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Autore: Flying_lotus95    04/05/2024    0 recensioni
Torino, 1944.
L'omicidio di un ufficiale tedesco, un uomo in fuga, una donna che cercherà di proteggerlo. Amore e odio, segreti e bugie, guerra e pace, sia dentro che fuori.
[𝘘𝘶𝘦𝘴𝘵𝘢 𝘴𝘵𝘰𝘳𝘪𝘢 𝘱𝘢𝘳𝘵𝘦𝘤𝘪𝘱𝘢 𝘢𝘭 𝘞𝘳𝘪𝘵𝘰𝘣𝘦𝘳 2023 𝘥𝘪 𝘍𝘢𝘯𝘸𝘳𝘪𝘵𝘦𝘳.𝘪𝘵]
Genere: Drammatico, Guerra, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Prompt: Argilla

 

Capitolo 13
(Argilla) tra le mani



 
 
Quando un desiderio cade, 
allora tu esprimi nuove stelle.
 


Torino, 1970
 
Il primo ricordo che Gabriele aveva di Agnese risaliva ai suoi primi cinque anni di vita.
Si era arrampicato sulla quercia più alta del casale, Romeo lo prendeva sempre in giro, additandolo come una scimmietta dispettosa che amava nascondersi nei posti più disparati.
Gabriele l’aveva vista giungere da lontano, con una valigia enorme in mano, i capelli raccolti e lo sguardo torvo e concentrato.
Era una donna bellissima, la più bella che Gabriele avesse mai visto prima di allora. Forse addirittura più bella di sua madre Anna.
Agnese si era fermata alle radici della quercia, alzando lo sguardo verso il ramo dove il piccolo si era arrampicato.
Inizialmente gli era parso che quella sconosciuta volesse rimproverarlo attraverso i suoi occhi castani e alteri, ma poi l'aveva vista sciogliersi in un lento sorriso.
Aveva poggiato a terra la valigia, si era tirata su la gonna e tolta le scarpe, e si era arrampicata a sua volta, raggiungendo il ramo.
Lo aveva invitato a seguirla ed insieme erano scesi giù dall'albero.
Anna li aveva trovati stretti l'uno all'altra, la sorella maggiore che non vedeva da anni che cullava quel bambino con una dolcezza tale da toccarle il cuore.
Per tanto tempo, Gabriele aveva pensato di esserselo sognato quell'evento. Che quel profumo di betulla e altea fosse stato frutto della sua illusione infantile.
Pian piano si era abituato alla presenza discreta di quella zia misteriosa, venuta da chissà dove, portatrice di chissà quale segreto che non aveva mai condiviso con nessuno.
Erano passati gli anni, i momenti belli e quelli meno belli, e Gabriele adesso si trovava a pensare ancora a lei, davanti la porta di quella libreria che Agnese aveva curato e accudito neanche fosse stata per lei una persona, una pianta o un cucciolo a cui dedicare tutto il suo amore e il suo tempo.
Erano giorni che il ragazzo passava di lì, ma quel martedì, caso aveva voluto che avesse notato la saracinesca aperta a metà, fermandosi più del necessario lì davanti.
Indeciso se entrare o andarsene senza pensarci troppo.
Si lasciò convincere nel vedere dalle vetrate la figura di suo nonno Furio, intento a spolverare gli scaffali.
Come attratto da una forza mistica, Gabriele si decise a varcare la soglia, sussurrando un permesso che aveva tutto il sapore di uno scusa.
Oltrepassò il bancone, la cassa, il vaso con le maioliche greche e raggiunse il salone dove suo nonno si era messo a spolverare gli scaffali in alto.
Ultimamente non aveva molto equilibrio, e in più di un occasione Furio aveva rischiato di cadere a terra mentre puliva, se non fosse stato per l'intervento tempestivo di Anna e Allegra, che per un motivo o l'altro, erano sempre lì nei paraggi a far qualcosa.
Con cautela, Gabriele decise di richiamare l'attenzione su di sé.
«Nonno! Che stai facendo, scendi giù» lo chiamò con delicatezza, cercando di non spaventarlo.
Nel voltarsi, il vecchio Furio sulle prime lo fissò con sospetto, poi dopo qualche secondo, gli sorrise calorosamente.
«Gabriel! Was machst du hier?» esordì l'anziano, scendendo con cautela le scalette di legno non proprio resistenti. Gabriele osservò ogni passo con estrema apprensione, pronto a buttarsi in avanti per aiutarlo.
Per fortuna, Furio scese la scala senza intoppi, tranquillo.
«Sei venuto a vedere le foto di Agnese? Ti aspettavo, ragazzo mio! Vieni!».
Gabriele aveva capito che il nonno non lo aveva riconosciuto. Negli ultimi tempi lo chiamava spesso Gabriel e si rivolgeva a lui in tedesco.
Alla curiosità espressa da Anna a riguardo, una domenica a pranzo tutti insieme, Furio aveva semplicemente risposto che, essendo tedesco, quel ragazzo avrebbe avuto difficoltà a capirlo se si esprimeva in italiano.
Gabriele aveva visto il volto di sua madre cambiare a quelle parole, farsi ombroso e triste.
Non conosceva quel Gabriel di cui suo nonno parlava, eppure sentiva di appartenergli, in un certo senso.
Come se la sua storia e quella di quel suo quasi omonimo fossero indelebilmente intrecciate l'una all'altra.
Seguì suo nonno fino alla poltroncina rossa dove ormai sedeva tutte le volte che andava lì, a rintanarsi.
«Setz dich, bitte» lo invitò Furio, mostrandogli la sedia accanto.
Gabriele non se lo lasciò ripetere una seconda volta.
Non aveva capito esattamente cosa gli avesse detto, ma nell'indicargli la sedia, era andato per intuito.
«Puoi parlare italiano, capisco lo stesso» provò Gabriele, sperando che il nonno cogliesse l'antifona.
«Mmh… va bene, figliolo! Agnese è stata una brava maestra con te a riguardo!».
Quella risposta detta con una certa serenità lasciò Gabriele terribilmente spiazzato.
«Quando Agnese partì per l'Italia, volle portarsi con sé l'album di fotografie… diceva che sfogliandolo, avrebbe avuto meno nostalgia di casa».
Furio iniziò a sfogliare il vecchio album di foto dalle pagine ingiallite e rose dal tempo. Ad ogni pagina, Furio carezzava una per una le fotografie apposte, talvolta indicando i volti di persone che a Gabriele erano note e altre che non lo erano.
«Oh, guarda! Questi siamo io e i miei fratelli! Ismaele era il più grande, poi venivamo io e Alfredo… due scavezzacollo inseparabili» affermò Furio sorridendo, quasi commosso.
Gabriele sorrise a sua volta, intenerito.
«Un po’ come me e Massimiliano» mormorò, cercando di essere compartecipe dei ricordi del nonno.
Ma l'uomo lo fissò interdetto, come se avesse appena sentito qualcosa di buffo e inappropriato al contempo.
«Massimiliano? E chi è Massimiliano?».
Gabriele non si stupì affatto della sua reazione. Tra l'altro, in quel momento, Furio non stava neanche parlando con lui, ma con una persona che evidentemente gliela ricordava.
«Mio fratello Massimiliano, nonno!» provò ugualmente a dire, sperando che nella mente di Furio trasparisse un barlume di lucidità.
Ma Furio restò con quell'espressione inebetita sul viso, perso nei suoi pensieri.
«Ma tu non hai fratelli, Gabriel!».
In un altro momento, Gabriele avrebbe riso di quel commento. Ma alla luce di quanto aveva appreso, si limitò soltanto a stendere le labbra in un sorriso amaro.
Un'altra cosa in comune che ho con questo sconosciuto, oltre al nome, pensò.
«Comunque, dicevo: io e mio fratello Alfredo siamo stati tanto legati. Poi i nostri genitori sono morti, e Ismaele si era appena sposato… mi ha dovuto mandare in Germania per non farmi morire di fame. Sono stati tempi duri…».
Gabriele quella storia la conosceva ormai a memoria.
Suo nonno, da quando aveva iniziato a stare male, gliela ripeteva sempre, quasi si sentisse perseguitato inconsciamente dal timore di dimenticarsi per sempre i loro volti, i volti della sua famiglia.
«È stato un bene che Ismaele, molti anni dopo, si sia preso in casa le mie figlie… la situazione in Germania non era delle più floride, e io e Levda ci eravamo esposti troppo… a volte penso di essere stato un cattivo esempio per la mia Agnese…».
Gabriele assottigliò lo sguardo. Voleva saperne di più a riguardo.
«Cattivo esempio? Perché?» domandò, studiando l'espressione dispiaciuta del nonno.
Furio si sistemò meglio sul divano, mugolando ad un dolore improvviso alla schiena.
«Perché se non le avessi insegnato, e soprattutto inculcato, cosa significasse battersi per una giusta causa, a quest'ora avrebbe cresciuto suo figlio in totale serenità. Magari accanto a suo marito».
A Gabriele mancò un battito nel sentire quelle due parole che, associate ad Agnese, le trovò altamente fuori luogo: figlio e marito.
«Anna si è sistemata, ha avuto i suoi tre figli, ha un marito che le vuole bene… Agnese è rimasta sola, per colpa mia».
Gabriele non capiva affatto cosa c'entrasse Furio con le scelte di Agnese.
«Non capisco, nonno…»
«Ti ricordi il giorno che sei venuto in casa nostra, ad arrestarci?».
Gabriele sgranò gli occhi a quella rivelazione.
«Cosa?».
Ma Furio non ebbe tempo di rispondergli, preso com'era dal flusso dei ricordi.
«Mentre gli altri soldati buttavano giù tutto, tutti i nostri libri, i nostri articoli, buttavano per aria i nostri oggetti più cari, ti ho visto andare dritto verso la stanza di Agnese… ne sei uscito e ti ho visto sorridere, ma non dal disprezzo. Sembravi stessi sorridendo dal sollievo. Perché Agnese non era più lì…» e come in preda ad uno spasmo improvviso, afferrò la collottola di Gabriele, avvicinando i loro visi, come se Furio fosse stato sul punto di dichiarare qualcosa di importante.
«…e non poteva assistere al tuo ulteriore degrado».
Quelle parole, dette a voce strozzata, fecero rabbrividire Gabriele, sentendosi investito di una colpa che non era sua.
«Mi sono sempre chiesto come avessi potuto farle una cosa del genere… lei ti amava…». La stretta al colletto della camicia perse lentamente presa e intensità, dando modo a Gabriele di raddrizzarsi, scioccato da tutte quelle rivelazioni.
«Ti ha amato così tanto, che ha dato a suo figlio il tuo nome, pur di redimerti».
Gabriele a quel punto si sentì come se tutto intorno iniziasse a vorticare talmente veloce da lasciarlo senza fiato e senza appoggio.
Gli tremava il labbro, e il respiro gli stava iniziando a mancare in gola.
Voleva scappare, fuggire via dai ricordi confusi di Furio che lo associavano ad una persona che non era mai stata, ad uno sconosciuto che aveva fatto del male alla sua famiglia.
«Però… io non ti ho mai davvero odiato. Sei cresciuto in casa mia, hai mangiato alla mia tavola, hai giocato con le mie figlie… prima che quelle leggi assurde prendessero piede nella nostra società, e scegliessero chi fosse nemico di chi».
Furio tremava, aveva gli occhi lucidi. Gabriele si sentì investito di quel dolore che faticava ad uscire fuori. 
Un dolore che aveva devastato suo nonno per anni, e non aveva toccato solo lui, ma anche il resto della sua famiglia.
«Sono convinto che in un'altra epoca, in un altro momento, tu e Agnese sareste stati felici… e magari il piccolo Gabo sarebbe potuto essere tuo. O forse no… ma almeno avresti avuto un finale diverso».
Gabriele si era reso conto troppo tardi di aver scoperchiato il vaso di Pandora, senza volerlo.
Il suo cuore non stava reggendo a tutte quelle rivelazioni, una più gravosa dell'altra.
Poggiò una mano sulla spalla del nonno, mordendosi nervosamente il labbro inferiore. 
«Mi dispiace, herr Furio. Mi dispiace per tutto il dolore e il dispiacere che ti ho causato…».
Per un attimo, per un solo, breve, istante, Gabriele impersonificò quel Gabriel a cui, per tutto il tempo, Furio si era rivolto.
«E voglio chiedere scusa anche ad Agnese. Per tutto il male che le ho fatto…».
Le lacrime non smisero più di scendere lungo le guance, rinfrescandogli il rossore spuntato sulle gote.
Furio gli mise una mano sul viso, commosso anche lui.
«È tutto passato, figliolo. È tutto passato…».
Gabriele era ormai in un fiume di lacrime. Avrebbe tanto voluto sentire quelle cose in un altro modo, magari attraverso le parole della madre biologica, del perché non si era presa in carico la sua crescita, e del motivo per il quale gli avesse lasciato in eredità quel nome tanto scomodo e greve.
Erano domande destinate a non ricevere mai una vera e propria risposta.
Nel frattempo, Furio staccò una delle fotografie dalla pagina ingiallita, e la pose al giovane, con dita tremanti.
«Qui tu e Agnese eravate insieme, ricordi? Avevi vinto la maratona… quanto eravate giovani!».
Gabriele osservò la foto, singhiozzante.
La prese in mano e guardò il suo quasi omonimo sorridere verso l'obiettivo, mentre stringeva a sè una giovanissima Agnese, radiosa come non l'aveva mai vista prima.
La foto era datata 17 luglio 1936.
Realizzò in quel momento, dopo due anni dalla sua scomparsa, che Agnese le mancava terribilmente, come l'aria.
Avrebbe voluto correre da lei e abbracciarla fortissimo, chiederle davvero scusa per non aver mai capito, per non averla mai potuta chiamare, neanche una sola volta, mamma.
Gli fece male realizzare tutto ciò, così male che avrebbe voluto scappare via da quella libreria, a gambe levate.
Ma si costrinse a restare, ad asciugarsi le lacrime e capire dove i ricordi di suo nonno lo stessero dirigendo.
«Vediamo altre foto, nonno, eh?» chiese infine Gabriele, il sorriso bagnato di lacrime. 
Come se ad un tratto si fosse svegliato da un bel sogno, Furio lo guardò con occhi nuovi, di nuovo stupito.
«Gabo?! Ma… da quanto tempo sei qui?» chiese, guardandosi attorno come se fosse alla ricerca di qualcuno.
«Da un po’, solo che non volevo disturbarti…» mentì sorridendo, sistemandosi la foto di Agnese e Gabriel nella tasca interna del giubbotto.
«Stavo dormendo, vero? Credo di aver sognato qualcuno… ma non ricordo bene chi fosse» replicò Furio, con aria stordita.
Gabriele gli mise una mano sul ginocchio, stringendoglielo appena.
«Hai chiamato zia Agnese più volte…».
Glielo disse più per studiare la sua reazione che per presa in giro.
Furio annuì lentamente alle sue parole.
«Sì, tua zia, la sogno sempre…» commentò, coprendo con la sua mano rugosa quella più giovane del nipote.
Si sorrisero a vicenda, come se nessuno dei due stesse celando qualcosa all'altro.
«Vediamo le foto, su».
Mentre quella più importante, Gabriele l'aveva nascosta a pochi centimetri dal cuore.

 
 
♡◇♧
 


Steso sul dondolo in giardino, Gabriele continuava a fissare la foto di Agnese e Gabriel da ragazzini, rapito dai loro sorrisi innocenti.
In pochi giorni erano venute fuori così tante verità che ormai dubitava persino della sua stessa identità.
Cullato dai movimenti delicati del dondolo, stava quasi sul punto di addormentarsi, quando una voce femminile arrivò al suo udito, destandolo dal suo quasi dormiveglia.
«Siamo un po’ nervosi, sposino?».
Gabriele guardò sua sorella Allegra sollevando un sopracciglio, con aria di sfida.
Era arrivata con la sua solita leggiadria sbarazzina, uno scialle di lana le copriva le spalle, facendola sembrare una piccola fiammiferaia infreddolita.
«Perché dovrei esserlo?» chiese, cercando di nascondere i tumulti dell'animo dietro un sorriso tirato.
Allegra si avvicinò al dondolo, fissandolo dispettosa.
Si fece largo sul dondolo, senza chiedergli di spostare le gambe per sedersi.
Diede una spinta così forte che per poco non sbilanciò tutti e due.
Era un vizio che faceva spesso, fin da bambina: si buttava sul dondolo per dare fastidio ai fratelli maggiori, perché non la consideravano quasi mai per giocare insieme.
Poi, man mano che il tempo passava, aveva trovato altri hobby e passatempi, come la moda e il cucito.
Aveva iniziato proprio grazie ad Agnese, quando in quei lunghi pomeriggi estivi, dove non veniva mai anima viva in libreria, si sedevano entrambe in poltrona e si mettevano a lavorare a maglia, nonostante non parlassero chissà quanto, e in quei pochi momenti che lo facevano discutevano praticamente su qualsiasi argomento che capitava a tiro, e quasi mai toccavano il suddetto argomento con toni pacati.
«Beh, ad esempio, la cucina di Silvana non sarà come quella di mamma» lo prese in giro Allegra, dandogli un buffetto sulla gamba. Gabriele le regalò una ginocchiata leggera dietro al sedere in risposta.
«Silvana cucina bene, e anch'io me la cavo, scema!» rimbrottò, fintamente arrabbiato. Allegra si leccò le labbra per non scoppiare a ridere.
«Ma non è questo quello che mi preoccupa al momento».
Gabriele non era davvero sicuro di voler toccare nuovamente quell'argomento, e non sapeva neanche se sarebbe stato giusto farlo proprio con Allegra, con una persona totalmente estranea ai fatti.
Mentre il suo sguardo era perso da qualche parte, verso il cielo serale, non si accorse che la sorella minore gli aveva sfilato la fotografia dalle mani, guardandola con estrema attenzione, girandosela più volte, come a cercare un indizio nascosto sia sul fronte che sul retro.
«E così, questo qui sarebbe Maxime Brünner? Era proprio un bell'uomo, davvero!».
Gabriele trasalì nell'udire quel nome fuoriuscire dalla bocca della sorella come se nulla fosse.
Si tirò su con la schiena, fissandola stranito. Tutto si sarebbe aspettato, fuorché che Allegra ne sapesse a riguardo.
«No, non è lui. Ma tu come fai a sapere questo nome?» chiese, deglutendo.
Allegra lo guardò con ovvietà, non si era chissà quanto scomposta.
«È l'uomo a cui la zia scriveva sempre… lo so perché gliele spedivo io tutte le lettere».
Gabriele corrucciò la fronte, disorientato.
«Tu?? Tu che facevi qualcosa per zia Agnese?? Ma se eravate come cane e gatto!».
Nel recepire la reazione incredula del fratello, Allegra accartocciò le labbra in un sorrisetto agrodolce, consapevole.
«Vero, non la sopportavo affatto! Era una donna impossibile… eppure, a lei piacevo tanto, vai a capire perché. Negli ultimi tempi poi, voleva sempre avermi intorno: diceva che siccome non la soffrivo, ero l'unica che non la trattava come una povera donna malata, e la cosa le donava un certo sollievo» spiegò Allegra, guardando con sopracciglia inarcate il profilo sorridente di Agnese ritratto nella foto.
Gabriele ascoltò quelle parole con una punta di stupore nel viso.
Se Allegra conosceva quel Maxime Brünner, allora voleva anche dire che…
«Tu sai tutto, non è così?».
Lo disse titubante, sperando quasi di essersi sbagliato.
Allegra tornò a guardarlo indifferente, come se non stesse per rivelare il più scottante e purulento dei segreti.
«Che tu non sei mio fratello, bensì mio cugino? Sì, lo so eccome».
Allegra gli restituì la foto, unendo le labbra in un sorriso tirato, un po’ fittizio.
«La zia mi ha raccontato tutto. Forse aveva capito che le restava poco da vivere, e voleva condividere con qualcuno tutto quel peso che si è tenuta dentro per anni. Qualcuno che non la giudicasse, che non le facesse sentire quanto gravoso fosse il peso dei suoi sbagli». 
Per un breve attimo, Gabriele non riconobbe la persona con cui stava conversando. Non era abituato a sentir parlare la sorella con tono accondiscendente nei confronti di Agnese. Era un'altra di quelle novità contro cui avrebbe dovuto fare, presto o tardi, i conti.
«Ti confesso che mi ha fatto un po’ pena, perché si vedeva… sentivo che con te era sempre stato diverso. E il non poterti stare vicino come una madre fa con i propri figli… credo l'abbia provata molto».
Gabriele soppesò quelle parole una ad una, lasciando che gli facessero male e bene allo stesso tempo.
«E tu come hai reagito quando lo hai saputo?» chiese soltanto, osservandola in tralice.
Allegra alzò lo sguardo davanti a sè, stringendo le dita sul cuscino morbido del dondolo.
«Mi sono arrabbiata, tanto. Mi sono arrabbiata con mamma e papà, che avevano sempre saputo tutto, ma hanno sempre taciuto, con zia Agnese perché ha fatto tanto la forte per una vita intera, e poi ha lasciato andare la cosa più preziosa che aveva senza combattere… e con me stessa, perché se l'avessi saputo molto prima, avrei potuto cambiare le cose».
Gabriele si portò col busto in avanti, poggiando la mano sulla spalla della sorella minore, stringendogliela appena.
«Io invece sono del parere che ha continuato a lottare sempre, da sola. E siccome lei la guerra l'aveva vissuta, non coinvolgere nessun altro nei suoi tumulti lo avrà considerato un grande atto d'amore, l'unica scelta possibile» spiegò il ragazzo, con voce spezzata.
Diede un ultimo sguardo alla fotografia, con aria consapevole.
«L'amore l'aveva ferita troppe volte, e non voleva che quelle ferite arrivassero a noi… adesso l'ho capito» dichiarò, con una strana consapevolezza nella voce, rassegnato.
Allegra si girò verso di lui, condividendo a pieno il suo stato d'animo.
«Avresti voluto almeno sapere come fosse andata, no?» disse, con una dolcezza che Gabriele non le aveva mai visto usare.
«Sì» dichiarò prontamente «Sì, avrei avuto il diritto di sapere tutta la verità. Del perché lei e mio padre non sono potuti stare insieme, del perché porto il nome di un soldato delle SS, del perché-»
«Aspetta un secondo!» lo interruppe Allegra, e riprese la foto dalle mani del fratello-cugino, studiandosela con attenzione.
«Quindi è lui… quel figlio di-» ma si trattenne dal pronunciare quell'offesa, mordendosi la lingua per zittire il suo disappunto.
«Chi?» fece in rimando Gabriele, incuriosito.
Allegra tastò col pollice all'altezza del petto del giovane ritratto al fianco di Agnese.
«Gabriel von Kusserl…» sospirò, con l'aria di chi aveva appena dato un volto ad un mostro di cui aveva sentito tanto parlare, senza però avere alcun riferimento.
«È stato il primo amore della zia, in gioventù. Erano cresciuti insieme, mi aveva raccontato» iniziò a spiegare Allegra, lo sguardo fisso sulla foto, come a volerla incenerire.
«Poi lui aveva aderito alla gioventù hitleriana, facendo sempre più carriera in quell'ambito… e fu così che le loro strade si divisero per un certo periodo, fino a quando non si rincontrarono qui in Italia».
Gabriele non smise di darle la sua totale attenzione.
«Dimmi tutto quello che sai, Allegra» la implorò, sebbene non mostrasse alcuna pressa.
La ragazza appoggiò la schiena sullo schienale del dondolo, sospirando.
«Sarà un racconto molto lungo, Gabo» lo avvertì, pratica.
Gabriele si limitò a scuotere il capo, deciso.
«Non importa. Adesso voglio sapere ogni cosa» dichiarò, ostinato.
Allegra annuì sommessa, poggiando la mano su quella del fratello.
«Sarà una lunga notte. Meglio farlo davanti ad una bella tazza di latte caldo e miele».

 

 
°▪︎°•°▪︎°
 


«Mia madre e Gabriel von Kusserl avevano avuto una relazione, quando lui arrivò in Italia nel'41».
Aveva cominciato così il suo racconto Gabriele, passeggiando per la libreria a braccia conserte, mentre Silvana lo ascoltava seduta su una poltroncina di vimini, attenta.
Tra le mani, stringeva la lettera che era giunta pochi giorni prima al casale, come se al suo interno vi fosse racchiusa la mappa di un tesoro inestimabile.
«Era rimasta incinta, ma Gabriel la costrinse ad abortire, pagando addirittura il medico affinché facesse in modo che non potesse più capitare un incidente simile in futuro. In Germania lui era sposato, non poteva permettere che delle voci malevole arrivassero alla moglie».
Silvana rabbrividì a quelle parole.
«Che infame… aveva pagato il medico affinché rendesse Agnese sterile per sempre?» chiese, sbigottita.
Gabriele annuì, e lei scosse il capo, disgustata.
«Poverina… che bestia questo Gabriel!» commentò, tra sè e sè.
Gabriele avrebbe voluto darle man forte, ma continuò nel suo resoconto dei fatti.
Da quando Allegra gli aveva spiegato tutto quello che Anna, in lacrime, non era riuscita a confessargli, aveva sentito la necessità fisica di buttare fuori quelle parole, forse per dare un ordine al caos che ormai gli albergava dentro da giorni.
«Ma il medico, probabilmente mosso a pietà, non eseguì il misfatto. Praticò l'aborto, ma non la menomò fisicamente. Ovviamente non lo disse a nessuno, altrimenti avrebbe rischiato la vita».
Silvana lo fissò, annuendo più volte.
«E come fece Agnese a capire che il medico non le aveva tolto la capacità di concepire ancora?» domandò, presa da quel racconto che si dimostrò sempre più avvincente.
A Gabriele scappò un sorrisetto malizioso.
«Perché scoprì di aspettarmi, anche se inizialmente Agnese aveva pensato si trattasse dei postumi dell'intervento, o di mestruazioni irregolari… non era difficile da credere, viste le condizioni in cui vivevano in quegli anni» spiegò, camminando attorno al piccolo tavolino da caffè, con aria incantata, persa nei ricordi del tempo.
Silvana si scostò una ciocca riccia dietro l'orecchio.
«Rimase nuovamente incinta di Gabriel, quindi?» domandò poi.
«No» negò prontamente il suo fidanzato «restò incinta di mio padre, questo Maxime Brünner… era un sottoposto di von Kusserl, uno dei tanti soldati tedeschi che vennero qui durante l'Occupazione».
Silvana continuò ad annuire, sempre più interessata.
«L'aveva violentata?» chiese poi, preoccupata.
«Nono, nulla del genere. Lui si era innamorato di lei, ma sapeva della sua tresca con Gabriel… finché non fu stesso mia madre a compiere il primo passo. Ed hanno iniziato una storia clandestina» precisò il ragazzo, ormai preso dalla trama di quel racconto che lo faceva sentire sempre più coinvolto.
«Dovevano stare attenti, Gabriel aveva iniziato a fiutare qualcosa, e si erano allontanati… ma c'era la questione dei miei nonni da risolvere, e Maxime, aiutato da un suo compagno che aveva idee che andavano contro il regime nazista, si mise subito all'opera per salvarli, mettendosi in contatto con la cellula partigiana capitanata da Alfredo, il fratello di mio nonno Furio». 
Silvana seguì il discorso in religioso silenzio, annuendo in alcuni punti e diniegando il capo in altri.
«Poi le cose precipitarono: Maxime uccise accidentalmente von Kusserl per difendere Romeo, cioè mio padre… cioè-»
«Sì sì, ho capito tesoro, continua» lo incoraggiò Silvana, sempre più presa dal racconto.
Gabriele annuì e continuò. Gliene fu in parte grato.
«A quel punto dovette nascondersi, e i fratelli di mio nonno, Ismaele ed Alfredo, organizzarono la sua fuga, per evitargli l'arresto e l'inevitabile condanna a morte».
Seguì una pausa, aveva parlato così velocemente che gli mancò il respiro in petto.
«Ma Maxime non avrebbe lasciato incompiuta l'opera di salvataggio, così decise di restare, e di unirsi alla causa partigiana. Agnese decise di seguirlo, nonostante l'incombere della gravidanza».
Silvana buttò velocemente un occhio alla lettera che aveva tra le mani, soppesandola tra le dita.
«E da qui in poi succederà altro» commentò, cercando il volto del suo promesso sposo, che da quando aveva iniziato a raccontare, non si era fermato un attimo dal camminare per il salone della libreria, senza concedersi pause.
Dopo qualche minuto, Gabriele proseguì.
«Avevano preso accordi con un'altra cellula partigiana: da quel che mi ha spiegato Allegra, dovevano salvare alcuni uomini, arrestati per alto tradimento e che sarebbero stati trasferiti in Germania, per giustiziarli. Tra di loro vi era pure un gruppo di tedeschi, credo infiltrati come l'amico di Maxime, ma non ne sono sicuro». Altra pausa di respiro.
«Agnese non prese parte alla missione, era quasi all'ottavo mese e le sconsigliarono di fare sforzi e di affaticarsi. Così partirono Alfredo, Maxime, e altri tre uomini, lasciando le donne sole all'accampamento».
Silvana si portò le mani giunte al naso e alla bocca.
«Qualcosa mi suggerisce che, però, Agnese non restò a lungo con le mani in mano» ipotizzò, la lettera abbandonata sulle ginocchia coperte dalle calze di nylon.
«Perspicace» fu il commento di Gabriele, che si portò le mani sui fianchi, trattenendo a stento una risata amara.
«Infatti, qualche giorno dopo la loro partenza, Agnese scappò dall'accampamento. Voleva raggiungere Maxime, non ce la faceva a restare in attesa, con la paura di non rivederlo più. Il rischio, d'altronde, era piuttosto alto».
Gabriele raccontava quello spaccato di storia come se infondo non fosse realmente stato lui il bimbo nel grembo di quella ragazza testarda.
«Viaggiò per tre giorni e due notti, prima che le doglie cominciassero a farsi sentire e a bloccarle il cammino».
A Silvana le sembrò quasi di trovarsela davanti, quella ragazza sui ventuno, ventidue anni, affrontare quel cammino pieno di insidie da sola, in uno stato avanzato della gravidanza.
Non poté non provare una forte ammirazione mista a timore nei suoi confronti.
Provò ad immaginare la paura che le aveva attanagliato il cuore, nell'accorgersi che il suo bambino stava per nascere, disperso nel nulla, senza l'ausilio di anima viva.
«Fortuna volle che le sue grida attirarono l'attenzione di un fattore che abitava lì, nelle vicinanze. Non ci pensò due volte a portarla nella sua fattoria, dove intimò la moglie e la figlia di chiamare la levatrice, che era solo a qualche casa più avanti alla loro».
Silvana si trovò a rilasciare un sospiro di sollievo, felice che il suo amato fidanzato non fosse venuto al mondo tra le frasche e con la fauna più insolita a fare da pubblico inconsapevole, come in una delle fiabe dei Grimm o delle favole morali di Esopo.
«Non fu un parto semplice. Agnese era anche molto indebolita a causa del poco cibo che assumeva e della vita che in quei mesi aveva svolto, sballottata da un accampamento all'altro. Il travaglio durò molte ore». Poco dopo, un flebile sorriso illuminò il volto di Gabriele, trovandosi ad abbassarlo repentinamente.
Silvana gli allungò una mano, sorridente, che il ragazzo strinse tra le sue, inchinandosi alla sua altezza.
«E all'alba del giorno seguente, emettesti il tuo primo vagito» disse canzonatoria Silvana, scostandogli una ciocca castana dagli occhi chiari con la punta delle dita.
Gabriele annuì con aria infantile, un po’ rosso sulle gote.
«Potrebbe essere la trama avvincente di un film, non credi?» scherzò con imbarazzo, stringendo sempre più forte la mano di Silvana.
«Penso che a questo punto, tu debba leggere questa lettera».
Quest'ultima le porse la busta, consapevole.
«Credo che anche Maxime abbia il diritto di dire la sua a riguardo. E tu hai il diritto e il dovere di ascoltarlo».
Gabriele la guardò negli occhi, con aria estremamente dolce. Silvana lo faceva sempre sentire al sicuro, protetto da ogni male del mondo.
L'amava perché in lei vedeva una spalla, una sua degna pari. 
Per qualche istante, Gabriele tornò a chiedersi se anche Agnese avesse desiderato una compagnia simile al suo fianco: un uomo che la amasse, ma allo stesso tempo che la facesse sentire forte e capace di fare qualsiasi cosa.
Si chiese se Maxime fosse stato all'altezza delle sue aspettative, dopo che quel Gabriel l'aveva delusa e distrutta in tutte le sue certezze.
«Hai ragione amore mio, come sempre».
Gabriele le lasciò un bacio veloce sulla labbra, umettandosele subito dopo, sperando di aver catturato almeno un po’ del suo sapore di fresia.
Silvana gli lasciò un altro bacio, più dolce e più lento del precedente.

 

 
~♧~
 


Gabriele lesse quella lettera la sera stessa.
Appoggiato al davanzale della finestra di camera sua, gli occhi che diventavano sempre più lucidi all'avanzare di ogni riga, le dita che tremavano.
Arrivato alla firma del mittente, Gabriele si percepì come un blocco di argilla, in procinto di essere lavorato al tornio.
Fino a quel momento era stato convinto di sapere che forma avesse assunto col tempo, per che cosa fosse realmente destinato. E invece si ritrovava completamente sconosciuto a sé stesso, a venticinque anni, ad un passo dal matrimonio, ma privo di certezze e conferme. Davanti a lui, una strada sterrata da percorrere, che gli metteva addosso una paura enorme.
E, nonostante le persone che aveva intorno, la sua famiglia e la sua fidanzata, era consapevole che quel viaggio avrebbe dovuto affrontarlo da solo, lasciando che l'argilla del suo cuore venisse modellata da dita invisibili. Che appartenessero a Dio, al destino, non gli era dato saperlo. Non gli avrebbe cambiato molto la prospettiva, d'altronde.
Mentre stava per ripiegare la lettera, qualcuno aprì la porta della sua stanza senza bussare. Soltanto una persona era in grado di farlo senza che Gabriele s'infuriasse altamente.
«Pensavi di sfuggirmi, disgraziato?» esordì Massimiliano, la camicia bianca aperta sul petto e i jeans i cui bordi arrivavano a toccare l'impiantito, portandosi dietro i rivoli di polvere.
Gabriele abbozzò un sorrisetto complice, richiudendo alacremente la busta contenente quella famosa lettera.
«Su, fammi compagnia e fumati una sigaretta con me!» esclamò il più piccolo - anche se fisicamente non lo sembrava affatto - avanzando in stanza, con una sigaretta tra le labbra.
Gabriele continuò a fissarlo divertito.
«Da quando in qua tu fumi?» chiese, sinceramente sorpreso.
Massimiliano lo ignorò, accendendo la sigaretta con qualche colpo di troppo di accendino.
«In caserma, sai, tra compagni…» si giustificò laconico, senza dare troppa importanza alla cosa. Porse il pacchetto al fratello, muovendo la mano per incitarlo a prenderne una.
Gabriele sarebbe voluto partire col fargli un rimbrotto epocale, che fumare gli avrebbe danneggiato i polmoni a lungo andare, e che più che renderlo figo, gli avrebbe al massimo ingiallito i denti e rovinato la voce, ma lasciò perdere, troppo stanco anche solo per scherzare con naturalezza con chiunque su la qualunque.
Prese così anche lui la sigaretta, per fargli compagnia. Lasciò che Massimiliano gliel'accendesse, aspirò troppo velocemente e tossì così forte, che l'altro dovette dargli qualche pacca sulle spalle, trattenendosi dal ridere.
«Sei ancora vivo? Giuro che non era mia intenzione avvelenarti prima del tuo grande giorno!» esclamò Massimiliano, sogghignando con aria fintamente maligna.
Gabriele gli mollò una manata sul petto, fintamente risentito.
«Ho un fratello assassino, vedi tu cosa mi tocca sopportare!» esclamò, disgustato dal fumo che gli era rimasto intrappolato tra il palato e la lingua.
Dopo qualche boccata e qualche colpo di tosse, Massimiliano si fece un po’ più serio, fissando il pavimento imbarazzato.
«Senti, Gabo…» iniziò, portandosi una mano dietro la nuca rasata.
Gabriele gli prestò attenzione.
«Al tuo matrimonio, ecco… posso estendere l'invito ad altre due persone?».
Gabriele aggrottò la fronte, incuriosito.
«Amici tuoi?» chiese, in dubbio.
Massimiliano si umettò le labbra.
«Uhm, non proprio» delucidò, strizzando un occhio, mentre si massaggiava nervosamente la nuca.
«Volevo invitare Grecia alla cerimonia. Mi sembrava giusto chiedere il tuo parere, visto che è comunque la tua festa…».
Gabriele sgranò gli occhi nel sentire il nome di quella ragazza pronunciato proprio da Massimiliano, senza preavviso.
«Grecia?» ripeté, sollevando un angolo delle labbra, stranito.
«Quindi alla fine voi due vi siete… visti?» indagò, poggiando la busta sul cuscino del letto.
Massimiliano assottigliò le labbra, prima di portarsi la sigaretta alla bocca.
«Ci siamo dati una seconda possibilità» confessò con voce strozzata, rosso sulle gote.
Gabriele aprì il viso ad un sorriso spontaneo e sincero.
«Davvero?» esclamò, prendendo il viso del fratello tra le mani, unendo le loro fronti «Ma è stupendo, fratellino! Me lo sentivo che prima o poi…» ma lasciò appesa la frase, come se si fosse appena scottato.
«E chi sarebbe la seconda persona?».
Si era ricordato solo in quel momento che Massimiliano ne aveva menzionata un'altra, giusto poco prima.
Massimiliano poggiò la mano sul polso di Gabriele, abbassando lo sguardo.
«Ecco, io… non so come dirtelo, e come dirlo a mamma e papà, ad Allegra, Magda…»
«Dire cosa?» incalzò Gabriele, leggermente interdetto.
«Mica è qualcosa di grave?» proseguì, iniziando a preoccuparsi.
Massimiliano non cercò di diminuire la sua ansia, prolungando la pausa delle sue stesse parole.
«Gabo… sono diventato papà».
A Gabriele mancò l'aria per qualche secondo. Pensò di non aver capito bene, sulle prime.
«Ricordi quando Grecia mi ha lasciato di punto in bianco, due anni fa?».
Certo che Gabriele lo ricordava. Non aveva mai visto suo fratello così afflitto per una storia terminata. Ricordava persino i giorni che era rimasto chiuso in camera, facendo preoccupare Anna e Romeo più del dovuto.
Tra l'altro, Agnese era anche morta da qualche settimana, e in casa si respirava un'aria triste e sconsolata.
«Mi ha lasciato perché aveva scoperto di aspettare un bambino» dichiarò Massimiliano, la vergogna dipinta sul volto.
Gabriele gli lasciò la faccia, allontanandosi di qualche passo.
Una strana sensazione cominciò a formicolargli addosso.
«Aveva pensato di abortire, ma… evidentemente non ce l'ha fatta».
Massimiliano deglutì, spegnendo la sigaretta sul davanzale della finestra.
«È un bel bimbo, si chiama Riccardo. Ho visto una sua foto. Ti giuro, non ti so spiegare quello che ho provato nel vederlo, è stato… è stato come un-»
«Un deja-vu?» lo interruppe Gabriele, in trance.
Massimiliano annuì, soppesando quella parola con estrema attenzione.
«Non so perché, ma la prima persona a cui ho pensato è stata zia Agnese. Sai, ricordi tutte quelle voci che giravano sul suo conto, da quando era tornata a Torino? Tutti i pettegolezzi, le malelingue che la volevano sposata e adultera… poi tutti quei viaggi che faceva, di punto in bianco… a volte mi pento di non averle chiesto di più a riguardo».
Gabriele lo vide incrociare le braccia al petto, pensieroso.
«In quel momento, ho solo pensato che non avrei commesso lo stesso errore. Che Grecia l'avrei ascoltata, prima di continuare ad odiarla. E mi sento in colpa, perché a causa mia ha abbandonato l'università, si è dovuta difendere dalla cattiveria della gente da sola, rinunciando a tutti i suoi sacrifici. Per permettere a me di superare i miei».
Massimiliano si portò entrambe le mani intrecciate dietro il capo, inspirando ed espirando profondamente.
«Mi ero sempre detto che avrei fatto qualsiasi cosa per lei… ma sono un ipocrita. Le ho tolto due anni di vita e non posso restituirglieli».
Gabriele dovette sedersi sul letto, sopraffatto da tutte quelle notizie. Un nodo gli si strinse al petto, creandogli difficoltà a respirare.
Non era stata tanto la sorpresa della paternità di Massimiliano, ma il fatto che quella vicenda somigliava così maledettamente a quella di sua madre.
Grecia aveva perso solo due anni della sua vita, Agnese quanti ne aveva perduti nell'effettivo? Dieci? Venti?
Aveva visto suo figlio crescere senza mai rivelargli la sua vera identità.
Perché si era ridotta a tanto, per amore di chi? Di Maxime, di Gabriel, o vi era altro sotto?
Tutte quelle domande gli affollavano la mente a tal punto da fargli provocare un quasi attacco di panico.
Massimiliano se ne accorse, e raggiunse il fratello, inginocchiandosi davanti a lui.
 «Ehi, Gabo! Ehi!» lo scosse, dandogli qualche pacca sulla guancia.
«Ti ho sconvolto così tanto?» provò a sdrammatizzare, sperando che il fratello riacquistasse lucidità nel giro di poco.
Ma Gabriele era come assente, lontano da quelle quattro mura, da quel casale  da quella città.
Era tornato indietro nel tempo, a ventidue anni prima, a quell'incontro fortuito sotto la quercia, a quella donna dal viso triste e affranto che cercava ugualmente di sorridere mentre lo cullava, canticchiando una musichetta a labbra chiuse, ad un centimetro dal suo orecchio di bambino. 
«Se non vuoi che vengano, basta che-»
«Era mia madre». Gabriele lo disse incurante di aver interrotto il fratello, mentre cercava eventualmente di rassicurarlo.
Massimiliano acuì lo sguardo, sorpreso.
«Credo di non aver capito» spiegò infatti, non riuscendo a leggere l'espressione persa di Gabriele.
Quest'ultimo lo guardò con occhi pieni di lacrime non scese.
«Zia Agnese… era mia madre».
Nell'udire tale affermazione, Massimiliano si spostò da lui di qualche centimetro, come folgorato.
Lo guardò come se davanti si fosse ritrovato un folle.
«Cos'è, uno scherzo?» disse Massimiliano, sinceramente preoccupato che al fratello gli fosse venuto un colpo improvviso, o che avesse perso davvero la ragione.
Ma Gabriele ricambiò il suo sguardo pieno di interrogativi, quasi sfidandolo.
«Magari lo fosse» mormorò, serio.
Massimiliano si portò le mani giunte al viso, aveva gli occhi sbarrati.
«Ma com'è possibile…» si limitò a commentare, sbigottito.
Gabriele deglutì, riprendendo in mano la lettera.
«L'ho saputo da pochi giorni. Me lo hanno detto mamma e papà. Anche Allegra lo sapeva, zia le aveva raccontato tutto» confessò, continuando a fissare la lettera con insistenza.
«Questa lettera l'ha scritta mio padre… o dovrei dire, l'uomo che ha messo incinta la zia».
Gabriele non voleva essere duro con Maxime, ma non sapeva in che altro modo considerare quell'uomo. Sentiva che non era stato cattivo con lei , era stato sicuramente migliore di Gabriel, eppure continuava a risultargli estraneo, un fantasma sbiadito uscito da qualche baule dimenticato della memoria, rimasto sigillato per anni.
«Quando mi hai parlato di te e Grecia, ho pensato a quanto strana fosse la vita… come se la storia si fosse ripetuta senza accorgercene».
Massimiliano stava cercando di convincersi che quello non fosse un sogno.
Che non avesse scoperto all'improvviso che il suo adorato fratello maggiore in realtà era suo cugino.
Non che la scoperta in sé cambiasse di molto la situazione: con Gabriele continuava a condividere il sangue, anche se per vie traverse.
A Massimiliano quella non fu la cosa più scioccante da scoprire, ma il realizzare che quasi tutta la sua famiglia avesse aiutato Agnese ad occultare un segreto simile al suo stesso figlio, ad un pezzo della sua stessa carne.
«Tu come ti senti a riguardo?».
Al più piccolo sembrò logico porgli quella domanda, chiedendosi se qualcun altro prima di lui avesse avuto l'accortezza di accertarsene.
«Confuso… disorientato» rispose Gabriele, massaggiandosi le cosce da sopra i jeans «Ho così tante domande in testa che avrei preferito continuare ad essere all'oscuro di tutto».
Si abbandonò con la schiena e la testa sul muro dove il letto era poggiato, socchiudendo gli occhi.
Massimiliano lo imitò poco dopo, fissando il soffitto. 
Il mozzicone sulla finestra emanava ancora qualche filo di fumo biancastro.
«E in questa lettera cosa c'è scritto?» domandò successivamente, provando a far sfogare il più grande.
Gabriele sbirciò tra le palpebre socchiuse, rigirandosi nuovamente la lettera tra le dita.
«Che se volessi andare a trovarlo in Svizzera, la porta di casa sua sarà sempre aperta» dichiarò, umettandosi le labbra.
Massimiliano assimilò quelle informazioni con estrema attenzione.
«Non si è mai sposato?» chiese, fissando in tralice l'altro.
«No, a quanto sembra» riferì Gabriele, mantenendosi fermo nel tono.
«Pensi di andarlo a trovare quindi?» gli chiese in automatico Massimiliano, sollevandosi di poco con la schiena. 
Anche Gabriele fece altrettanto.
«Ti confesso che da un lato vorrei far finta di nulla e non saperne più nulla… ma arrivati a questo punto, sento che devo saperne di più» dichiarò, mettendosi curvo e intrecciando le dita tra loro.
«Non posso guardare al futuro se non ho nulla del mio passato in mano…» decretò, anche se visibilmente titubante.
Massimiliano gli strinse una spalla rassicurante, sorridendogli caloroso.
«Hai comunque una famiglia alle spalle. Siamo la tua famiglia, nel bene e nel male» e nel rafforzare il concetto, picchiettò la spalla di Gabriele per poi stringergliela nuovamente con fare incoraggiante.
Quest'ultimo sentì che avrebbe dovuto ricambiare il favore in qualche modo, dopotutto continuava ad essere il fratello maggiore, un pilastro per suo fratello e le sue sorelle minori.
«Comunque, sono davvero felice per te e Grecia. Riccardino riceverà tutto l'amore di cui avrà bisogno» esclamò Gabriele, rassicurante.
Sentir chiamare il nome di suo figlio a quel modo, rese Massimiliano più tranquillo e sereno. Se lo accettava Gabriele, non avrebbe dovuto avere timore del giudizio del resto della famiglia.
«Quindi è deciso?» chiese risoluto Massimiliano, porgendo la mano al fratello, con tutto l'intento di stringergliela.
«Deciso, deciso!» rafforzò il concetto Gabriele, dando il cinque al fratello per poi stringergli la mano.
«La mamma sarà entusiasta di festeggiare un altro matrimonio!» lo prese poi in giro Gabriele, dandogli un pacchero affettuoso dietro la nuca rasata. Massimiliano lo fissò come se avesse voluto azzannarlo.
«Ehi, piano! Una cosa alla volta!» Massimiliano bloccò il suo entusiasmo, cercando di fargli credere che quello non fosse stato tra i suoi pensieri ricorrenti di quella settimana, mettendo sempre in mostra il suo carattere sfrontato e accattivante.
Rimasero poi così, sul letto, come da bambini, a prendersi in giro e fantasticare su ciò che la vita avrebbe tenuto ancora in serbo per loro.
 


«Perché gli hai dato il suo nome, Agnese? Non ti rievoca brutti ricordi?»
«Tu perché hai voluto chiamare il tuo Massimiliano allora?»
«Beh… ero legata a nostro cugino Massimo, e poi… Maxime era il miglior amico di Romeo…»
«Lo é ancora.»
«E Gabriel?»
«Gabriel aveva un lato buono che la guerra gli ha tolto per sempre. Voglio che quel suo lato umano riviva in mio figlio. Glielo devo infondo un finale diverso.»
«Anch'io glielo devo un finale diverso a Massimo. E anche a Maxime».
 


Appoggiata dietro la porta della stanza di Gabriele, Anna aveva ascoltato tutto senza volere. Era passata di là per portare la cesta dei panni sporchi in lavanderia, ma poi la nostalgia di rivedere i suoi figli insieme l'aveva fatta restare a guardare, e ascoltare le loro confessioni.
Era stato automatico riportare alla memoria quel discorso fatto con Agnese, molti anni prima.
Avevano pensato di modellare il destino come l'argilla, lavorarlo sul tornio e dargli una forma nuova, in barba a quello che aveva fatto capitare loro.
Era stata una scommessa, che sembrava persa già in partenza.
Ma nel guardare adesso quei due ragazzi, adulti, andare così d'accordo, Anna aveva capito che quella scommessa contro il destino, invece, l'avevano vinta loro, e nel migliore dei modi.
«Ah, se potessi vederli ora, sorella mia…».
Anna sospirò quella frase, mentre una lacrima le scivolò lungo la guancia, coprendosi la bocca con la mano.
Dopotutto, era stato solo questione di tempo e pazienza, e tanto amore.
Una partita giocata e vinta in calcio d'angolo.

 
 
>~•~<
 


La cerimonia era stata meravigliosa.
Allegra, assieme alla sua amica sarta Costantina, aveva ricevuto tutti i meriti per i vestiti degli sposi, di cui si erano occupate personalmente.
Gabriele non aveva mai avuto tanti occhi puntati addosso, e girare per la tavolata e salutare ogni invitato e parente, alla lunga, aveva iniziato ad annoiarlo.
Se non avesse tenuto per mano Silvana tutto il tempo, probabilmente sarebbe scappato a gambe levate, mollando tutti lì e godersi poi la pace tanto agognata, magari tra le coperte, abbracciato stretto a sua moglie.
Anna e Romeo avevano fatto la conoscenza del piccolo Riccardo.
Grecia era sempre stata dietro a Massimiliano, rossa di vergogna, con il bambino tra le braccia. Temeva il giudizio dei suoceri, il terrore di subire accuse imminenti, che in parte sicuramente sentiva di meritare. Si dovette invece piacevolmente ricredere nel constatare che entrambi i genitori del suo fidanzato non la odiavano, né giudicavano con sguardi sprezzanti.
Anna era stata contenta di stringere tra le braccia il suo primo, inaspettato, nipotino, così come Magda e Romeo, innamorati seduta stante di quel piccolo bambolotto dalle guance piene e gli occhi grandi.
Massimiliano aveva dato un bacio rassicurante sulla fronte di Grecia, sussurrandole parole dolci e rincuoranti. Non lo avrebbe mai ammesso dinnanzi ad anima viva, ma sapeva essere molto più romantico e caloroso di Gabriele a volte. E Grecia aveva sempre adorato questo suo lato adorabile.
Era stata una giornata indimenticabile, ricca di emozioni e vissuta con tutte le persone a loro vicine. 
 
Da qualche parte, al confine tra l'aria e il tempo, Agnese sorrideva contenta, e grata.
 
Qualche settimana dopo, Gabriele partì per la Svizzera assieme a Silvana, per cercare Maxime e parlare anche con lui. 
Mentre era sul treno che lo avrebbe portato a Milano, per poi cambiare e proseguire fino a Zurigo, dove l'uomo attualmente risiedeva, Gabriele estrasse nuovamente dallo zaino la lettera che gli era stata recapitata, con tutta l'intenzione di rileggerla, ancora una volta. Silvana dormiva con la testa appoggiata sulla sua spalla, i ricci di lei ricadevano come una cascata sul suo montgomery nero. 
Gabriele le lasciò un bacio sulla fronte, talmente leggero che la sua neosposa neanche se ne accorse.
Da quando l'aveva messa al corrente di tutta quella faccenda, Silvana non si era tirata indietro neanche per un solo secondo: aveva voluto aiutarlo in tutti i modi, non lasciandolo solo in quel viaggio a ritroso nei ricordi.
Gabriele si era convinto ogni giorno di più di aver fatto la scelta giusta con lei, che si sarebbero resi felici a vicenda, nonostante gli ostacoli che si sarebbero presentati lungo il cammino.
Aprì la lettera con delicatezza, ormai la trattava alla stregua di una persona fisica e reale.
Era anche lei, dopotutto, una compagna di viaggio, sotto ogni punto di vista. 
Ormai conosceva il contenuto a memoria, anticipava le parole ancor prima di passarci l'occhio sopra.
Appoggiò comodamente la testa sullo schienale. Sarebbe stato un viaggio lungo e stancante.


 
Caro Gabriele,
o dovrei chiamarti Gabo, come Agnese faceva sempre quando mi parlava di te… 
Perdona in anticipo il mio italiano, nel parlato me la cavo di gran lunga meglio.
Nell'ultima lettera che mi sono scambiato con Agnese, mi aveva detto che non le era rimasto molto da vivere e mi aveva chiesto, qualora se ne sarebbe creata l'occasione, di parlarti apertamente di quanto accaduto venticinque anni fa, in quel periodo tumultuoso che era diventata la nostra vita.
Amavo moltissimo Agnese, l'ho amata oltre ogni misura. L'avrei protetta dal mondo intero, avevo giurato a me stesso di farlo, ma alla fine è stata sempre lei a proteggere me. Ha protetto me anche allontanandosi da te, pur di venirmi a salvare ancora una volta.
Ha sacrificato la sua maternità per salvarci dal nemico, erano passati pochi mesi dal parto eppure non si è fermata neanche un solo momento, non ha indugiato nemmeno un attimo sul da farsi.
La tua mamma era una donna forte, e spero che tu le somigli, anche solo di poco.
Vorrei vederti, Gabo. Lo so, non dovrei pretendere questo dal nulla, dopo tutti questi anni, ma per ragioni che non ti posso spiegare qui in questa lettera, non posso lasciare la Svizzera. Altrimenti, credimi, sarei già venuto a vederti, lo avrei già fatto altre volte.
Agnese mi ha tenuto al corrente di tutti i tuoi progressi, della scuola, la laurea, e perfino della tua fidanzata. 
Adesso che lei non c'è più, non ho più un ponte con la mia “terra dei limoni”. Io e tua madre chiamavamo così l'Italia, richiamando il passo celebre di Goethe “Kennst du das Land, wo die Zitronen blühn”.
Ma in realtà la mia terra dei limoni, la nostra, la mia e di Agnese, sei tu, Gabo. Sei il nostro terreno fertile, il nostro futuro. 
Tua madre ti ha dovuto nascondere per proteggermi. Ero un ricercato, e ho dovuto scontare la mia pena in carcere. Ho pagato per il mio crimine, ed è stata la giusta punizione per aver tolto la vita ad un altro uomo, sebbene l'uomo in questione fosse diventato una bestia cieca e spietata. 
Mi hanno rilasciato l'anno scorso, non sono neanche potuto venire al funerale di Agnese, e di questo le chiedo perdono ad ogni singola ora del giorno, per non averla accompagnata nel suo ultimo viaggio. Adesso vivo in una piccola pensione, in un quartiere tranquillo di Zurigo. Nessuno sa niente di me, del mio passato. Nessuno chiede, nessuno domanda nulla, e a me sta bene così.
Mi manca il sole dell'Italia, mi manca la bellezza nostalgica di Torino, mi manca il sorriso di tua madre. 
Ti lascio qui il mio indirizzo, qualora tu volessi raggiungermi. Quando vorrai, non ho fretta.
Che il profumo dei limoni ti accompagni ovunque come una benedizione, ragazzo mio. Ti auguro ogni bene, e ogni gioia.
Con immenso affetto,
Maxime Brünner
 



Una lacrima riprese a rigare il viso di Gabriele, una lacrima che non bloccò né asciugò. La lasciò scorrere lungo i solchi del viso, guardando fuori dal finestrino il paesaggio che si muoveva così velocemente da far venire i capogiri. 
Quel viaggio stranamente non gli aveva messo addosso alcuna agitazione.
Stava andando incontro al suo destino, ma senza alcun timore o presagio malevolo. 
Un leggero alito di limone gli solleticò le narici, e la cosa lo stranì. Non vi era nessuno che stesse bevendo della limonata nel vagone, e nemmeno dal panorama fuori dal finestrino spiccavano piante di limoni.
Annusò così la busta aperta della lettera, socchiudendo gli occhi.
Immaginò una pianta di limoni fiorita, in estate. Agnese seduta su di una tovaglia da pic nic che lo fissava sorridente, con la schiena appoggiata al petto di Maxime. Erano giovani, innamorati e felici. E Gabriele, bambino, che giocava a pochi metri di distanza da loro e li guardava amarsi, con gli occhi, le dita, le parole.
Riaprì poi lentamente gli occhi, sorridendo.
Silvana si mosse al suo fianco, sistemandosi meglio sulla propria spalla. 
Una volta richiusa la busta, Gabriele appoggiò il capo su quello della moglie, provando a chiudere gli occhi per riposare.
Quell'aroma fresco di limone lo cullò durante tutto il viaggio verso Milano.



 
Piccola info veloce: il prossimo capitolo sarà l'epilogo di tutto. Tecnicamente tutta la storia si conclude qui, ma ho bisogno di spiegare alcune cose in un altro capitolo, che non sarà molto lungo, ma che almeno chiuderà al meglio questo racconto.
Non avrà prompt, sarà svincolato dal Writober.
Grazie per chi ha seguito fino a qui questa umilissima storia senza pretese.
Un bacio 💋💌

 
   
 
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