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Autore: Saerith    24/11/2009    8 recensioni
Nuovamente infortunato, Genzo ritorna con la mente ad un episodio della sua infanzia. Troverà ancora conforto nella presenza di Mikami e capirà che "non è un record a determinare il valore di un giocatore".
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Genzo Wakabayashi/Benji
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mani

Ancora qui, fermo, ascolto con lo sguardo fisso al pavimento. Non ho il coraggio di guardare altro, non voglio distogliere i miei occhi da quello spazio neutro. Nella mia testa c’è solo il dolore adesso.

Un cinguettio mi distrae, oltre la tenda scorgo il profilo di Nishimoto sorridente nonostante le lacrime, mentre Ishizaki con il viso gonfio per la pallonata di Santana si sta dichiarando. Sulle prime sorrido, ma poi infastidito ricordo loro che non sono soli  e il mio sguardo si sposta verso l’infermiera di fronte a me e irrimediabilmente i miei occhi cadono sulla fasciatura che mi sta facendo. Di nuovo, le mie mani sono a pezzi e non solo loro. Anche l’orgoglio del Super Great Goal Keeper si è infranto.

Ho vissuto i primi anni della mia vita credendo di essere il migliore in assoluto. Era facile per me, unico figlio viziato di Wakabayashisama, convincermi che tutto il mondo fosse ai miei piedi.

Ricordo ancora quando sbattei contro il muro della realtà.

 

Ero stufo di starmene tutto il giorno in casa con la sola compagnia dei giocattoli, delle colf e della tata che mi stavano appiccicate come cozze pronte ad esaudire ogni mia richiesta. Con una scusa mi allontanai in giardino e trovai l’unica via di fuga: un piccolo buco nella rete posta tra le inferriate del cancello perimetrale. Una volta fuori mi voltai a guardare meravigliato il foro da cui ero uscito: ancora non riuscivo a credere di essere fuori da quella gabbia dorata. Passato lo stupore iniziale, cominciai a correre più che potevo, timoroso di venir scoperto e riportato all’ovile dai domestici.

Le strade mi sembravano tutte uguali, talmente ero abituato a vederle scorrere velocemente dal finestrino della limousine, legato come un salame sul seggiolino. Che avventura, tutto sapeva di nuovo e mi mise talmente buon umore che iniziai a saltellare dalla gioia.

Un pallone rotolò ai miei piedi improvvisamente e, voltandomi, notai l’entrata di un parco.

“Ehi, tu! Ci rimandi la palla?” esclamò un bambino molto più grande di me. Tenendo sempre la palla in mano mi avvicinai, ma non potei nemmeno aprir bocca che il più robusto degli altri tre che mi stavano guardando me la strappò di mano, facendomi quasi cadere.

“Ehi!” protestai.

“Ma ci vuole tanto?!” esclamò scocciato.

“Che fai in giro da solo moccioso?” domandò il tizio brufoloso, accanto al grassone con la palla in mano.

“Io…” tentai di rispondere.

“Avete visto com’è vestito? Sembra ritardato.” proseguì il bambino che mi aveva chiesto la palla e scoppiarono tutti a ridere.

 

 

Sorridendo, ripenso che in effetti, quel papillon che la tata continuava a mettermi come fossi un pacco regalo, mi faceva sembrare veramente idiota.

 

 

Per la prima volta provai l’onta dell’offesa e come un cane bastonato mi accucciai a terra senza dire parola, mentre i quattro bambini tornavano a passarsi la palla con i piedi. Conoscevo quello sport, si chiamava calcio, anche se da noi non era molto diffuso.

“Ehi, moccioso. Vuoi giocare?” chiese ridendo il grassone, poiché aveva notato il mio sguardo curioso. Il mio volto si illuminò e senza aggiungere altro mi piazzai tra loro, cercando di imitare i loro movimenti, che però mi riuscivano goffi e grotteschi. I quattro continuavano a ridere e a prendermi in giro, finché il grassone, stanco dei miei passaggi sbilenchi, non si inventò un nuovo sadico gioco. Calciò con forza il pallone e mi colpì di proposito. La botta che sentii fu tremenda, dopo di lui fu la volta del tizio brufoloso e così iniziarono a turno a bersagliarmi col pallone. Ricordo che caddi a terra e cercai di ripararmi la testa con le braccia, mentre loro divertiti ridevano come ossessi. Avevo paura, tanta paura, non avrei dovuto lasciare la mia gabbia dorata, quelle pallonate facevano tanto male. Il grassone caricò il tiro per tirarmi l’ennesima bordata. Strinsi i denti per non pensare al male che stavo per sentire, ma inaspettatamente udii un rumore di passi veloci e un tonfo accanto a me. Quando alzai la testa arruffata vidi un uomo sdraiato a fianco a me che stringeva il pallone al petto e, oltre, le facce sbigottite dei quattro bulletti.

“Oh, cavolo!” sbottò il brufoloso.

“Non è possibile!” esclamò il grassone.

L’uomo si alzò in piedi tenendo il pallone come un trofeo.

“Tu sei Tatsuo Mikami!” gridarono in coro. 

L’uomo non rispose, si girò solo a guardare il mio volto sporco e ferito.

“Dovreste sentirvi fieri di voi stessi: in quattro contro un bambino tanto piccolo.” sentenziò sarcastico e buttò distrattamente il pallone ai loro piedi, mentre si inginocchiava per sincerarsi delle mie condizioni.

Sul suo volto vidi un sorriso dolcissimo, di quelli che ogni tanto mi riservava la mamma, ma che mai in vita mia avrei visto rivolgermi da mio padre. Mi posò bonariamente una mano sulla testa e disse: “Non hai nemmeno pianto, sei coraggioso, bambino.” e aggiunse “Vieni ti porto a casa”, poi mi sollevò all’altezza delle sue spalle per mettermi in groppa. Prima di abbandonare il parco, mi voltai a guardare i quattro ragazzi, ancora increduli e gli feci la linguaccia.

 

 

La porta dell’infermeria si aprì, distogliendomi da quel ricordo e comparì proprio Tatsuo che con il suo solito fare paterno mi posò la giacca della tuta sulle spalle nude e prese di mano il bicchiere con l’antidolorifico al dottore per porgermelo.

“Stai bene, ragazzo?” quella domanda mi riportò di nuovo al ricordo appena rivissuto. Sentii una gran voglia di piangere, ma non cercai di frenare le lacrime. Sentii che stavolta avevo bisogno di lasciarle andare.

Tatsuo non disse niente, si sedette di fronte a me e posò le sue grandi e calde mani sulle mie spalle, lasciando che mi sfogassi. Avevo nuovamente paura: Natureza aveva appena distrutto il mio record di imbattibilità facendomi goal da fuori area. Quel record, che mi portavo dietro fin dall’infanzia, era l’unica cosa che mi ero conquistato con le mie mani, una cosa che i soldi di mio padre non avrebbero mai potuto comprare e che nessun bulletto di periferia mi avrebbe potuto togliere.

“La misura di un giocatore non è data da uno stupido record, Genzo, ma dalla sua generosità nei confronti dei compagni di squadra.” Prese delicatamente i polsi e portò le mani all’altezza dei miei occhi umidi di pianto. “Le mani sono tutto per un portiere.”

Annuii e cercando di sistemarmi al meglio, chiamai Ishizaki.

Ma dove vai, Genzo?” mi chiese con la voce falsata dal tampone che teneva nelle narici.

“La partita non è ancora finita.” sentenziai e mi diressi all’uscita dell’infermeria.

 

  
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