dalla prima volta che l’ho vista: la trovi qui.

Che dire: suppongo si intraveda quanto io mi stia divertendo a ficcare in questi racconti personaggi che non erano riusciti a trovar posto nella narrazione principale. Spero tu te la stia godendo un centesimo di quanto me la sto godendo io.

Ti mando un saluto caro e rinnovata gratitudine.

Alla prossima,

Ederaria

   
 
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