Ancora qui, fermo,
ascolto con lo sguardo fisso al pavimento. Non ho il coraggio di guardare
altro, non voglio distogliere i miei occhi da quello spazio neutro. Nella mia
testa c’è solo il dolore adesso.
Un cinguettio mi distrae, oltre la tenda
scorgo il profilo di Nishimoto sorridente nonostante
le lacrime, mentre Ishizaki con il viso gonfio per la
pallonata di Santana si sta dichiarando. Sulle prime sorrido, ma poi
infastidito ricordo loro che non sono soli e il mio sguardo si sposta verso l’infermiera
di fronte a me e irrimediabilmente i miei occhi cadono sulla fasciatura che mi
sta facendo. Di nuovo, le mie mani sono a pezzi e non solo loro.
Anche l’orgoglio del Super Great Goal Keeper si è
infranto.
Ho vissuto i primi anni della mia vita
credendo di essere il migliore in assoluto. Era facile per me, unico figlio
viziato di Wakabayashisama, convincermi che tutto il
mondo fosse ai miei piedi.
Ricordo ancora quando sbattei contro il muro
della realtà.
Ero
stufo di starmene tutto il giorno in casa con la sola compagnia dei giocattoli,
delle colf e della tata che mi stavano appiccicate
come cozze pronte ad esaudire ogni mia richiesta. Con una scusa mi allontanai
in giardino e trovai l’unica via di fuga: un piccolo buco nella rete posta tra
le inferriate del cancello perimetrale. Una volta fuori mi voltai a guardare
meravigliato il foro da cui ero uscito: ancora non riuscivo a credere di essere
fuori da quella gabbia dorata. Passato lo stupore iniziale, cominciai a correre
più che potevo, timoroso di venir scoperto e riportato all’ovile dai domestici.
Le
strade mi sembravano tutte uguali, talmente ero abituato a vederle scorrere
velocemente dal finestrino della limousine, legato come un salame sul
seggiolino. Che avventura, tutto sapeva di nuovo e mi mise talmente buon umore
che iniziai a saltellare dalla gioia.
Un
pallone rotolò ai miei piedi improvvisamente e, voltandomi, notai l’entrata di
un parco.
“Ehi, tu! Ci rimandi la palla?”
esclamò un bambino molto più grande di me. Tenendo sempre la palla in
mano mi avvicinai, ma non potei nemmeno aprir bocca che il più robusto degli
altri tre che mi stavano guardando me la strappò di mano, facendomi quasi
cadere.
“Ehi!”
protestai.
“Ma
ci vuole tanto?!” esclamò scocciato.
“Che
fai in giro da solo moccioso?” domandò il tizio brufoloso, accanto al grassone
con la palla in mano.
“Io…”
tentai di rispondere.
“Avete visto com’è vestito? Sembra
ritardato.” proseguì il bambino che mi aveva chiesto la palla e scoppiarono
tutti a ridere.
Sorridendo, ripenso che in effetti, quel
papillon che la tata continuava a mettermi come fossi un pacco regalo, mi
faceva sembrare veramente idiota.
Per
la prima volta provai l’onta dell’offesa e come un cane bastonato mi accucciai
a terra senza dire parola, mentre i quattro bambini tornavano a passarsi la
palla con i piedi. Conoscevo quello sport, si chiamava calcio, anche se da noi
non era molto diffuso.
“Ehi, moccioso. Vuoi
giocare?” chiese ridendo il grassone, poiché aveva notato il mio sguardo
curioso. Il mio volto si illuminò e senza
aggiungere altro mi piazzai tra loro, cercando di imitare i loro movimenti, che
però mi riuscivano goffi e grotteschi. I quattro continuavano a ridere e a
prendermi in giro, finché il grassone, stanco dei miei passaggi sbilenchi, non si inventò un nuovo sadico gioco. Calciò con forza il
pallone e mi colpì di proposito. La botta che sentii fu tremenda, dopo di lui
fu la volta del tizio brufoloso e così iniziarono a turno a bersagliarmi col
pallone. Ricordo che caddi a terra e cercai di ripararmi la testa con le
braccia, mentre loro divertiti ridevano come ossessi. Avevo paura, tanta paura, non avrei dovuto lasciare la mia gabbia dorata,
quelle pallonate facevano tanto male. Il grassone caricò il tiro per tirarmi
l’ennesima bordata. Strinsi i denti per non pensare al male che stavo per
sentire, ma inaspettatamente udii un rumore di passi veloci e un tonfo accanto
a me. Quando alzai la testa arruffata vidi un uomo
sdraiato a fianco a me che stringeva il pallone al petto e, oltre, le facce
sbigottite dei quattro bulletti.
“Oh,
cavolo!” sbottò il brufoloso.
“Non
è possibile!” esclamò il grassone.
L’uomo
si alzò in piedi tenendo il pallone come un trofeo.
“Tu
sei Tatsuo Mikami!”
gridarono in coro.
L’uomo
non rispose, si girò solo a guardare il mio volto sporco e ferito.
“Dovreste
sentirvi fieri di voi stessi: in quattro contro un bambino tanto piccolo.”
sentenziò sarcastico e buttò distrattamente il pallone ai loro piedi, mentre si inginocchiava per sincerarsi delle mie condizioni.
Sul
suo volto vidi un sorriso dolcissimo, di quelli che ogni tanto mi riservava la
mamma, ma che mai in vita mia avrei visto rivolgermi da mio padre. Mi posò
bonariamente una mano sulla testa e disse: “Non hai nemmeno pianto, sei
coraggioso, bambino.” e aggiunse “Vieni ti porto a
casa”, poi mi sollevò all’altezza delle sue spalle per mettermi in groppa.
Prima di abbandonare il parco, mi voltai a guardare i quattro ragazzi, ancora
increduli e gli feci la linguaccia.
La porta dell’infermeria si aprì,
distogliendomi da quel ricordo e comparì proprio Tatsuo
che con il suo solito fare paterno mi posò la giacca
della tuta sulle spalle nude e prese di mano il bicchiere con l’antidolorifico
al dottore per porgermelo.
“Stai bene, ragazzo?” quella domanda mi
riportò di nuovo al ricordo appena rivissuto. Sentii una gran voglia di
piangere, ma non cercai di frenare le lacrime. Sentii che stavolta avevo
bisogno di lasciarle andare.
Tatsuo non disse niente, si sedette di fronte a me
e posò le sue grandi e calde mani sulle mie spalle, lasciando che mi sfogassi.
Avevo nuovamente paura: Natureza aveva appena
distrutto il mio record di imbattibilità facendomi
goal da fuori area. Quel record, che mi portavo dietro fin dall’infanzia, era
l’unica cosa che mi ero conquistato con le mie mani, una cosa che i soldi di
mio padre non avrebbero mai potuto comprare e che nessun bulletto di periferia
mi avrebbe potuto togliere.
“La misura di un giocatore non è data da uno
stupido record, Genzo, ma dalla sua generosità nei
confronti dei compagni di squadra.” Prese delicatamente i polsi e portò le mani
all’altezza dei miei occhi umidi di pianto. “Le mani sono tutto
per un portiere.”
Annuii e cercando di sistemarmi al meglio,
chiamai Ishizaki.
“Ma dove vai, Genzo?” mi chiese con la voce falsata dal tampone che
teneva nelle narici.
“La partita non è ancora finita.” sentenziai
e mi diressi all’uscita dell’infermeria.