“Ma
non hai
riacquistato interesse nei confronti della vita?"
"Sì
ora provo di nuovo interesse per la vita, forse proverò
anche a crearne.”
Queste
furono le ultime parole che scambiai
con un essere umano, prima di partire per una nuova galassia. Molto
tempo è
passato, ma alla fine ne ho trovata una interessante: è
così lontana da
risultare invisibile dalla Terra, anche con i telescopi più
potenti.
È
piccola, questa galassia: nemmeno un terzo
della Via Lattea. Il motivo per cui ho deciso di fermarmi qui
è che in questo
luogo la mia visione simultanea del tempo è impossibile. La
causa risiede nel
nucleo stesso di quest’ammasso stellare: al centro, dove le
stelle sono più
vecchie, una di loro è collassata e ha inghiottito una
quasar; a sua volta
questa genera tachioni mentre precipita verso il buco nero.
Fino
a quando resterò qui, le delizie
dell’incertezza mi apparterranno.
Io
siedo qui, al centro della nube di gas, ricca
di metalli pesanti che si estende in tutte le direzioni per una
distanza pari a
quella che la luce compie in venti ore. Siedo incerto, mentre piccole
molecole d’idrogeno
si ionizzano quando mi passano troppo vicino a causa della debole
luminescenza
che emetto.
Ora
levo la mano, potrei pronunciare le parole
che penso, ma a che servirebbero? Chi le udrebbe nel vuoto?
Ciò che conta è
solo l’azione e le motivazioni che l’hanno
generata, proprio come Adrian mi ha
fatto capire. Allora agito le dita e la polvere interstellare e i gas
si
raccolgono attorno a me, sempre più veloci e vorticosi. Io
li comprimo e li aiuto
ad avvicinarsi. Nel gorgo dei gas un altro piccolo mulinello si forma
alla
giusta distanza, cercando per se più materia possibile,
mentre la gravità
attira le molecole l’una con l’altra.
Mi
sono allontanato, voglio vedere tutto
quello che sta per succedere. All’improvviso, senza un segno,
una nuova stella
si accende al centro del gorgo, il suo disco di accensione spazza via
gli
elementi più leggeri dalla nebulosa e i gas che attorniavano
il mulinello
secondario, ormai consolidati in un corpo solido e caldo.
La
stella è di un delicato colore rosso, e attorno ad essa
orbita un solo pianeta
marrone scuro, il luogo che ho deciso di chiamare casa. Scendo sul
pianeta: la
sua superficie ormai è fredda e il pianeta ha una lieve
tonalità verde a causa
dei meteoriti ricchi di rame che su di esso sono caduti.
L’atmosfera è ricca di
azoto e idrogeno.
Se
parlassi, la mia voce sarebbe sicuramente distorta dalla diversa
composizione
dell’atmosfera, ma decido di farlo.
Il
risultato stupisce anche me:
“Sia
fatta la Vita.”
Mentre
lo dico, un fiore sboccia ai miei piedi,
ebbro delle possibilità che gli si aprono innumerevoli di
fronte.
Questa
storia è stata scritta dopo
aver rivisto il film dedicato allo stupendo fumetto di Alan Moore.
Il
Dr. Manhattan è il personaggio
per il quale ho provato più … empatia, per la sua
sofferenza nel non riuscire a
capire e a farsi capire dal resto dell’umanità.
Per via della sua condizione
aliena è considerato utile, ma è temuto e
allontanato dalla società. Mi
dispiaceva vederlo scomparire dal fumetto alla fine, quasi di nascosto,
così ho
scritto questa storia breve per colmare il divario; scritta di getto, a
“gettito
d’inchiostro”, la pubblico, sperando che vi sia
gradita. E se non lo è:
commentate e ditemi il perché.
P.s.
per quanto sia poco probabile
che un sistema solare neonato ospiti un solo pianeta, mi sono permesso
questa
piccola licenza per far rassomigliare il sistema all’atomo di
idrogeno, un
simbolo che il Dr. Manhattan ammette di rispettare.