Anime & Manga > Kuroshitsuji/Black Butler
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Autore: Black_Eyeliner    07/11/2009    5 recensioni
***Vincitrice del concorso "Quell'INFERNO di Contest", indetto da DarkRose86***
***Vincitrice inoltre del Premio Speciale "Miglior Trattazione del Pairing"***
“La menzogna sporca l’anima, la rende impura: lentamente la conduce all’inferno. E’ impossibile per chi ha rinnegato la fede aspirare al Paradiso; è impossibile cancellare dalla pelle un marchio a fuoco. Non si può cancellare l’odio, né il dolore. Ed è impossibile elidere dal corpo il seme del male inoculato da un demone…”
SebastianxCiel
Dedicata a tutte le ragazze che hanno partecipato al contest e a chiunque ami la coppia SebastianxCiel.
Genere: Dark, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Ciel Phantomhive, Sebastian Michaelis
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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***Questa fan fiction ha partecipato al concorso “Quell’INFERNO di Contest”, indetto da DarkRose86, classificandosi prima.***

***Vincitrice Premio Miglior Trattazione del Pairing***

 

 

Qui il giudizio

 

 

http://freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=8732915&p=9

 

 

 

 

 

Grazie mille.

 

 

 

 

 

 

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Devour

[Prendimi l’Anima]

 

 

 

 

Entry:

“Gloria”

 

 

 

 

 

 

 

[Non pronunziare falsa testimonianza contro

Il prossimo tuo]

 

Esodo, 16, 20

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Una frizzante folata di vento novembrino scosse lievemente il fogliame dei castagni ai margini de La Place Saint Sulpice, rubandone l’effluvio silvestre e spargendolo nella fresca aria di stagione.

Dalle bancarelle di dolciumi e zucchero filato, allestite giù alla fiera nel Settimo Arrondissement della Città Eterna, il profumo fragrante del caramello si sollevava in sbuffi di vapore tiepido, mescolandosi a quello dell’incenso al gelsomino che saturava l’atmosfera rarefatta, a tratti onirica, dell’ampio piazzale dinnanzi alla chiesa.

 

-Che città detestabile…

Le labbra imbronciate vibrarono appena in un brontolio stizzito, quasi un sibilo tra i denti stretti.

I suoi piedi martoriati, ormai vessati da quel misero girovagare senza meta, mossero ancora pochi passi in avanti, scanditi dal suono a malapena percettibile dei piccoli tacchi in vernice nera sul selciato di pietra, prima di arrestarsi completamente.

Nonostante il sole allo zenit inondasse di luce aranciata il sagrato ombroso dell’Eglise Saint Sulpice1, in un gioco ammaliante di chiaroscuri e sprazzi cromatici d’ocra e d’amaranto, il giovane conte di Phantomhive non riuscì a reprimere il lungo tremito che scosse le sue membra stremate e infreddolite; si cinse le spalle gracili con le braccia, constatando seccato d’esser giunto nuovamente nel luogo da cui era partito.

Da quando aveva preso congedo dal lussuoso albergo in cui aveva pernottato, Ciel aveva errato in lungo e in largo per le strade e i vicoli parigini, mescolandosi alla folla brulicante di frettolosi passanti, rappresentanti dell’alta borghesia europea, artisti e clochard, senza riuscire a trovare la via per il porto di Calais; e ancora lo perseguitava quello sguardo attonito, un po’ smarrito del portiere dell’hotel, quando gli aveva chiesto se fosse stato a conoscenza delle sorti del suo accompagnatore.

Ogni passo sottratto alla strada ritemprava il sentore dell’abbandono, così poderoso da smorzargli il respiro già corto per la fatica, ed ogni sosta forzata serviva solo a rammentargli di come quello scioglimento era stato già sancito da poche ed essenziali parole, velate da un tono eccentricamente nostalgico, ma pur sempre devote; il piccolo nobile non ne aveva compreso appieno l’essenza, smarrendone completamente il significato e reinterpretandolo comodamente come un ordinario ossequio, consueto del suo fedele  maggiordomo.

 

-Per favore, dimentichi ogni cosa, signorino. Le auguro una buonanotte.

 

Ciel socchiuse le palpebre, serrando i pugni in una morsa dolorosa quando, per l’ennesima volta, la voce di Sebastian riecheggiò serafica nella sua mente stanca, già enormemente provata da tutte le vicissitudini che avevano tramutato in un incubo quel breve soggiorno a Parigi.

Di sicuro, aveva appreso a sue spese, la menzogna non si confaceva all’indole di una creatura quale Sebastian, votata a principi obsoleti dei quali ancora Ciel ignorava il contenuto ultimo, se non quello per il quale il demone aveva affinato il senso del gusto, portandolo a selezionare con meticolosità le anime di cui desiderava cibarsi.

Eppure, se seducenti parole erano in grado di irretire le prede, conducendole alla perdizione, di contro astute omissioni potevano racchiudere un senso ben più profondo: in questo caso, Ciel convenne, la sentenza cerimoniosa di Sebastian altro non era stata che un commiato denso di riverberi.

 

-Quel “Dimentichi tutto” poi Era forse un addio?

Non poteva dirlo con certezza; peraltro il solo pensiero che il demone avesse potuto prendere in considerazione la sua felicità bastò a far sorridere amaramente Ciel.

Sin dal giorno in cui gli Inferi avevano spalancato le fauci infuocate, reclamando voluttuose la sua carne dilaniata e il sangue colato in copiosi rivoli scarlatti sull’altare sacrificale, il bagliore immacolato dell’innocenza aveva abbandonato le iridi dell’unico erede dei Phantomhive; da allora le tenebre si erano avviluppate alla sua anima vergine, come acido filamentoso, corrodendone poco a poco il lindore, subissandola, fagocitandola, lentamente.

Tra urla fragorose, risa sguaiate e grotteschi applausi, nel giorno della fatale passione, gli artigli smaltati del Corvo avevano ghermito il giovane corpo esanime e un battito d’ali sbilenche gli aveva concesso l’oscuro battesimo, stillando morbida pioggia di tremule piume nere e consacrando così la sua resurrezione.

 

Malgrado da quel dì brancolasse nel buio, Ciel Phantomhive era sopravvissuto.

Per il giovane conte i raggi tiepidi del sole di mezzodì, l’azzurro terso del cielo, il brusio continuo della folla che lo attorniava ora altro non erano che mero dettaglio; faticava a riconoscere i tratti sfocati di una realtà deforme, alla quale si sentiva sempre più estraneo e non c’era luce celestiale tanto potente da rischiarare il diadema arrugginito che gli cingeva il capo, né il sentiero di morte e dolore ai piedi del suo trono oltraggiato.

L’infamia e il disonore che avevano inficiato la purezza delle sue membra, straziandone la carne, plasmando l’anima come creta sul tornio di un odio vorticante e poderoso, trascendente ed immanente al tempo stesso, si erano impressi in cicatrici scarlatte sulla sua pelle, marchiandola nei secoli dei secoli; o, perlomeno, fino all’istante solenne che avrebbe colto le reliquie del contratto redatto dal sangue: il corpo sfinito e privo dell’ άνεμος2, del soffio vitale in esso serbato.

 

-Non importa…

Il sussurro che sfuggì alle labbra di Ciel acquistò ben presto un tono deciso, imperturbabile.

-… Posso tornare a Londra… Anche da solo!

Le dita inguantate percorsero la dura consistenza del diamante che rifulgeva d’azzurro e della gloria arcana dei Phantomhive al suo pollice, in una carezza quasi commossa, subito tradita dal guizzo d’orgoglio nell’iride sinistra del ragazzo.

 

E, proprio mentre Ciel era immerso nei suoi pensieri, una raffica di vento, più fredda e dispettosa delle precedenti, sciolse il nodo laborioso della fascia intorno al suo cappello a cilindro; il nastrino d’organza danzò davanti al suo sguardo attonito, come una libellula turchese prima di essere sospinta dal vento, disegnando astratte spirali nel cielo con ogni fragile acrobazia d’ali sbattute.

La sua mano protesa ne sfiorò appena un lembo ma, non riuscendo ad agguantarlo, Ciel cominciò ad inseguire quella stravagante farfalla di stoffa.

 

 

 

Ciò che si è perso una volta non tornerà più indietro…

 

 

 

Ciel scosse velocemente il capo per scacciare quel pensiero e, quando ormai spossato dalla folle rincorsa si fermò, cercando di riprendere fiato, realizzò che quel nastro d’organza l’aveva condotto  laddove ogni concretezza cessava d’esser tale, tramutandosi in paradosso.

 

-Il tuo futuro, Ciel-kun… Puoi riaverlo…

 

La voce serena di Aberlain parve risuonare sulla soglia della cattedrale: divenne etereo canto, puro spirito, incorporeo; impalpabile.

 

Ciel sgranò l’occhio scoperto mentre il cuore scalpitava nel suo petto, sedotto da quell’improvvisa epifania: percepì le catene del suo legame diabolico stridere rovinosamente, lasciandolo sgomento; l’anima, scissa dal proprio vincolo, dapprima collassò per poi sublimare.

Come fosse un’entità separata dalla propria carne, Ciel la vide precipitare, divenire tetro scarabocchio e di nuovo fulgida cometa, nove giorni in caduta libera verso l’Inferno, solo per spiccare ancora il volo verso gli aurei cancelli del Paradiso.

 

Dunque era davvero l’anima soltanto un’ombra nella dimora del peccato?

Il corpo era davvero nell’anima o era l’anima stessa a congiungersi al corpo?

 

In bilico, come un funambolo in equilibrio sul labile confine tra il sacro e il profano, Ciel rimase immobile in preda all’armonia estatica del suo stesso vacillare, incapace anche solo di fugare i propri dubbi; percepì l’iride destra infiammarsi, bruciare tra lingue di fuoco roventi sotto la benda che preservava il vincolo indissolubile tra la vendetta e la morte, la balaustra invalicabile tra la propria anima corrotta e l’Eden per sempre perduto: il vincolo indissolubile tra Sebastian e il proprio spirito.

 

 

 

 

“… Quand'anche camminassi nella valle dell'ombra della morte,

io non temerei alcun male,

perché Tu sei con me.”3

 

 

 

 

 

Quasi le parole del Salmo, impresse sul pavimento in tasselli asimmetrici d’avorio e d’oro, fossero un filo invisibile a condurlo oltre l’uscio, Ciel mosse un passo tentennante in avanti, ritrovandosi solo nell’immensa chiesa vuota.

Nessuna liturgia celebrata in latino turbava la quiete di quel luogo, né voci bianche intonavano canti gregoriani e né dita carismatiche battevano i tasti d’ebano dell’organo4 che si ergeva imponente nella parte alta del coro: neanche il fruscio di piccoli guanti in velluto nero, caduti al suolo come falene morenti, sventrarono il silenzio ieratico della cattedrale.

Ciel deglutì a fatica, fermandosi accanto all’acquasantiera di marmo; ne lambì l’orlo con i polpastrelli intirizziti dal freddo, prima di sfiorare delicatamente la superficie dell’acqua consacrata sul fondo; la sua pelle candida, contaminata da invisibili e peccaminose macchie, rabbrividì al contatto, come se quel rinnovato battesimo della carne avesse reciso completamente l’esclusività del legame che lo aveva condannato alla dannazione eterna.

Si sfiorò con un dito ancora umido le labbra inaridite e il sapore di mani sporche dell’acqua santa lo travolse.

L’incenso al gelsomino soffiava sui ceri accesi, piccoli fuochi traballanti in file ordinate ad illuminare le navate laterali in penombra; le ampie vetrate rifrangevano i raggi del sole nei sette colori dell’indaco, illuminando la battaglia sempiterna tra l’Uomo e l’Angelo5, affrescata ad olio e cera.

La donna che spolverava i banchi di frassino non si voltò neanche ad osservare il gravoso incedere di quel giovane nobile lungo la navata centrale: lo smalto trasparente sulle sue unghie sfavillò nella luce mielata del sole, mentre era ora intenta a sistemare i gambi delle orchidee nei vasi di cristallo tempestato d’oro zecchino, come se Ciel non fosse affatto esistito, null’altro che pallido spettro, informe, invisibile.

 

Nessuna esitazione turbò la placida avanzata del conte lungo il sentiero della redenzione; il suono dei piccoli tacchi squadrati scandiva il susseguirsi caotico dei frammenti della sua coscienza, fotogrammi profumati di naftalina di una pellicola cinematografica a ritroso, senza alcuna logica consequenzialità.

Il fulgore proveniente dalle vetrate di cobalto e rame rischiarò l’abside, neutralizzando una ad una le immagini in scorrimento lento impresse nella memoria di Ciel: la voce di Sebastian, le sue labbra, ogni sua ambigua sentenza e il patto impresso in un pentacolo sul dorso della mano sinistra svanirono quando le ginocchia nude del ragazzo collisero con il legno dell’inginocchiatoio con un tonfo sordo.

Lo sportellino del confessionale si dischiuse piano, rivelando attraverso la grata d’ottone imbrunito il profilo aquilino del sacerdote, completamente celato dall’ombra; i minuscoli fori della grata falsarono la voce di Ciel, frammentando le onde concentriche del suono e mutandole in un gemito contorto, spezzato.

 

-Padre, perdonami perché ho peccato…

 

 

 

 

 

 

L’ ipocrisia di mani giunte in penitenza non estingue il peccato.

Cori angelici non sovrastano lo schioccare della frusta e le urla blasfeme.

Diabolica è la tentazione, trascina l’anima tra i flutti oscuri della perdizione ed infine la divora.

L’onda si attarda nella risacca incessante ed è prepotente: sommerge, travolge, bagna ma non sciacqua il dolore; trascina e fuorvia il piccolo corpo inerme che, testardo, continua a barcamenarsi nella tempesta, cercando di restare a galla, per non annegare.

Per non soffocare.

Per non morire.

Reclama vendetta verso chi lo ha condotto all’Inferno.

E non vuole precipitare ancora tra le fiamme della Geenna.

 

Ma non c’è salvezza per chi ha rinnegato la fede.

Non c’è redenzione.

 

Nessuna assoluzione.

 

 

 

 

 

 

 

La sagoma oltre la grata oscillò appena, reclinando il capo in segno d’assenso per invitare Ciel a proseguire; nessuna parola fu pronunziata da labbra invisibili e nessun segno di croce sfiorò la fronte del giovane genuflesso.

Solo l’ammissione di colpa, sussurrata tra pugni chiusi, fece da preludio all’invereconda confessione.

 

-Io…

 

E, d’un tratto, ci fu solo silenzio, un effimero istante, il tempo infinitesimale di un pensiero.

 

 

-Io… Ho mentito.

 

 

 

 

 

 

 

 

Ho mentito perché io sono un essere umano.

Tu invece avevi detto che non l’avresti fatto.

 

Mai.

 

“Rimarrò al suo fianco, fino alla fine, signorino.”

 

Tu non menti…

 

Non lo fai mai.

 

Non è forse così…

 

 

 

 

… Sebastian?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note al testo

 

1L’ Eglise Saint Sulpice è la Chiesa di San Sulpizio che si trova a Parigi nel VI arrondissement, confinante con il VII arrondissement dove Sebastian e Ciel si recano appena giunti a Parigi per assistere alle numerose mostre e fiere dell’Expo del 1889.

 

2 Si legge ànemos e in greco antico significa letteralmente “alito”, “vento” da cui deriva l’italiano anima, la cui etimologia è appunto soffio, inteso come alito di vita.

 

3E’ uno dei passi più belli del Salmo di Davide, precisamente il XXIII dei 150 del Libro dei Salmi a lui attribuito.

 

4Si tratta dell’organo realmente esistente ad opera di Aristide Cavaillè-Coll, il più grande di tutta la Francia.

 

5Riferimento al celebre dipinto di Eugène Delacroix, “La lotta tra Giacobbe e l’Angelo”, olio e cera su intonaco, 1860.

 

 

 

 

Nda: E il prologo è andato. Dire che non mi aspettavo che questa storia, scritta appena in cinque giorni, potesse raggiungere un risultato del genere è dir poco, probabilmente troppo poco.

Chiedo a chi si accingerà a leggerla di armarsi di un poco di pazienza, dato che è abbastanza lunga: e a questo proposito desidererei conoscere le vostre opinioni in merito che, sicuramente, mi aiuteranno a crescere e a rendermi conto delle imprecisioni e, al contempo, a racimolare nuove idee.

Cosa volete farci, ormai sono in brodo di giuggiole da Sebastian e Ciel!!

Questo pairing è stupendo e ciò che mi ha più ispirata è “Yes, Your Highness”: perfetta per loro, ne? ^^

 

http://www.youtube.com/watch?v=KSgxr5Omc9Y

 

Spero di aggiornare presto, nel mentre GRAZIE di cuore ancora alla giudice DarkRose86 per la velocità con cui ci ha fatto avere i risultati malgrado i suoi impegni, e GRAZIE in anticipo a chi si avventurerà nella lettura di questa storia.

 

Baci.

 

Stè.

   
 
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