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Autore: Afaneia    10/10/2009    4 recensioni
Eppure, ogni volta hai fatto ritorno.
Ritornavi per le suppliche, per le lettere, per i telegrammi. Per le lacrime, per ogni cosa. Ritornavi da lui.
Da quella divinità incantevole che tu professavi di adorare.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La mia colpa non risiedette tanto nel non essermi staccato da te

La mia colpa non risiedette tanto nel non essermi staccato da te, ma nell’averlo fatto troppo spesso. Per quanto posso ricordare, posi fine alla mia amicizia con te regolarmente ogni tre mesi…

 

Eppure, ogni volta hai fatto ritorno.

Ritornavi per le suppliche, per le lettere, per i telegrammi. Per le lacrime, per ogni cosa. Ritornavi da lui.

Da quella divinità incantevole che tu professavi di adorare.

Davvero l’adoravi? Davvero l’amavi? È per questo che ogni volta ritornasti, per questo facesti sempre ritorno?

Pure, con lui soffrivi. O no?

Quando non ti trovi sul tuo piedistallo non sei interessante. La prossima volta che ti ammalerai me ne andrò immediatamente.

Fu lui a dirti questo, ti ricordi? Fu lui a dirtelo, fu lui a insultarti all’ora di pranzo per poi chiederti se avessi ordinato la cena; fu lui a rovinarti; fu lui a farti scenate ogni giorno; fu lui a mandarti in carcere, alla fine. Lui più di suo padre, probabilmente.

Quel dio che tu veneravi, che vezzeggiavi, cui tutto cedevi; quella creatura accecata dall’odio, odio per suo padre.

Lui ti trattava come neppure le bestie meritano di essere trattate; lui ambiva al tuo figlio maggiore; lui era un bambino viziato; e allora perché sei ritornato?

Ogni tre mesi litigavate, o forse è meglio dire che litigavate peggio delle altre volte; ogni tre mesi te ne andavi – a volte fuggivi…

Ma allora perché sei ritornato?

Era per i pianti, per le suppliche, per le preghiere? O era perché, in fin dei conti, non eri capace di resistere ai richiami della tua divinità?

Fu in carcere che ti rendesti conto che cedere a ogni suo capriccio, e non solo ai suoi capricci, ma alla sua stessa presenza, era stato un errore.

Promettesti di non vederlo più, di non sentirlo più, di non parlargli più; ma non andò così.

Tu tornasti da lui.

Come al solito, come ogni volta, come ogni tre mesi.

Com’era tua abitudine.

Perché?

Per quale motivo continuavi a cedere a lui, perché ogni volta era un ritorno?

Perché insisteva e avevi pietà della sua debolezza e ammiravi la sua fiducia nel tuo perdono? Perché eri tu a essere debole? Perché era la sua personalità a essere più forte della tua? O perché lo amavi?

Lui non ti scrisse quand’eri in carcere. Lui non volle assisterti quand’eri malato. Lui non c’era all’Hotel d’Alsace quel trenta novembre.

Quel trenta novembre vi eravate già lasciati; era la prima volta che rinunciavi a lui.

Al “Caro Bosie” di una lettera così lunga. Al giovane poeta che tirasti fuori da un guaio, e che ti affondò in uno più grosso.

Alla divinità incantevole dalla quale una sola volta rinunciasti a tornare.

 

 

Generalmente, io non amo moltissimo le ficci su personaggi reali. Ho deciso di scrivere questa per porre su carta un dubbio che mi assale in questi giorni, dopo la lettura di Se il seme non muore di André Gide, dove appunto l’autore riferisce che Wilde definiva così, “divinità incantevole”, Lord Douglas.

Le frasi scritte in corsivo a lato sono tratte dal De Profundis di Oscar Wilde.

Questa fic non vuole in alcun modo fornire un ritratto di Oscar Wilde, né di Douglas; è solo una riflessione su un grande dubbio.

Le recensioni di chiunque volesse dare un parere sono gradite!

   
 
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