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Autore: Ranessa    04/06/2005    1 recensioni
Perchè in realtà io sono vivo. Sono ancora vivo.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nota: Il breve passaggio in corsivo è tratto dal libro.


[ Rifiuti ]


Perchè in realtà io sono vivo. Sono ancora vivo.
Nonostante la carne in putrefazione, il cranio aperto, il cervello devastato e la muffa, io sono ancora vivo.
E comprendo ciò che mi succede attorno, e penso ed elaboro e sento il dolore.
Soffro ad avanzare lentamente in questa immensa discarica, mi vergogno della mia nudità e sono nauseato dal mio stesso tanfo e forse un giorno qualcuno se ne renderà conto.
Il Consiglio già sa.
Nessun altro sospetta.

Oggi la discarica è spazzata da un forte vento che viene da ovest.
Granelli di polvere si sollevano dalla terra battuta, rincorrendosi rapidi tra le ampie curve formate dalle montagne di rifiuti. Qualche solitario sacchetto di plastica si alza in volo e l'odore ripugnante che qui sempre si respira viene trasportato in giro per la città, seguito da nugoli di insetti impazziti, amanti del caldo soffocante che si è impadronito di tutta New Crobuzon negli ultimi giorni.
Ma la brezza non allevia le mie sofferenze. Il sole incombe su di me, distante eppure così terribilmente vicino. Il sole incombe sulla mia pelle, accelerandone il processo di decomposizione, tanto che durante il giorno sono costretto a sedermi impotente all'ombra del Consiglio, dietro alla baracca.
Un'ombra che, perlomeno ai miei occhi, appare maestosa quanto quella della grande Perdido Street Station.

Un tempo, forse più vicino di quanto io stesso possa pensare o ricordare, avevo un nome, e un lavoro, e una casa, e molte altre cose. Lavoravo proprio qui, mi guadagnavo da vivere onestamente, detestando profondamente la discarica, il suo puzzo e il suo paesaggio desolato ma tornando a casa ogni sera con i soldi per il pane, per i vestiti puliti e le tasse. E oggi questo è tutto quello che mi resta. Un cavo piantato malamente nel cervello. E castelli di carte costruiti nella polvere.
Ma le carte non sono carte.
Le carte sono vecchie schede di programma.



*

"Ehi, Sevran! Te la fai una birra con noi?"
"No, Zohar, grazie, ma stasera ho un impegno..."
"Ancora quella Volusia eh?"
"Chi è quella Volusia?"
Lyle sbuca da una delle montagnole di rifiuti e coglie subito il sorrisetto malizioso sulle labbra di Zohar. Io lo guardo storto, lui alza una mano in segno di saluto e si porta via Lyle, sussurrando cospiratore al suo orecchio.
Ad ogni modo sì, ancora quella Volusia e devo anche sbrigarmi se voglio arrivare a casa in tempo per riuscire a togliermi dalla pelle il puzzo della discarica. Dalla pelle, dai capelli, dai vestiti e dalle scarpe, dalla borsa in cui mi porto dietro il pranzo ogni giorno e dalla mente.
Soprattutto dalla mente.

L'unica cosa bella della discarica è il tramonto. Quando gli ultimi raggi del sole si riflettono sul vetro delle bottiglie e attraversano la plastica assumendone le tonalità. Allora la luce non è più luce, ma solo colore, centinaia di colori, e i rifiuti non sono più rifiuti, ma solo disegni, tanti acquerelli sullo sfondo rosso del cielo. Per questo ho scelto questo turno, prima che arrivasse Volusia e le corse alla sera per essere pulito e puntuale diventassero gare a tempo, per potermi godere il tramonto della discarica. Per riuscire a convincermi che qui, in fondo, non è poi così male.
Questa sera però ho finito più tardi del solito, altrimenti, forse, la birra con gli altri sarei anche riuscito a concedermela. E invece è così tardi che il tramonto mi ha abbandonato ormai da tempo, che se non conoscessi questo posto meglio della mia stessa casa adesso avrei difficoltà ad orientarmi, circondato solo dal buio e dalle poche luci della città che riescono a superare la barriera dei blocchi di rifiuti.
Cammino in direzione della baracca, come la chiamiamo noi, la piccola casupola che fa da spogliatoio, ritrovo, sgabuzzino; la capanna in lamine di metallo mezze arrugginite che per chi lavora qui è il punto nevralgico della discarica. Non ho il tempo di tornare a casa, così mi accontenterò della piccola doccia che c'è nella baracca (anche se ha soltanto l'acqua fredda), mi infilerò in fretta i vestiti buoni (quelli di riserva che tengo nell'armadietto che ho in comune con Zohar per casi di emergenza come questo) e correrò da Volusia, sperando che almeno questa sera non abbia voglia di litigare.
Lei detesta il mio lavoro. Sono sicuro che preferirebbe trovarmi a spacciare shazbah o merdasogni da qualche parte a Città delle Ossa piuttosto che a guadagnarmi onestamente da vivere qui, in una delle discariche di Ansa di Griss.
Ma proprio non capisce che anch'io... Anch'io detesto il mio lavoro.

Svolto l'ultima curva e finalmente arrivo in vista della baracca. Sembra quasi mi stia aspettando dall'altra parte della spianata, l'unica zona aperta della discarica, dove la vista può spaziare liberamente per un centinaio di metri. Terra battuta e vento a sollevare la polvere, nient'altro che questo.
Mi dirigo a passo sicuro verso la luce gialla che si accende automaticamente nella baracca ogni sera, quando il sole cala, e raggiungo il centro della spianata prima di fermarmi... Perchè non c'è solo la baracca lì, ad attendermi. Qualcosa si muove davanti alla sua porta, un piccolo esserino metallico, uno di quei congegni per le pulizie ormai così antiquati. Di quegli affari se ne trovano a decine qui, con pezzi mancanti, difetti non più riparabili... Si muove a scatti, con le ruote che cigolano e le saldature che sprizzano scintille nel buio. Dev'essersi risvegliato in qualche montagnola di rifiuti qui intorno, non è raro, ma nemmeno piacevole per chi poi deve rincorrerlo per tutta la discarica prima di riuscire a farlo a pezzi definitivamente. Faccio per andargli incontro, imprecando mentalmente contro l'ennesima perdita di tempo che farà innervosire ulteriormente Volusia.
Ma in quel momento accade.
Un altro rumore attira il mio sguardo oltre le mie spalle. Un altro cigolio.
Un altro congegno.
Questo è un Ekb4c, li usano ai docks, giù a Kelltree e in quei posti lì, lungo il fiume. E poi a sinistra, e a destra, e di nuovo di fronte alla baracca. Arrivano ai lati della spianata riunendosi in file ordinate, si stagliano contro l'ombra dei rifiuti e il loro metallo manda bagliori nella notte, colpito debolmente dalla luce della baracca e dalla luna.
Passano pochi minuti.
Sono circondato.

Non è paura all'inizio, ma semplice apatia, un distacco totale da una realtà che non può essere vera, perchè un centinaio di congegni non accerchia un uomo indifeso in una discarica sperduta a metà strada tra Kelltree e Perdido Street Station, nemmeno qui a New Crobuzon, dove ogni cosa, anche la più inimmaginabile, è all'ordine del giorno.
Mi muovo a disagio, stringendo due dita intorno all'orecchino ad anello che porto all'orecchio sinistro. A Volusia non piace. Lo tolgo ogni sera prima di incontrarla e lo rimetto solo al mattino, per andare al lavoro.
Un congegno si stacca dalla sua fila, è il primo che ho visto, quello per le pulizie ed avanza verso di me. Io indietreggio (ora sì, è paura) e allora un altro lascia il suo posto dietro di me. È l' Ekb4c.
Mi costringe a fermarmi.
Il primo congegno mi raggiunge (paura) e alza un braccio alla cui estremità cinque stecche di metallo fungono da dita. Con una di esse inizia a tracciare dei solchi sulla terra battuta. Stringo gli occhi per riuscire a distinguere i segni al buio.
È una piantina della discarica.

Quando ha finito di disegnare segna un punto sulla mappa e poi ne indica uno con il braccio, al di là della baracca e ripete il gesto una seconda volta. Segna lo stesso punto sulla mappa e indica quello reale, dietro la casupola. Io gli faccio cenno di aver capito, anche se non è così, e poi mi guardo rapido intorno: non c'è via di fuga, ma forse non vogliono farmi del male...
L' Ekb4c mi fa voltare, scioglie l'elastico che lega i miei capelli in un sottile codino dietro la nuca. Nemmeno i miei capelli piacciono a Volusia, sono troppo lunghi. Il congegno per le pulizie comincia a togliermi la cintura dei pantaloni, l'altro mi strappa l'orecchino dal lobo senza nemmeno aprire la farfallina, sento il sangue caldo scorrere lungo i muscoli tesi del mio collo.
Mi spogliano.
Sono completamente nudo in mezzo alla discarica.
Un altro congegno mi si avvicina.
Ha lame taglienti al posto delle braccia, ma forse non vogliono farmi del male...
Chiudo gli occhi.
Sento solo il dolore.

"Non fatevi spaventare dal mio avatar" sibilò l'uomo senza cervello rivolgendosi a Isaac e agli altri, gli occhi sempre sbarrati e non intelligibili."Non sono in grado di sintetizzare una voce, quindi ho recuperato questo corpo che ballonzolava lungo il fiume in modo da poter mediare con gli esseri di carne e sangue...

... quindi ho recuperato questo corpo che ballonzolava lungo il fiume...


Chiudo gli occhi.
Sento solo il dolore.



*

Siedo in terra. Tracciando cerchi nella polvere con un dito secco e incrostato di sporcizia.
Il Consiglio oggi è eccitato... la sento da questa mattina, la piccola e costante scarica elettrica che attraversa anche il mio corpo: questa sera Grimnebulin tornerà e gli lascerà il motore di crisi.
Ho costruito un altro castello intorno ai cerchi, che è un po' come se fossero i giardini e i parchi del palazzo. Le schede di programma sono migliori delle carte per costruire. Sono bucherellate a un'estremità, i fori è un po' come se fossero le finestre del palazzo.
Il vento non si è ancora placato.
Il castello di carte si abbatte nella polvere.
Ma le carte non sono carte.
Le carte sono vecchie schede di programma.

(Ed io chiudo gli occhi.
Sento solo il dolore.)

   
 
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