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Autore: Frances    05/10/2009    9 recensioni
~ The tale of a man who lost his name and got bitter lies and silent suffering instead
[Tseng x Aerith]
Prima Classificata allo Tserith Contest indetto da Valychan
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Aeris Gainsborough, Tseng
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Prologue; Memories of Autumn • [ μ ] - εуλ 1992 (xxx)

The day he met his curse and salvation

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La verità si era rivelata una sera in maniera del tutto inaspettata, inattesa, scivolando via dalle labbra umide di alcol di Reno in un bar fumoso e poco frequentato di Junon. Era passata inosservata come una qualsiasi sciocchezza inserita a caso in un discorso sconclusionato di fine giornata, si era dissolta e si era annidata in un angolo recondito della mente di Tseng senza riemergere per molti anni. Aveva continuato semplicemente a sorseggiare distrattamente il proprio drink, leggendo dei fascicoli che elencavano banali rapporti quotidiani.

Fu forse grazie al liquore e alla disperazione che riuscì a far riemergere quel ricordo poco importante, quasi venti anni dopo, quando si ritrovò costretto ad affrontare sé stesso, seduto davanti al fuoco, solo con le fiamme ed i suoi fantasmi.

Era una notte qualsiasi, o forse la più terribile che avesse mai trascorso in solitudine. Ingoiava amari sorsi di un liquore forte quasi quanto quello che era solito bere assieme a Reno, tentando di sopprimere un’irrefrenabile bisogno di rompere il bicchiere sulla moquette rossa. Mentre osservava la carta ripiegarsi su sé stessa, fissando gli angoli delle buste immacolate annerirsi e accartocciarsi in una rapida e malinconica danza di morte tra le fiamme del caminetto, rivide la scena come sulla pellicola sbiadita di un vecchio film.

« Le bugie sono come la droga. Racconti la prima ripromettendoti di non compiere mai più lo stesso errore, ma poi finisci inevitabilmente vittima di un’assuefazione completa.» le lunghe dita sottili di Reno avevano iniziato rapidamente a chiudersi a pugno, ad una ad una, in una fatale ed inesorabile conta « La prima bugia è un tentativo, la seconda è ingenua, la terza necessaria. L’inconveniente è che,» le ultime due dita seguirono le prime tre all’unisono, interrompendo il ritmo, mentre le labbra di Reno assumevano una curva fatalista ed ironica al tempo stesso « dalla quarta in poi diventa impossibile tenere il conto.»

La sua voce era stata soffocata dal tintinnio del ghiaccio nel bicchiere, dal frusciare dei fogli tra le dita di Tseng, da un rintronante cupo blues che rimbombava da un vecchio jukebox in un angolo del locale, dal sommesso brusio che proveniva dai pochi tavoli occupati, nella penombra.

Anche se il tono con cui furono pronunciate aveva in qualche modo reso quell’argomento poco serio, - quel suo continuo e particolare modo di flettere la voce trasformava ogni discorso in una cupa presa in giro –, le sue erano state parole fondamentalmente tristi. Tuttavia, il giorno in cui vennero proferite subirono il destino che di solito Tseng riservava agli sproloqui di Reno: furono ascoltate di sfuggita e deliberatamente ignorate.

La ceralacca rossa iniziò a colare tra i tizzoni ardenti, scivolando sulla carta e nella cenere come un inquietante serpente di sangue.

L’uomo che li osservava morire in quel fuoco che piano divorava quattro anni di speranze e preghiere, vide i sigilli sciogliersi, mescolarsi alla carta annerita.

E fissando quasi rapito il lento sgretolarsi di quelle lettere mai spedite, quell’uomo comprese lentamente.

Reno era sempre stato un individuo singolare. La maggior parte delle volte che apriva la bocca si trattava solo di un modo rapido di far sfoggio delle proprie illimitate e spesso eccessive abilità oratorie, aprendo discorsi irritanti e privi di senso che non valeva la pena neppure di prendere in considerazione.

Quando tuttavia ricordava di come il dono della parola non servisse solo a lamentarsi, a imprecare o ad urlare, Reno sapeva essere un uomo saggio. Si trattava di una saggezza grezza e priva di morale, plasmata dall’esperienza e dalle sofferenze di una vita sregolata trascorsa senza agi nei bassifondi di Midgar. Lui era l’unico nel loro mondo di assassini che fosse in grado di vedere la realtà per quello che era, che riuscisse a comprenderne ogni sfaccettatura, ad accettarla senza tentare in alcun modo di sfuggirle. Aveva la capacità di assimilarla, di respirarla, di farla sua, adattandosi al marcio ed alla corruzione come se fossero piccole imperfezioni senza valore, gli elementi naturali dell’aria che respirava. Continuava a immettere aria nei polmoni come se niente fosse, accettava quel cancro senza farsene un problema e non se ne lamentava. Era l’unico in grado di capire quanto ribellarsi fosse inutile, quanto fosse privo di senso illudersi che prima o poi le cose sarebbero andate diversamente, per loro e per il Pianeta. In quel mondo insanguinato di truffe, ingiustizie e putridume dove tutti non facevano altro che fingere, lui era uno dei pochi che riuscisse a rappresentare il mondo con estremo e impietoso realismo – in quei casi, le sue parole diventavano preziose come diamanti rari.

Tseng ripensò a quel suo stupido discorso sulle bugie, mentre nel fuoco vedeva bruciare anche gli strascichi di inutili promesse mai mantenute. Era stato così cieco da non accorgersi che quella sera Reno gli aveva offerto uno dei diamanti più preziosi mai visti. Come aveva potuto gettarlo via come un qualsiasi quarzo senza valore?

Abbandonò mollemente le spalle contro lo schienale morbido di quella poltrona costosa di pelle nera, il bicchiere ormai mezzo vuoto tra le dita aperte a ragno. Il vetro rifletteva i riverberi del fuoco, mescolandoli ai brevi lampi che percorrevano il ghiaccio e le onde liquide dell’alcol. Si passò la mano libera sul volto, poi afferrò i capelli all’attaccatura, in un moto di silenziosa e mesta frustrazione.

C’era una risata che faceva di tutto per sgorgargli dalla gola, ma la trattenne. Si limitò a digrignare i denti, silenziosamente, e poi a tornare inespressivo, la mano che scivolava composta sul bracciolo lucido.

Cieco e illuso.

C’era stato un tempo lontano in cui un ragazzo come gli altri aveva indossato morbidi abiti di lino con le maniche ricamate di fili d’oro e decorate di gru dipinte a mano. Aveva sentito l’odore dell’incenso per le strade, il rumore dell’acqua sulle rocce e sotto i ponti di legno laccato, aveva sentito la consistenza morbida delle stuoie sotto i piedi nudi.

Una notte di inverno si era seduto accanto al letto di morte di suo padre, mentre la neve cadeva sul Da-Chao, le montagne e gli alberi.

Forse fu quello il giorno del suo primo tentativo, del primo passo verso l’assuefazione, mentre il suo piccolo mondo di pace si tingeva di bianco e la vita di suo padre si spegneva.

« Andrai via da qui, figlio mio.» aveva detto suo padre, gli occhi gonfi e arrossati, la voce ridotta ad un sibilo mentre i suoi polmoni cercavano in tutti i modi di raccogliere l’aria necessaria « La mia amata patria è ormai troppo piccola e povera perché tu possa condurvi la vita che meriti.» gli aveva sfiorato faticosamente il braccio, le dita bianche e gelide « Queste sono le mie ultime volontà, figlio. Sarò l’ultimo di questa stirpe a depositare qui le proprie ceneri.»

Il giovane lo aveva fissato intensamente per lunghi istanti; c’erano tante cose che avrebbe voluto dirgli, ma le occhiate febbrili piene di aspettativa di suo padre erano state in grado di imporgli il silenzio. Aveva abbassato appena gli occhi scuri, in un moto di mesta, rispettosa ed impassibile ubbidienza.

« Andrò, padre.» aveva risposto, annuendo piano.

Aveva visto uno stanco sorriso apparire sulle labbra esangui del suo amato padre.

« Ti ringrazio. Sono fiero di te, figlio.»

Il giorno dopo aveva sentito il pianto sommesso di sua madre riecheggiare per tutta la casa ed aveva aperto il pannello scorrevole della sua stanza; seduto sui talloni sul legno del porticato, davanti al giardino di pietre ghiacciate di cui suo padre era sempre stato geloso, aveva osservato i fiocchi di neve cadere dal cielo per tutta la notte.

La ShinRa aveva raggiunto il suo universo incontaminato qualche mese prima, cercando affari e accordi commerciali con la Pagoda. Gli ambasciatori provenienti da sud promettevano benessere, lavoro e denaro per chiunque desiderasse cominciare una vita nuova.

Si recò a incontrarli al termine dei riti funebri tramite i quali le ceneri di suo padre avevano trovato riposo tra quelle dei suoi predecessori. Quando si era presentato alla Pagoda indossando gli abiti che portavano il sigillo della sua casata, il nome della sua stirpe era bastato a convincere gli inviati da Midgar. La sua famiglia era una delle più celebri di Wutai, e lui ne era l’ultimo erede maschio.

« La tua presenza porterà onore ed enormi vantaggi all’azienda.»

Gli avevano promesso un posto tra gli enti esecutivi della ShinRa, gli chiesero di presentarsi alla pagoda entro una settimana per ripartire verso Midgar, gli avevano offerto la mano aperta per suggellare il patto.

Il ragazzo li aveva esaminati lentamente, rispondendo ai loro sorrisi solo con silenziosi e freddi sguardi.

« Vi ringrazio.» si inchinò appena, senza degnare i loro palmi spalancati neppure di un’occhiata.

E poco prima di partire con la ShinRa, verso un mondo che conosceva solo grazie ai racconti cupi degli esploratori, dopo aver reso onore alla tomba degli antenati con incensi di ciliegio, aveva ultimato i preparativi chiudendo i lucchetti dei suoi pesanti bauli antichi.

« Non sei costretto ad andare, figlio.» sua madre lo aveva implorato di rimanere con lei fino all’ultimo. La notte prima della partenza si era poggiata affranta allo stipite della porta scorrevole, la sua sagoma un po’ curva che si proiettava allungata sulle pareti della stanza ormai vuota.

« Questo è ciò che voleva mio padre. Gli ho dato la mia parola.» il giovane aveva risposto senza guardarla. Lei era rimasta a lungo in silenzio.

« Non ti fermerò se questa è anche la tua volontà.» si era infine arresa, la voce incrinata e tremante « Ma se in realtà non vuoi partire ed ami ancora la tua casa, rimani qui con me. Tuo padre capirebbe, ne sono certa. E’ giusto che tu sia libero di fare ciò che preferisci.»

Lui aveva chiuso gli occhi, dischiudendo appena le labbra.

Ho dato la mia parola, madre.

Come potrei sopportare il disonore di mancare ad una tale promessa?

E’ il mio dovere.

Sebbene il fiato gli si mozzasse in gola aveva trovato la forza di pronunciare le uniche parole che avrebbero costretto sua madre a lasciarlo andare. Le uniche che gli avrebbero permesso di continuare ad avanzare lungo il sentiero di devozione che aveva imboccato.

« E’ ciò che voglio.»

Sua madre aveva trattenuto il respiro, soffocando un breve rantolo di dolore.

Il giorno della partenza, quando lo aveva baciato su entrambe le guance e lo aveva osservato mentre lasciava la casa che non avrebbe mai più rivisto, gli aveva rivolto uno strano sguardo di accusa. Lui lo aveva sentito su di sé anche dopo, quando non fu più in grado di distinguere i tetti di Wutai tra gli alberi.

Un addio amaro che gli suggeriva un biasimo malinconico.

Pensi che tuo padre sarebbe fiero delle tue menzogne?

C’era stato un giorno in cui il giovane di Wutai aveva varcato la soglia di un mondo che non conosceva affatto. La prima cosa che notò, scendendo dall’auto che lo aveva accompagnato davanti ai cancelli di Midgar, fu che il cielo era uno specchio nero privo di stelle. Rimase immobile a fissarlo per lunghi istanti, stringendo tra le mani i manici duri dei suoi bauli da viaggio, in sottofondo i tonfi metallici provocati dagli sportelli della macchina che venivano aperti e richiusi. Cercò di riconoscere le costellazioni, tentò in tutti i modi di scorgere anche il minimo bagliore in quella distesa di pece – ma l’unica cosa che colse fu il vuoto, ed un istante dopo si sentì avvolto da un assoluto senso di disorientamento.

Il primo giorno lo accolsero tra le mura di un gigantesco palazzo di ferro e luci: il neon gli ferì gli occhi, fu assordato e confuso dalle voci di uomini di cui comprendeva a stento l’accento. In molti gli strinsero la mano senza che lui la offrisse, presentandosi spontaneamente. Sembravano tutti soddisfatti del suo arrivo, ma il giovane non si illuse. Il nome di suo padre correva su quelle bocche con troppa rapidità perché quel loro entusiasmo fosse disinteressato. Cercando di adattarsi alla situazione, mostrava a tutti un cortese e silenzioso distacco.

La sera stessa gli consegnarono la chiave di un appartamento, informandolo che quella sarebbe stata la sua sistemazione temporanea. Gli dissero che finché non fosse stato possibile farlo alloggiare direttamente al Quartier Generale, avrebbe dovuto cambiare alloggio ogni quattro giorni per questioni di sicurezza.

La prima casa era situata al quinto piano di un condominio a meno di due isolati dal Palazzo ShinRa. Era piccola e poco accogliente, ma il giovane non ebbe nulla di cui lamentarsi: sapeva che non sarebbe servito a nulla. Si sedette sul bordo del materasso duro e fissò il vuoto a lungo, senza curarsi dei bauli ancora intatti. Le pareti erano grigie e anonime – non c’erano decorazioni di carta di riso, né qualsiasi altra cosa.

Il secondo giorno degli uomini in giacca e cravatta bussarono alla sua porta: erano le cinque del mattino ma lo trovarono sveglio – non era riuscito a chiudere occhio. Gli consegnarono formalmente degli abiti avvolti in un sottile e leggero foglio bianco di carta velina, dicendogli di presentarsi al Quartier Generale alle sette in punto. Aprendo l’involto, distese sul suo letto intatto un completo blu scuro: sul taschino della giacca era ricamato il simbolo della ShinRa, un piccolo rombo perfettamente simmetrico che incorniciava il logo della compagnia.

Alle sette e mezzo del secondo giorno, il giovane incontrò il Presidente ShinRa. Si presentò nel suo grande ufficio dell’ultimo piano con addosso la sua nuova scomoda divisa, salutandolo con un profondo inchino formale. Il Presidente gli diede il benvenuto nell’organizzazione di intelligence della sua agenzia – un organismo che, a detta sua, era composto solo di persone da lui stesso ritenute meritevoli di enorme fiducia. Sembrava che quelle parole di circostanza volessero in qualche modo rendergli noto quanto fosse importante il servizio che il figlio di un grande feudatario di Wutai avrebbe svolto per la società. Ma per qualche motivo, il giovane le udì distorte e gli parve che si trattasse solo di un metodo velato per tenere a bada un potenziale pericolo.

« Sono molto onorato.» fu la risposta a quelle vuote lusinghe. Una bugia ingenua di tre parole.

E tuttavia sentiva ancora la voce di sua madre sussurrargli fredde accuse all’orecchio.

Chi pensi di ingannare con queste tue menzogne?

Il terzo giorno gli diedero le chiavi del suo secondo alloggio e gli mostrarono il cartellino che lo identificava come dipendente della ShinRa – sulla carta plastificata si leggeva chiaramente Sezione investigazioni del dipartimento degli Affari Interni.

Il quarto giorno lo accompagnarono nelle prigioni del palazzo e gli mostrarono un prigioniero bendato, legato ad una sedia nel bel mezzo di una cella umida. Gli diedero una pistola e gli dissero “spara”.

Il Turk tese il braccio e fissò in silenzio l’uomo imprigionato; il dito tremava sul grilletto e il calcio bollente dell’arma gli si conficcava nel palmo provocandogli un dolore lancinante. E prima di obbedire, poggiando la canna sulla fronte del prigioniero, vide le lacrime rigare le sue guance, mentre una bassa preghiera sommessa e singhiozzante gli sfuggiva dalle labbra secche. Quando il frastuono dello sparo gli inibì l’udito, estraniandolo da qualsiasi cosa su quel Pianeta, il Turk riuscì a non pensare a quanto quella nenia gli fosse sembrata simile ad uno dei sutra di Wutai.

Si abituò difficilmente all’odore dello smog per strada, al frastuono che la inondava da mattina a sera, alle luci abbaglianti, al pavimento ruvido degli uffici e dell’asfalto. All’inizio non riuscì a chiudere occhio, ma alla fine le sue abitudini cedettero e si modificarono – il letto duro della sua stanza diventò una necessità, così come il caffè amaro dei distributori in ufficio, o il colletto stretto e asfissiante di quella giacca blu inamidata. Le notti insonni terminarono, complici le intense giornate di lavoro.

L’unica cosa a cui non riuscì mai ad assuefarsi, per quanto si sforzasse, fu premere il grilletto. Quando al mattino gli bastava una leggera pressione dell’indice sul metallo freddo per spezzare la vita di un uomo, gli incubi che gli impedivano il sonno tornavano sempre, ogni notte, a volte per mesi.

E poi venne la guerra.

Se ne accorse una mattina qualsiasi, sfogliando dei mandati di arresto e di perquisizione. Uno dei fascicoli fissava il primo bombardamento su Wutai alle ore otto del mattino, in data otto agosto. Sembrava uno scherzo o un errore che uno dei Turk lo venisse a sapere a quel modo – il giovane rilesse quella dichiarazione di guerra più di dieci volte, stringendo forte tra le dita il foglio bianco che portava la firma del Presidente ShinRa.

Quella sera stessa chiese udienza al Presidente. Si presentò davanti alla sua scrivania contando i passi lungo le scale, i pugni stretti in una morsa nel tentativo estremo di mantenere il controllo.

Si presentò di fronte a quell’uomo per conoscere il perché di quella guerra e ottenne in risposta solo uno sguardo di irritata sufficienza.

« Per quale motivo un semplice Turk dovrebbe contestare le decisioni dei suoi superiori?» il Presidente si era alzato in piedi, sbattendo le mani contro la scrivania.

« Wutai è la mia terra.» fu la giustificazione semplice e sincera che giunse in risposta

« Wutai è un’isola maledetta popolata di sciocchi ipocriti. Abbiamo tentato di trovare un accordo con loro, ma la loro ostinazione e i loro dogmi obsoleti di orgoglio e dovere ce lo hanno impedito.» le parole del Presidente lo ferirono come pugnali affilati « Ora è tempo che Wutai riceva ciò che si merita.»

Il giovane deglutì, i principi in cui aveva sempre creduto che si sgretolavano improvvisamente ad ogni parola, frantumandosi in mille pezzi ai suoi pedi come gingilli di vetro privi di valore. Il presidente li aveva scherniti e denigrati fino a disintegrarli nel nulla.

« Posso aiutarvi. Lasciatemi il comando delle contrattazioni e datemi la possibilità di provare.» fu l’ultimo tentativo disperato « Ritirate la dichiarazione di guerra.»

Gli occhi del presidente si erano immediatamente accesi di rabbia:

« I Turk obbediscono. L’obbedienza è l’unica cosa che viene chiesta loro in cambio di uno stipendio che chiunque sul Pianeta invidierebbe, e tu – chi credi di essere tu, per osare anche solo venire qui al mio cospetto per rivolgermi una domanda del genere?» il Presidente si era riseduto lentamente, rivolgendogli un gesto stizzito della mano, quasi dimenticandosi della sua presenza « Sei congedato.»

La notte del sette agosto, il fracasso degli elicotteri e dei bombardieri che si alzavano in volo dall’aeroporto della ShinRa non gli fece chiudere occhio. Il suo decimo appartamento era più spazioso dei precedenti, si trovava molto più vicino al Quartier Generale di qualsiasi altro avesse occupato. Affacciandosi alla finestra della sua stanza avrebbe facilmente potuto assistere alla processione militare che si alzava in volo in una cupa promessa di morte e rovina.

Abbassò le persiane e si chiuse a chiave nel bagno; si accasciò sul lavandino, rimettendo bile e acido dallo stomaco vuoto. Il rombare dei motori che si allontanavano giungeva attutito attraverso le sottili pareti di prefabbricato, ma lo assordarono e lo tormentarono fino a fargli quasi esplodere la testa dal dolore.

Quando alzò gli occhi e si guardò allo specchio, l’immagine riflessa gli mostrò un uomo in lacrime.

A cosa servivano la giustizia e l’orgoglio, ormai? Avrebbero fermato quella follia? Avrebbero lavato le sue mani imbrattate dal sangue degli uomini che aveva ucciso?

A cosa serve l’onore, se sono costretto a insozzarlo perseguendo dei valori in cui non credo?

I polpastrelli premuti contro il vetro, il giovane di Wutai poggiò la fronte contro la superficie fredda, digrignando i denti, le lacrime che colavano senza tregua fino al mento appuntito.

E battendo i pugni contro la sua immagine riflessa, il Turk si sentì un traditore. Non era forse lontano dalla sua gente che sarebbe morta? Non si rendeva conto di quanto quelle sue lacrime fossero inutili?

Che valore ha il mio giuramento, padre?

Quante persone sono già morte a causa mia? Quante ne moriranno ancora?

Continuando a fissare l’uomo nello specchio, studiando le sue guance salate ed incavate, il suo sguardo vacuo ed il sudore che gli imperlava la fronte e gli inumidiva i capelli, il Turk impugnò la pistola. Aveva abbandonato la terra di suo padre, offrendosi ingenuamente come prigioniero politico. Si era votato ad una vita fantasma, spingendo il proprio ego fino all’annullamento. E non poteva scappare: poteva solo rimpiangere e urlare, mentre iniziava la distruzione di ogni cosa avesse amato. Ora che il suo onore era andato in frantumi, a cosa serviva vivere?

Poggiò la canna sulla propria tempia, il dito che per la prima volta non fremeva nel toccare il grilletto.

Quante vite ho strappato in nome dell’onore?

Secondo quale diritto ho ucciso?

Solo chi è pronto a morire possiede quel diritto.

Chiuse gli occhi, il ronzio degli aerei che spariva lentamente.

La molla scattò a vuoto. Non c’erano più proiettili.

Neppure la morte gli era più concessa.

Quando il giorno dopo si guardò allo specchio, la luce dei suoi occhi era diversa. Quando sorse l’alba dell’otto agosto, il ragazzo di Wutai non esisteva più. Non esistevano più legami di sangue, né abiti ricamati di seta, né la nostalgia di un mondo che probabilmente in quello stesso istante stava già bruciando.

Ora c’era un uomo che avrebbe condotto la vita che aveva scelto in silenzio, come in un eterno cammino di espiazione.

Si legò la cravatta come ogni mattina, pettinando all’indietro i capelli che iniziavano a diventare troppo lunghi. Infilò il caricatore nella pistola, ignorando la fitta ragnatela di crepe che deturpava lo specchio.

E firmando il primo rapporto con il suo nuovo nome fittizio – il nome di quell’uomo nato dalle lacrime – impugnando un’elegante stilografica nera, si fece silenziosamente una promessa ingenua.

Ho abbandonato tutto per questa vita. Non è forse giusto che vi dedichi tutto me stesso?

Pose il sigillo della ShinRa sulle ultime due lettere della sua firma ancora acerba.

E’ ciò che merito.

Era l’otto agosto quando iniziò la lenta disfatta di Wutai.

Era l’otto agosto quando nacque Tseng.

 

Quando gli furono consegnate le chiavi del sedicesimo o forse diciottesimo  appartamento, Tseng iniziò ad occuparsi dei sondaggi per la SOLDIER. Era incredibile la quantità di candidati che si presentavano ogni giorno alle porte del Quartier Generale, chiedendo di essere ammessi tra le schiere dell’esercito d’elite.

Il ruolo dei Turk, in quel caso – uno dei compiti ufficiali della Sezione Investigazioni – era sottoporre i candidati a sondaggi e prove sia fisiche che psicologiche in modo da verificare che fossero idonei o meno alla procedura di trasformazione in SOLDIER. Tseng aveva svolto il suo dovere con estrema professionalità fin dal primo colloquio, prendendo appunti in silenzio, ascoltando e registrando ogni parola. La maggior parte dei volontari erano ingenui precari che speravano di cambiare vita – incantati dalle promesse elargite dagli sponsor ShinRa o dal sogno di gloria proposto dagli eroi SOLDIER come Sephiroth – ma erano pochi quelli ad avere i requisiti adatti. Ogni volta che si sedevano davanti a lui, tesi ed impazienti come se da quell’incontro dipendesse la loro vita, Tseng non riusciva a fermare quel muto flusso di coscienza che gli scorreva nella testa, in sottofondo – Poveri sciocchi avventati, non hanno idea di che inferno li attenda. E nonostante ciò continuava a lavorare, ponendo i sigilli e la propria firma quando i test risultavano positivi. Quando doveva congedare i volontari non adatti, li osservava andarsene senza mostrare loro alcuna espressione, anche se spesso era costretto ad assistere impassibile anche alla loro delusione disperata.

A Midgar non era facile distinguere le stagioni, ma il calendario segnava l’inizio dell’autunno. Non c’erano alberi spogli né foglie secche per le strade e la cappa di smog ed inquinamento manteneva la temperatura costante – un caldo umido spesso soffocante che si attenuava solo durante le rare nevicate invernali.

In quel periodo il suo lavoro si limitava semplicemente nell’incontrare la gente, nel raccogliere informazioni utili, nel timbrare e contrassegnare biglietti di non ritorno verso il mondo SOLDIER.

Ed era una sera autunnale quando Tseng vide il nome di un uomo non idoneo stampato su uno di quei biglietti.

Se ne accorse all’istante, sfogliando le cartelle degli arruolamenti. Esaminò il fascicolo leggendo ogni paragrafo con attenzione: a giudicare dai risultati del sondaggio, si trattava di un uomo molto forte fisicamente, che tuttavia presentava delle debolezze minime      e dei trascurabili disturbi di natura psichiatrica. Per quale motivo vi era stato apposto il sigillo? Una svista? Un errore di un collega?

Abbandonò la cartella sul tavolo della stanza degli archivi, dirigendosi a grandi passi verso l’ascensore. Svista o errore che fosse, solo una cosa era certa: quell’uomo non avrebbe probabilmente sopportato il trattamento.

Aspettò di arrivare al cinquantesimo piano fissando i numeri che crescevano rapidamente sul monitor a cristalli liquidi – 44, 45, 46 – mentre oltre i vetri dell’ascensore i palazzi squallidi di Midgar si rimpicciolivano e diventavano in fretta insignificanti sotto i suoi piedi, a mano a mano che saliva. Quando le porte scorrevoli si aprirono, accelerò il passo, dirigendosi verso il laboratorio dove si svolgevano le esposizioni Mako degli agenti SOLDIER.

Probabilmente, in quegli attimi che erano intercorsi tra la scoperta di quell’errore di valutazione e la rapida salita verso il laboratorio, Tseng era riuscito in qualche modo ad illudersi di poter salvare una vita – dopo che per molto tempo non aveva fatto altro che distruggerne.

Ma quando gli infermieri lo portarono davanti al letto del paziente 34, ogni sua speranza si dissolse all’istante.

Si avvicinò lentamente, ogni passo che diventava più pesante e difficoltoso come in una corsa disperata nel fango; e quando si fermò, accartocciando tra le dita il fascicolo che lo aveva condotto fin lì, incontrò lo sguardo vitreo di un uomo morto.

Aveva il fisico imponente di un minatore, ma il volto incavato raccontava un’altra storia. Sembrava essere dimagrito improvvisamente, all’istante, quasi che la sostanza gli fosse stata aspirata via dalle carni in un colpo solo. I bulbi oculari sprofondavano nelle orbite scure come in due profondi crateri vuoti, i capelli erano radi, bianchi come quelli di un vecchio. Giaceva lì, respirando a fatica, muovendo gli occhi ciechi che sembravano posarsi su ogni cosa senza tuttavia vedere nulla.

Tseng studiò quegli occhi a lungo, prima che l’uomo si accorgesse di lui; e fu osservando i pigmenti castani delle iridi che si rimescolavano disordinatamente al liquido verde del Mako – una macchia densa che si irradiava dalla pupilla come l’olio su di uno specchio d’acqua – che comprese di non poter fare nulla.

E’ troppo tardi.

Dopo qualche istante, quando quegli occhi innaturalmente bicromi si fissarono su di lui e riuscirono a metterlo a fuoco, l’espressione dell’uomo sembrò rianimarsi; la voce sibilò tra le sue labbra violacee in un basso rantolo:

« Lei è uno dei Turk, non è vero? Riconosco la divisa.» il silenzioso annuire di Tseng fece in modo che su quel volto tirato apparisse un grande sorriso « E’ grazie a voi che sono qui, vi sono molto grato.» si era fermato un attimo a riprendere fiato « Quando sarò SOLDIER la mia vita cambierà! Potrò permettermi un casa più grande e potrò prendermi cura dei miei figli e di mia moglie…mi stanno aspettando a Corel…» tossì forte «…non sapevo cos’altro fare. Quando sarò SOLDIER ci trasferiremo qui e loro vivranno la vita che meritano…»

Tseng corrugò appena la fronte, annuendo in risposta. Non riusciva a dire nient’altro e sapeva bene che qualsiasi cosa sarebbe comunque stata inutile. Di colpo l’uomo si irrigidì, gli occhi che si offuscavano nuovamente; proseguì a bassa voce, balbettando, lo sguardo che si perdeva ancora in universi che non poteva vedere.

« Però è dura, signore. Mi hanno detto che è normale che abbia così freddo, dopotutto sono solo alla prima esposizione…» tossì ancora, più forte di prima, il tono di voce che sfumava dalla lucidità febbrile al delirio «…ma io ho davvero troppo freddo, signore. E non sento le gambe, e fa male, e gli occhi bruciano.» si voltò nuovamente a guardarlo « Ma è normale, non è così? Alla prossima esposizione si sistemerà tutto, mi abituerò, e sarò un SOLDIER, si?»

Tseng restituì lo sguardo, osservandolo mentre farneticava su quelle lenzuola bianche e accecanti che sarebbero probabilmente state il suo letto di morte. E respirando piano, dischiuse le labbra:

« Si.» annuì ancora, lentamente « Non si preoccupi. Andrà tutto bene.»

Dopo un istante di silenzio, l’uomo abbandonò la testa quasi calva sul cuscino, gli occhi che si riducevano in fessure:

« Grazie di tutto, signore.» la sua espressione si fece di colpo serena « Grazie di cuore.»

Tseng si allontanò in silenzio, l’eco delle proprie parole che lo tormentava fino quasi a portarlo alla follia, come una maledizione.

 

Alcuni giorni dopo, tenendo in mano il manico della sua ventiquattro ore nera, Tseng si fermò davanti alle porte chiuse dell’ascensore al cinquantanovesimo piano. Abbassò lo sguardo, sentendosi strattonare debolmente i pantaloni – una bambina stringeva nel pugno bianco e piccolo le pieghe blu della sua divisa. La studiò in silenzio, ricambiando il suo sguardo luminoso con brevi e pacate occhiate interrogative.

La bambina indossava un camice bianco da laboratorio, aveva i capelli raccolti in una corta treccia castana e due grandi occhi espressivi che brillavano di un verde acceso.

Se ne stava lì, immobile, a piedi nudi sul pavimento lucido, lo guardava con tanta intensità che Tseng pensò per un istante che con quegli occhi lei potesse leggere qualsiasi suo segreto.

E poi le labbra rosa e carnose della bambina si mossero:

« Non essere triste, signore.»

Alcune ore dopo, Tseng si recò nuovamente al cinquantesimo piano, le parole della bambina non gli davano tregua. E quando lo fecero entrare nell’infermeria, vide che il letto numero 34 era vuoto, intatto come se nessuno lo avesse occupato per anni.

Gli infermieri gli si accostarono scuotendo il capo e gli sussurrarono “Intossicazione da Mako. Stadio terminale.”

L’uomo di Corel era morto.

Fissando le lenzuola pulite, Tseng sentì distintamente la voce di una donna sussurrargli fredde accuse all’orecchio.

A cosa pensi siano servite le tue menzogne?

 

(xxx)

   
 
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