Storie originali > Epico
Ricorda la storia  |       
Autore: trullitrulli    04/11/2009    2 recensioni
Raccontato dagli occhi della protagonista, Psyche, la mortale che ardì d'essere bella come Afrodite e di cui Eros osò innamorarsi.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

 Eros e Psyche

 

Il mio nome è Psiche, la mortale. Sono figlia minore di un re e di una regina. Oltre a me, i miei buoni genitori hanno due figlie dall'aspetto leggiadro e belle come due rose.
Ma per quanto siano graziose la loro bellezza potrà sempre essere interpretata con parole mortali.
I forestieri in viaggio potranno descriverla ad altri forestieri lungo il loro cammino, che a loro volta racconteranno la loro fama agli abitanti delle proprie patrie.
Ma non c’è stato ancora complimento o descrizione che non siano sembrati smunti al confronto con la vista della mia bellezza, che dicono -e lo riconosco con un po’ di timore quando vedo emergere la mia immagine nello specchio- talmente radiosa, talmente delicata e così superiore a qualsiasi lode da rivaleggiare con Afrodite, la divina regina dell'amore, al cui passaggio leggero e invisibile i fiori e le rose sbocciano in suo onore…


Nessuno andò più ai templi a rendere omaggio alla legittima dea: non toccarono più gli altari, non bruciarono più ghirlande o uccisero agnelli, poiché gli uomini erano convinti di avere Afrodite in mezzo a loro.
La mia fama mi precedeva ovunque andassi.
Nel regno dei miei genitori al mio passo intimorito la gente per strada mi ricopriva di petali e fiori, sciolti o legati in mazzi, e mi vedevo rivolte preghiere ed offerti i sacrifici della dea.
Non volevo che gli immortali credessero che con la mia bellezza avanzassi delle pretese di divinità.
Pensavo che dividere con Afrodite la sua fama mi avrebbe attirato l’ira della dea, e così mi schermavo sempre, impaurita come una creatura del bosco, respingevo dolcemente le preghiere e i doni votivi, e io stessa, intimidita, supplicavo i supplici che non si prostrassero davanti a me e non si umiliassero ad abbracciarmi le ginocchia e a coprire di baci i miei piedi.
Nonostante la mia bellezza avesse la fama di essere divina, era sterile ed infeconda, e mi aveva lasciata in una desolata solitudine.
Le mie sorelle, avvenenti, ma di bellezza più modesta, si erano felicemente sposate ed avevano unito la nostra famiglia con quelle di due re. 
Nessuno, invece, osava avanzare proposte nuziali per me, che ero ammirata ovunque, ma con l’ammirazione per le statue che, per quanto siano perfette, rimangono solo delle immagini di beltà. Per i mortali io ero un simulacro prima di essere una donna. Nessuno nei miti e nella storia amò mai una statua o volle vivere e morire per un simulacro.
Credevo che, se fossi stata solo graziosa come una mortale, qualcuno avrebbe avuto il coraggio di sposarmi, e finii per detestare quella bellezza che mi restituiva lo specchio e che piaceva tanto a tutti.
Mi tormentavo i capelli e piangevo, e quando ero esausta e senza forze mi alzavo e camminavo intorno con sobbalzi di pianto, talmente triste e debole che sentivo la mia testa come una bolla d'aria.
Disperata, credevo di esser tormentata dall’odio di Afrodite per aver osato essere bella come lei. Un giorno mi gettai in ginocchio davanti a mio padre e piagnucolai, supplicandolo di andare a chiedere all’oracolo di Mileto se avrei mai avuto uno sposo. Mio padre mi accontentò, ma quando ritornò aveva una faccia più contrita e disperata della mia.
Il responso del dio era stato:

“Sopra un'alta montagna lascia, o re, la fanciulla ornata per le nozze di abiti funerei. Non aspettarti un genero nato da stirpe mortale, ma un crudele, un feroce, un mostro viperino, che volando con le ali nel cielo dà il tormento a tutti e con ferro e con fuoco distrugge ogni cosa; che lo stesso Zeus teme, di cui gli dei hanno il terrore e anche i fiumi infernali e le tenebre dello Stige”*

La sorpresa fu violenta e improvvisa come una bastonata a tradimento sulla nuca. 
Cosa aveva una forza talmente virulenta? Cos'era talmente aggressivo e invincibile da essere temuto dalle creature che vivevano nelle gole dei luoghi della morte e dagli dei, che pure erano supremi, austeri e potenti?
I miei genitori non avrebbero mai osato non obbedire al responso e da parte mia non feci mai nulla per impedirglielo, approvandolo fin dall'inizio con un po’ di paura.
Al mio matrimonio non suonarono il flauto nuziale, ma la nenia di morte della Lidia, mentre io, sulla rupe indicata, piangevo nei veli matrimoniali.
Tutta la città si era unita al dolore dei miei buoni genitori e celebrava insieme a loro le esequie della figlia viva.
Rimanevo elevata sopra la folla, sulla rupe dove ero stata deposta alla fine della processione, ad assistere alla vista del mio corteo funebre.
Ed ecco il risultato di possedere una rara bellezza, pensavo, e di essere chiamata in coro dai popoli “nuova Afrodite”.
Avevo le guance bagnate e rosse e le spalle scosse dai singhiozzi. Tremavo come se la terra sotto di me fosse terremotata.
Mia madre e mio padre si arrampicarono sulla mia rupe e mi strinsero entrambi in un commosso abbraccio che mi ridiede il coraggio e la forza di un uomo. Così, infine, per un po' fui io a confortare loro, spingendoli verso quel misfatto.
Li amavo troppo per fare qualcosa per impedirglielo.
Sentivo che se le loro braccia non mi avessero tenuta tutta insieme sarei caduta a pezzi, e quando mi abbandonarono rimasi ad osservarli allontanarsi insieme agli altri, con le ginocchia tremanti.
Il pianto nella mia voce era diventato talmente dirotto che non riuscivo neppure a salutarli da lontano ma, quando la processione sparì tra le rocce, all'improvviso sentii l’aria, finora senza forze, vorticare attorno a me, e le nubi abbassarsi sulla mia testa.
L’orlo del mio peplo cominciò a svolazzare sulle mie caviglie ed un mulinello furioso di foglie secche e polverone si scatenò travolgendomi in pieno e trascinando i miei capelli e i veli nuziali.
Mi sentii sollevare dal vento per le braccia e poi da sotto le ascelle e  per le gambe, quasi che l’aria fosse di materia palpabile e avvolgibile attorno al corpo.
Il vortice d’aria catturò delle nubi e mi avvolse attorno una nebbia divina, affinché nessuno potesse vedermi, o sentirmi, o toccarmi mentre scendevo dolcemente verso il pendio e venivo risucchiata sempre più infondo dal candore della foschia.
La meraviglia e lo spavento lottavano per prevalere l’una sull’altro mentre il pendio roccioso e acuminato finiva sulla collina in un prato verde, apparso dietro la nebbia che si diradava. Lo Zefiro mi conduceva leggiadro, tra veli aleggianti e soffi leggeri, su un letto di fiori dove era ammucchiata un po’ di paglia.
Cullandomi dolcemente, quasi in un grembo materno, l’aria calda mi depose per terra. Smettendo di vorticare sotto di me, la corrente si spostò e prese a girare su se stessa, trascinando polvere, foschia e foglie secche. Con queste cose simulò l’immagine di un uomo divino (a vederlo un meraviglioso prodigio) che camminava senza suono di passi sull’erba, coinvolgendo altri rametti dentro il suo corpo di nuvole e polvere.
Col palmo rivolto al cielo, vicino alla bocca, mi soffiò addosso un profumo penetrante di vino.
Sentendomi sopraffare dalla stanchezza che veniva dallo sfogo delle lacrime e dall’aria intossicante, che saliva fino alla mente pungendomi nel naso e provocandomi la sensazione di una sbornia spaventosa, cedetti e dormii pacificamente nel fieno, finché l’incantesimo di Zefiro non si diradò nell’aria attorno…


Il risveglio fu un lento spalancarsi d'azzurro davanti ai miei occhi.
Mi ero svegliata al suono del corso ridente di una sorgente d’acqua dalla purissima trasparenza e dai bei scintilli, con un mal di testa pulsante dietro agli occhi.
Visto che dal tramonto del giorno prima il sole ora splendeva a metà del compimento del suo percorso, nel pieno del cielo d'un azzurro così profondo da rasentare le tinte viola, capii di aver dormito tutta la notte prima e buona parte del giorno.
Mi rigirai ed affondai nel mio giaciglio di fieno. Con le braccia intorpidite feci forza sui gomiti per alzarmi un po’, attorno a me c’era l’atmosfera eterea ed idilliaca dei capi Elisi.
Avevo dormito in un piccolo spiazzo del bosco, a cielo aperto.
Mi alzai pulendomi il fieno dal peplo e osservando il bozzetto idilliaco.
Tutto il giardino era pervaso di lucore: attorno a me, dopo la bellissima fonte dalle onde tranquille che la facevano luccicare al sole, c’erano un boschetto di alberi alti e grandi abbastanza da ricoprire l’orizzonte.
A sua volta circondato dal boschetto, come la radura, c’era un palazzo che sovrastava tutto, e sembrava alzarsi fino a voler raggiungere il cielo, nella sua parte più alta e inaccessibile, dove non c’era l’aria.
Attraversai la bella corrente domandandomi in che mare finisse e se seguisse la strada di casa.
All’entrata si capiva con certezza di trovarsi in una dimora degli immortali.
I soffitti erano alti, intagliati in legno di cedro, oppure fatti in marmo, e le colonne erano grandi quanto grossi tronchi d’albero.
I muri e i pavimenti erano d’oro cesellato pieno di figure in rilievo che sembravano voler uscire dalle pareti dov’erano scolpiti.
Neppure tutto l’oro e l’argento di ogni tempio sarebbero bastati a raggiungere la ricchezza del bel castello.
Ogni opera aveva una gran finezza artistica che poteva venire solo dalle mani degli dei e tutto era talmente bello e dorato che il palazzo era di per se stesso luminoso anche senza il sole.
Dove le superfici non riflettevano la luce in sfolgorii infuocati o argentati ogni cosa era del bianco soffuso del marmo.
Il prezioso palazzo si estendeva in mille stanze in lungo e in largo e la curiosità aveva la meglio sul senso di smarrimento.
Ma non ero indifferente al fatto che qualcuno mi avesse rapita e che non potessi tornare da dove il Zefiro mi aveva portata via.
Chissà se i miei genitori mi sarebbero tornati a cercare o se invecchiavano nel lutto con rassegnazione.
Mai un mortale aveva avuto tanta abbondanza e aveva passeggiato sull’oro e su gemme come quelle. Ma il miracolo di quel luogo era che niente era sotto custodia, nonostante l’avidità di tanti uomini potesse essere attirata a rubarli, tutto era senza catene e senza lucchetti.
Sentii un moto d’aria come per lo spostamento di un fantasma e poi delle voci incorporee.
“Perché ti stupisci che non sia protetto nulla quando la padrona è a casa?”
Non ebbi il coraggio di rispondere alle voci che mi giravano intorno né di contraddirle o di respirare.
“Tutto quello che ti circonda è tuo, anche noi che siamo ancelle.
Il tuo sposo ci ha ordinato di accontentarti in tutto, e ha rimesso a noi le tue sorti.
Se desideri riposarti, avrai un bel letto, quando lo vorrai potrai chiedere l’acqua per il bagno, con dei vestiti puliti. E se hai fame non ci vorrà più di un istante per trovare la tavola pronta…”
Dopo un lungo silenzio in cui attesero che reagissi decisi di mettere alla prova tutto ciò che mi dicevano.
Chiesi di poter mangiare e si allontanarono dicendomi di seguire i loro canti, mi orientai cercando di capire dove fossero fuggite dalla provenienza della loro voce, e così mi condussero in una stanza più alta che ampia dov’era imbandita una cena da regina su una tavola semicircolare.
Chiesi un'orchestra e un suono senza sorgente si propagò insieme ad un armonia di voci, e benché non si vedesse nessuno era chiaro che c’era un coro in quella stanza.
Domandai se potessero scaldarmi e il fuoco si accese da solo sulle fiaccole fisse al muro, annerite dall’ultima volta che si era spento.
Con grande meraviglia, e confortata da presenze tanto servizievoli, mi feci accompagnare alla stanza destinata.
Il castello era talmente solitario ed ampio che sentivo l’eco dei miei passi e di quelle voci degli spiriti che mi obbedivano.
Mi mostrarono la mia bella stanza, buia e grande, che dava su un ampia finestra e non aveva lumi.
Nel semibuio del tramonto pregai le ancelle aeree di trattenersi, parlarmi, confortarmi un po’ grazie alle loro voci, di raccontarmi delle storie o di chi fosse quel castello.
Ma presto capii che le loro erano parole prive di pensieri, date alla casa e all’aria, che potevano solo ricevere ordini e ripetere le frasi che avevano imparato grazie agli incantesimi di un dio.
La casa divina, dunque, era capace di parlare poche parole con tante voci di ancelle, ascoltare, obbedire, ma per un vano incantesimo, non per vere presenze e vere anime.
Diedi tutti gli ordini che mi vennero in mente per costringere le voci della casa a non abbandonarmi.
Le chiesi di cantare, di rassettare, di mostrarmi dove tenere i vestiti, di aprire la finestra, di accendere un lume, ma qui mi dissero che non potevano obbedire.
Battei i piedi, agitai i pugni, pregai, mi infuriai, ma mi risposero con le stesse parole di non poter obbedire, sicché non ci fu più ordine che mi venne in mente per non sentirmi sola e le voci cantarono allontanandosi col vento.
Nel buio tesi le braccia davanti a me alla ricerca del letto e mi sistemai tra le coperte vestita, un po’ impaurita dalla sorte del giorno dopo, di quello dopo ancora e di quello seguente.
Mi prese un' ansia indifesa del futuro. Anche una gabbia preziosa e dorata era sempre una prigione.
Pensai a una solitaria vita d’abbondanza, di false presenze, di ordini che potevo dare al vento ogni volta che volevo un po’ d’aria. Era la vita da dei che poteva condurre una mortale, pensai, e d'improvviso ero molto irritata con quelle voci finte.
Il buio era fitto e senza trame e non riuscivo a vedere la stanza attorno a me.
Tra le mie coperte non mi addormentavo: mi sentivo sveglia grazie a un istinto che mi diceva di diffidare di tutto e di aspettarmi cose brutte nascoste. Queste sensazioni mi tenevano in guardia perché in tutta quella bellezza e quella ricchezza avevo già scoperto le prime venature imperfette e inattese. Qualcosa mi faceva pensare che tutto fosse una falsa apparenza e che un terribile pericolo stesse in agguato.
Nel silenzio disteso sentii un battito d'ali potente, come il suono di un uccello gigantesco che atterra, e da come si era fatto più buio capii che qualcuno si era stagliato davanti alla finestra.
Avevo gli occhi sgranati, con tutti i sensi tesi a cogliere qualunque indizio o rumore minaccioso, mentre, in preda ad una vertigine di terrore, pensavo con ansia al responso dell'oracolo.

"…Non aspettarti un genero nato da stirpe mortale, ma un crudele, un feroce, un mostro viperino, che volando con le ali nel cielo dà il tormento a tutti e con ferro e con fuoco distrugge ogni cosa…"

Girai piano piano la testa, sperando che i miei movimenti rigidi, da preda braccata, non fossero visibili al buio. Ma, come non riuscivo a vedermi le braccia o le mani, non riuscivo a vedere più in là.
Capii che qualcuno scendeva dal davanzale dal calpestio limaccioso di piedi nudi sul pavimento, e udii che gettava da parte con malagrazia qualcosa che sferragliò in un angolo.
Poi si mosse con passo cauto e in silenzio, chiusi gli occhi e mi finsi addormentata, provando a mettere le coperte come ultima difesa tra me e lui.
Era qualcuno che si stava avvicinando al talamo, e si era fermato davanti a me. Sperai di convincerlo e di sembrare abbastanza innocente e immobile. Mi sentivo paralizzata e trattenevo il fiato dall’ansia.  
Sentivo i suoi occhi mettermi in esame percorrendo tutte le coperte.
Era da un po' di tempo che ero allerta, nel completo silenzio, quando sentii un sbuffo di stanchezza e un battito d'ali spazientito.
La paura mi tradì completamente perché sobbalzai un po’. Il mio ospite se ne accorse e rise.
-I-io...io- alzai il viso dal cuscino, impaurita.
Mi misi in ginocchio sul talamo e nel buio vidi il bianco di un sorriso birbante.
-I-io, sono Psiche- blaterai guardando confusa il sorriso addolcirsi
al suono della mia voce -L-le ancelle mi hanno ordinato di restare al buio in questa stanza...- e la sua voce approvò quel che dicevo con un mormorio. Era completamente fermo, non spostava neanche il peso da una gamba all'altra, e dopo un minuto di silenzio assorto che sembrò durare un giorno intero lo sentii sospirare di soddisfazione, come al raggiungimento di uno scopo che si era prefissato, e poi colsi il fruscio di vestiti sfilati.
Senza una parola, all’improvviso, lo sentii chinarsi davanti a me, talmente vicino alla mia faccia da vedere il bianco dei suoi occhi luccicare, e per istinto balzai dall'altra parte del letto. Ero senza fiato.
Appena si accorse che gli ero scappata gli sfuggì un basso ringhio stizzito e le ali sbatterono due volte imperiose, facendo volare le lenzuola.
Era spazientito perché si stava accostando a me ed io avevo respinto il suo gesto.
Lo sentii reprimere l’irritazione con un respiro profondo e salire sul letto per raggiungermi. Capivo dove si spostava dallo strusciare delle lenzuola e dal modo in cui il letto affondava sotto il suo peso, ma ad un tratto non sentii più i suoi movimenti. Tutto era talmente silenzioso fa farmi pensare di essere sola.
Senza osare respirare solo un po' più forte mi guardavo attorno nel buio impenetrabile, cercando di capire da che direzione sarebbe piombato, quando sentii che due ali piumate e morbide si chiudevano dietro di me avvolgendomi con dolcezza.
Provai a fuggire di nuovo cercando di dividere le ali, ma appena tentai di ribellarmi lo sconosciuto (se era un uomo) mi afferrò le mani e mi ritrovai ancora più velocemente sul suo petto.
Colse il momento per circondarmi con le braccia. Era un vero e proprio assedio.
Spiegò le ali e le sbatté per la vittoria mentre opponevo debolmente resistenza.
I suoi sospiri felici erano modulati come le fusa di un gatto e ,con me costretta vicino a lui, quell'essere sembrò placato e pacifico. 
Non mi ero dimenticata che era mio sposo, ma non avevo neppure scordato che era anche il mio rapitore.
Avrà pensato che rapendomi, riflettei, avrei avuto tanta paura di trovarmi lì, tutta sola - dov'era pieno di incantesimi e di dei dal volto fatto di vento e nebbia come il buon Zefiro - che sarei dovuta ricorrere per forza a lui, il viso che mi sembrava (o che piuttosto potevo immaginare) più umano.
Mi fece sedere in grembo e mi poggiò il mento sulla testa, con le ali gentilmente ripiegate su se stesse per non ingombrare il talamo.
Sussurrava qualcosa a mezze labbra tra i miei capelli.
Ero circondata da lui in ogni direzione
“Accendi un lume” mormorai ora che mi ero arresa e mi abbandonavo alle carezze. L'uomo grugnì come un bambino che non voleva fare quel che gli si diceva e nascose il viso nell’incavo del mio collo. Iniziò a frugarmi sotto la veste, mi ignorava sfacciatamente e cercava di fare solo quello che voleva il suo sangue.
“Chi sei? Se non posso vederti...” trattenni il fiato quando prese a mordicchiarmi un tenero lobo “...almeno fatti riconoscere dalla tua voce, se no, ti prego, accendi un lume per me”
Lo sconosciuto si fermò, si staccava di poco da me e mi osservava. Capì che vedeva anche al buio ogni fremito delle mie ciglia, ma io potevo solo vedere il bianco dei suoi denti.
“Non posso”. Oh che gioia sentire che parlava e con una voce così profonda e così bella!
“Perché no?”
Sospirò e ritirò le mani da sotto la mia veste, mi prese per le spalle insistendo con la presa delle mani.
“Non dovrai, mai, mai vedermi o sapere chi io sia. Accadranno cose spaventose se disobbedirai, ed io non potrò mai più tornare da te...” lo disse esitando e capii che per lui sarebbe stato terribile.
Sentii anche che costui non era solo violentemente incapricciato di me, ma che era veramente uno degli dei colpito dall'incantesimo virulento delle frecce di Eros. 
Perciò non protestai più e, ricambiandolo, mi lasciai stendere sulle lenzuola. Per tutta la notte, mentre sfogava il suo amore su di me, mi avvinghiai forte a lui come se avessi voluto spezzargli il collo.
Il mattino dopo se ne era già andato senza una parola.
Le ancelle aeree avevano imparato parole nuove apposta per il mattino dopo -sicuramente perché era stato il mio visitatore a insegnargliele- e per tutta la mattina non fecero altro che restare vigili e, se mancavo di ordinare loro qualcosa per troppo tempo o se capivano che ero trasognata, non risparmiavano la voce per confortarmi.
“Tornerà ogni notte, così non ti mancherà mai” e il misterioso sposo tornò ancora, ogni notte, come aveva promesso. Io lo aspettavo con gioia raggiante d’amore. Questa consuetudine ripetuta assiduamente rinnovava sempre un gran piacere e felicità. Traevo un gran conforto, se non dalla vista del suo volto, dalla sua voce. 
Perché, sebbene invisibile, lui esisteva davvero e potevo sentirlo, toccarlo e parlare con lui. Non come le vane voci che risuonavano e obbedivano per la casa... 

 

  

Continua...

 

*da "Le metamorfosi" o "L'asino d'oro"  di Apuleio

Siccome da un po’ di tempo mi sta venendo una stramba ossessione per gli dei Greci (anche grazie alla bella storia di flyvy) ho deciso di riprendere uno dei miei miti preferiti, raccontato già da Apuleio, Amore e Psiche, e di riscriverlo secondo me
Penso si protrarrà per tre capitoli con un eventuale postfazione che nella mia testa propende per non essere inserita. 
Non mi faccio scoraggiare, perciò siate crudeli, cinici, spietati, siate proprio stronzi quanto volete, sbudellate e distruggete e triturate e fate flambé l’ego di autrice che c’è in me.

  
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Epico / Vai alla pagina dell'autore: trullitrulli