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Autore: Lady Vibeke    25/11/2009    30 recensioni
Lei, June, una ragazza solare e spigliata, che si guadagna da vivere lavorando come cameriera al Paddy's.
Lui, Ike, solitario e misterioso, freddo e scostante, che un giorno, per caso o per destino, si presenta al Paddy's con un buono da 100 caffè.
Due vite diverse che, volenti o nolenti, finiscono irrimediabilmente per incontrarsi, scontarsi e, chissà, forse anche intrecciarsi.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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June adorava il proprio lavoro. Amava l’atmosfera calda e rilassante che si risvegliava ogni giorno all’apertura della caffetteria, con l’entrata del primo cliente. Alle sette in punto lei e Morena, la padrona del Ye Olde Paddy’s Inn, prendevano il primo caffè della giornata e dedicavano quella mezzora che precedeva l’inizio ufficiale della giornata a una sana chiacchierata tra donne, immerse nel silenzio di una Dublino ancora sonnacchiosa.

Il Paddy’s, come lo chiamavano gli affezionati, era un piccolo caffè allocato nella fortunata posizione d’incrocio tra Grafton Street, principale via commerciale del centro, e Wicklow Street, in fondo alla quale si trovava la sede primaria dell’ufficio turistico cittadino, ed era molto popolare sia fra i dublinesi che fra i turisti, che andavano e venivano a ogni ora del giorno, attirati dalle segnalazioni sulle guide, dai consigli dei passanti, o semplicemente dall’aspetto invitante del posto, un pub vecchio stile restaurato e riportato allo splendore con tanta fatica e tanto impegno. June andava fiera di quel caffè come se fosse stato una sua creatura. Per lei niente sapeva di casa come quel luogo.

“Oggi sarà una giornata tranquilla.” preannunciò Morena una mattina, guardando fuori dalle grandi vetrate della parete che dava sulla strada. Fuori, una fitta ma insistente pioggerellina martellava fastidiosamente i passanti e le auto, creando un impercettibile scroscio di sottofondo per i rari clienti che al momento popolavano il caffè.

June si legò i lunghi capelli in una treccia distratta e sbuffò.

“E io che speravo di rivedere quella comitiva di italiani che è entrata ieri.”

Morena rise. Era una donna sulla cinquantina, con un bel viso tondo e aperto, spruzzato da fitte lentiggini. I suoi occhi erano esattamente come lei: luminosi e gentili.

June aveva un aspetto molto meno irlandese di lei, a parte i capelli rossi e la carnagione chiara, ma con un padre austriaco non avrebbe potuto pretendere granché. Era carina, non si poteva lamentare, però le sarebbe piaciuto assomigliare di più a sua madre, sembrare più celtica.

“Io vado di là a salutare Caitlin e Brendan. Ci pensi tu a quel ragazzo che è appena entrato?”

June annuì prima ancora di aver registrato la richiesta. Ci mise qualche istante a individuare il ragazzo a cui le aveva accennato Morena: si era seduto al tavolo più isolato della sala, la custodia nera e graffiata di una chitarra accanto, e se ne stava lì, con le spalle ricurve, a fissare il vuoto. Aveva un cagnolino con sé, un meticcio nero dal pelo lungo che lo fissava adorante. Aveva le punte delle zampe anteriori completamente bianche, come se avesse attraversato una pozzanghera di vernice, e se ne stava lì, seduto ai suoi piedi, la lingua penzoloni fuori dalla bocca, con un’espressione che sembrava in tutto e per tutto un sorriso.

Il ragazzo, invece, aveva l’aria di uno che non aveva mai sorriso in vita sua. June gli si presentò davanti psicologicamente preparata a rapportarsi con un ‘soggetto difficile’.

“Ciao. Vuoi ordinare?”

Lui sollevò stancamente lo sguardo su di lei. Aveva gli occhi di un grigio metallico, contornati da pesanti ombre scure, e un colorito incredibilmente pallido. Lo avrebbe trovato attraente, se non fosse stato così magro, ma aveva un certo fascino distratto, quasi tormentato, dato dai vestiti sciupati, dai capelli biondi scompigliati e dalla barba che sembrava trascurata da almeno un paio di giorni, ma soprattutto da quel suo sguardo vitreo e malinconico.

“Sì,” le rispose con voce roca. “Mi hanno dato questo, ieri.”

June prese il cartoncino che le porse. Era una specie di coupon sul cui fronte campeggiava il logo del Paddy’s, mentre sul retro c’era una griglia riempita di numeri da uno a cento, una tazza di caffè fumante sullo sfondo. Buono valido per 100 caffè, diceva.

“Che cosa sarebbe?” domandò.

Il ragazzo inarcò le sopracciglia.
“Non sai leggere?”

“Sì che so leggere,” replicò lei acidamente. “Ma è la prima volta che mi presentano una cosa simile.”

“Be’, lì c’è scritto che ho diritto a cento caffè gratis, quindi gradirei ordinare il primo.”

June si impose di mantenere la calma. Quel tizio le dava sui nervi.

“Devo prima chiedere al mio capo che cos’è quest’affare,” gli spiegò con rigida gentilezza. “Torno subito.”

Lui sollevò le spalle con indifferenza. June si allontanò e si recò nel retrobottega per mostrare il coupon a Morena.

“Sì, ne avevo fatto fare qualcuno per una lotteria di beneficienza,” le disse lei. “Da’ pure al ragazzo i suoi cento caffè e segnali qui sopra.”

Obbediente, June tornò in sala dal ragazzo. Lui la aspettava con le braccia conserte al di sopra del tavolo.

“Dunque?”

“Dunque puoi ordinare il primo dei tuoi cento caffè gratuiti.” Sbuffò June.

“Bene. Un espresso con panna, senza zucchero.”

“Perfetto. Nient’altro?”

Lui scosse il capo.

“Sono a posto così.”

June abbassò lo sguardo e vide che il cane del ragazzo le stava annusando curiosamente le scarpe.

“Non ce l’ha un guinzaglio questa pulce?”

“No, ma Monsoon è molto beneducata, non darà fastidio a nessuno, lo garantisco.”

“Monsoon?” fece June, perplessa. Lui scrollò nuovamente le spalle.

“Era un cucciolo randagio. L’ho trovata lo scorso anno davanti al negozio Monsoon in Grafton Street, così l’ho chiamata Monsoon.”
“Che originalità.” Commentò lei. L’ironia era uno dei suoi tratti più caratteristici.

“Me lo porti questo caffè sì o no?” berciò il ragazzo, che sembrava gradire la presenza di June almeno quanto lei gradiva la sua.

“Va bene, Signor Cafone, ti porto il tuo maledetto caffè!”

“Grazie.”

Ribollendo, June gli voltò le spalle e marciò verso il bancone, dietro al quale si affaccendava Michael, l’addetto alla preparazione delle bevande calde.

“Un espresso con panna,” gli mugugnò sbrigativamente. “E non sprecarti a metterci la bustina dello zucchero, il Signor Cafone laggiù non lo vuole.”

“Tipo strano, eh?”

June sospirò.

“Ha un buono da cento caffè,” gli riferì, tetra. “Ho paura che lo rivedremo spesso.”

 

 

I timori di June si rivelarono fondati.

Il ragazzo ritornò il giorno seguente, e anche quello dopo, e quello dopo ancora. Si presentava ogni mattina alle dieci in punto, con la chitarra in spalla e la cagnetta Monsoon che gli trotterellava appresso; si accomodava sempre allo stesso tavolo, accasciandosi sulla sedia come se una stanchezza più forte di lui lo opprimesse; si toglieva il cappotto nero e sgualcito e lo lasciava cadere alla cieca sulla sedia vuota accanto a sé, poi si sfilava il buono dalla tasca dei jeans e aspettava.

Aspettava che June si rimboccasse le maniche e andasse da lui a prendere svogliatamente l’ordinazione del giorno. Non si piacevano, era stato chiaro fin dal primo momento che si erano visti, e anche dopo parecchi caffè e altrettante crocette tracciate sul buono le cose non erano migliorate.

Quel giorno, esattamente come tutti gli altri, June si trascinò con sofferenza verso il tavolo dove quel tipo bizzarro la stava pazientemente aspettando. Morena la aveva incaricata di occuparsi personalmente di lui, visto che, a detta di tutti, era la più indicata per trattare con la clientela più esigente.

Quando gli giunse davanti, il ragazzo la salutò sollevando svogliatamente una mano. Forse era solo un’impressione, ma June lo vedeva ogni giorno più magro e sciupato.

Che fosse malato?

“Fammi indovinare,” gli disse, senza nemmeno tirare fuori carta e penna dalla tasca del grembiulino bianco. “Un caffè con panna, senza zucchero.”

“Ottimo,” L’aborto di un sorrisetto sarcastico balenò sulle labbra del ragazzo. “Sei più sveglia di quel che sembri, Sarah.”

Lei represse un brivido irritato.

“Mi chiamo June, non Sarah.”

Lui scrollò le spalle.

“Avevo sette probabilità su dieci che tu ti chiamassi Sarah.”

“Spiacente di deludere te e le tue statistiche, Sean.”

“Ike.”

Sembrava un’esclamazione infastidita: Ike. June pensò che non poteva esserci nome più adatto a un tipo come lui.

“All’alba del ventesimo caffè, finalmente so con che nome imprecarti dietro.” commentò. “Bene, Ike, caffè con panna. E Monsoon è sempre digiuna?” aggiunse, occhieggiando la cagnetta, docilmente accucciata accanto alla sedia del padrone.

“A lei non piace il caffè.”

“Ha l’aria di una che preferirebbe mille volte del prosciutto. Si offende se gliene porto qualche fettina? Offre la casa.”

“Chiedilo a lei.”

June si chinò sulla bestiola e le sorrise.

“Hey, pulce, lo vuoi un po’ di prosciutto?”

Per tutta risposta, Monsoon sollevò la testa con occhi avidi, la lingua rosa penzolante fra i denti, ed emise un uggiolio allettato.

“Credo fosse un sì.” Dedusse Ike.
“Anch’io,” annuì June, poi lo squadrò rapidamente. “E tu non mangi mai niente?”

Da quando era entrato là dentro per la prima volta, non lo aveva mai visto prendere altro che caffè.

“No, grazie, preferisco mantenermi in linea.”
“A guardarti sembri più che altro anoressico.”

“Vedi che danni psicologici i media infliggono a noi giovani?” replicò lui, affatto turbato. “Sei fortunata, tu, a essere immune da queste pericolose influenze.”

“Torno subito con le vostre ordinazioni.” Mugugnò lei a denti stretti, ignorando la sua sfacciataggine. Quando finalmente, dopo aver attraversato la sala a passo funereo, raggiunse il bancone, trovò Michael a ridersela alle sue spalle. “Non dire niente,” gli intimò acidamente. “Sai cosa preparare.”

E Michael, in effetti, lo sapeva. Tutti ormai sapevano cosa ordinava Ike e da un po’ avevano addirittura preso a chiamarlo ‘il tizio di June’, visto che in un modo o nell’altro era sempre lei a servirlo.

June chiese a Michael di portarle anche qualcosa per Monsoon e quando lui le consegnò il vassoio con l’ordinazione lei lo afferrò in malo modo e ritornò verso il tavolo con la sensazione che le mani le prudessero. C’era poco da fare: quell’Ike le dava immancabilmente sui nervi.

 

 

“Ecco,” Per l’ennesima volta da due mesi a quella parte, June posò la tazza davanti ad Ike senza troppe cerimonie. “Caffè con panna per il signore dallo sguardo truce e una chicca succulenta per la mia cagnolina preferita: salmone fresco!”

Monsoon emise un piccolo latrato giubilante e si tuffò con foga nel piattino che June le lasciò sul pavimento.

“A questo punto potresti portarmelo direttamente a domicilio,” scherzò Ike. “Mi risparmieresti un po’ di strada.”

“Ma certo! Venti euro a consegna. Dove devo recapitare?”

Lui fece un gesto evasivo.

“Lasciamo perdere. A quanti caffè siamo?”

June spuntò una casella sul coupon.

“Cinquanta netti, Vostra Tirchiezza. Un caffè ogni giorno, per cinquanta giorni, domeniche escluse, alle dieci spaccate. Sei rigoroso e puntuale come un inglese.”

“Io sono inglese.” Ci tenne a sottolineare lui.

June strabuzzò gli occhi, ma subito dopo si disse che avrebbe dovuto intuire le sue origini. A ben guardarlo, in effetti, aveva proprio l’aria tipica da giovane inglese ribelle: era un improbabile misto tra Lord Byron e Liam Gallagher.

“Scusa la curiosità, ma quanti anni hai?”

“Ventidue appena compiuti.”

June non riuscì a impedire alla propria bocca di spalancarsi. Gli avrebbe dato almeno venticinque anni. Doveva essere quel suo aspetto fiacco e tirato a ingannare.

“Sei giovane!” esclamò, stupita.

Ike rimase impassibile.

“Perché,” replicò. “Tu quanti ne hai?”

“Ventiquattro.”

“In effetti a una della tua età devo sembrare parecchio acerbo.” Rispose Ike, mellifluo.

June inorridì nel sentirsi arrossire.

“Sei un musicista?” divagò, spostando lo sguardo sulla custodia da chitarra che stava adagiata sull’altra sedia.

“No, mi porto sempre dietro la chitarra per ragioni puramente ornamentali.”

“Cosa suoni?” insisté lei, ignorando i suoi deliberati attentati di farle perdere la pazienza. Ike, però, era, se possibile, ancora più cocciuto di lei e non si lasciò scoraggiare.

“Sei in vena di chiacchiere, oggi?”

June si chiedeva solo se fosse così schivo per riservatezza o semplice sociopatia.

“Be’, sono quasi due mesi che sei un cliente fisso, e di solito gli altri attaccano bottone alla prima occasione.”

Ike sorseggiò il proprio caffè, osservandola di sottecchi. I suoi occhi erano davvero belli.

“Il fatto è che tu sei una civetta, Sarah.” Sentenziò boriosamente.

“June, maledizione! Mi chiamo June!” si infiammò lei, alzando la voce. Quasi tutti gli avventori del caffè si voltarono incuriositi. Ike, invece, portava quel suo solito, fastidiosissimo sorrisino beffardo impresso sulle labbra.

“Il fatto è che sei una civetta, June.” Rettificò, marcando bene il nome.

“Non è vero, sono solo amichevole.” Si difese lei.

“Sei una civetta.”
“E tu sei un selvatico!”

Una piccola parte del cervello di June le stava ricordando già da diversi secondi che non aveva senso che lei se ne restasse lì a litigare con quel cafone, dando per giunta spettacolo davanti agli altri clienti, ma lei sembrava non sentire.

“Ho notato che ti piacciono i mediterranei,” riprese Ike a un tratto. “Italiani, francesi, spagnoli… subisci il fascino latino?”

“Subisco il fascino della gente estroversa e calorosa.”

“Quindi ti piacciono gli esibizionisti.”

“Le persone solari.” Sottolineò rigidamente June.

“Questione di punti di vista.”

“Avresti qualcosa da imparare da loro.”

Scettico, Ike inarcò le sopracciglia.

“Ad esempio?”

“Ad esempio a sorridere veramente, qualche volta.”

Un improvviso tintinnio spezzò il ritmico suono strascicato del cucchiaino che mescolava il caffè. Lo sguardo che Ike sollevò su di lei fu inaspettatamente glaciale.

“Non sorrido a chi mi tratta con sufficienza.”

“Non ti tratto con sufficienza.”

“Sì, invece.”

“Non è vero!”

Ike posò il cucchiaino e si portò la tazza alla bocca.

“Come vuoi tu.”

Esasperata, June gli piantò in malo modo il buono sul tavolo, dicendosi che se non si fosse allontanata al più presto avrebbe finito per prenderlo a schiaffi.

“Spero che quel caffè ti vada di traverso!” gli sbottò contro, poi gli voltò le spalle e se ne andò.

Lo sentì rispondere un flebile “Grazie”, ma non si voltò indietro. Non aspettava altro che quei maledetti caffè gratuiti si esaurissero, così si sarebbe finalmente liberata una volta per tutte di quell’individuo sgradevole.

 

 

“Ciao, Monsoon!” esclamò June, rivolgendosi giovale alla cagnetta, che, come d’abitudine, era in attesa all’abituale tavolo del Paddy’s assieme ad Ike. “Sai che cos’ho per te oggi? Un bel filetto di vitello tenero tenero!” Si voltò verso Ike con aria distratta. “Oh, ciao anche a te, Signor Braccino Corto.”

“Ciao,” contraccambiò lui, del tutto privo di entusiasmo. “Per oggi niente vizi per Monsoon, grazie.”

“Come sarebbe?”

“Non è stata molto bene, stanotte, meglio che non mangi cose strane.”

“Potresti portarla da un veterinario, anziché costringerla a fare la fame, non credi?”

June trasalì quando Ike piantò un violento pugno contro il legno massiccio del tavolo e scattò rabbiosamente in piedi, le narici bianche e dilatate.

“Ma tu che ne sai di quello che posso fare?” ringhiò. “Tutto quello che sai di  me è quello che ordinerò quando metto piede qui dentro, nient’altro, quindi fammi un favore: risparmiami le prediche!”

Benché la ritenesse una reazione decisamente spropositata, June mantenne la calma. Forse era semplicemente una giornata storta.

“Oggi ti vedo più lagnoso del solito, sbaglio?” sdrammatizzò.

Ike schioccò impazientemente la lingua e si risedette.
“Caffè numero settantasette, June, niente chiacchiere.”

June si diresse a passo svelto verso il bancone, macinando nella testa riflessioni dubbiose su Ike e su chi fosse veramente. In generale le era sempre parso insopportabile, ma con il tempo, caffè dopo caffè, era emersa anche una parte più spiritosa e amichevole, anche se spesso trovava il suo umorismo inglese abbastanza macabro. A tratti era schivo, a tratti quasi sereno, raramente allegro, come se il suo umore cambiasse con il tempo. E il tempo, a Dublino, mutava in un battito di ciglia.

“A quanto siamo?” le domandò Michael, mentre preparava l’espresso con panna.

“Settantasette. Ancora ventitré e il supplizio finirà.”

Michael ridacchiò.

“Fai tanto la sostenuta, ma secondo me quel tipo ti piace.”
“Cosa?! Non dire sciocchezze, lo sopporto a malapena!”

“Sarà,” Michael le mise in mano il vassoio con il caffè. “Ma tutte le volte vi intrattenete a battibeccare decisamente più del necessario.”

“Ma figuriamoci.”

June tornò al tavolo di Ike con uno strano ronzio sordo nelle orecchie. Michael si sbagliava, e di grosso, anche.

 

 

Le giornate si susseguirono monotonamente tra sole e pioggia, una dopo l’altra, tutte uguali. Alle dieci, Ike entrava con la sua andatura pigra, Monsoon fedelmente accanto, e June andava da lui, nonostante ormai ben sapesse cosa le sarebbe stato ordinato. Quando poi tornava, chiacchieravano per qualche minuto, scambiandosi principalmente battutine pungenti e occhiate storte, poi a un certo punto uno dei due mandava a quel paese l’altro, e allora si separavano fino alla mattina successiva. Per più di tre mesi continuarono così, e lentamente, man mano che spuntava le caselle sul coupon, June si rendeva conto di quanti caffè avesse servito in tutta la sua vita. Centinaia e centinaia, migliaia, di ogni tipo e varietà: forti, ristretti, lunghi, decaffeinati, d’orzo, macchiati, neri, corretti…

Non aveva mai servito, però, un caffè con panna senza zucchero, prima Ike gliene chiedesse uno.

E prima di Ike non si era mai nemmeno soffermata a scambiare qualche parola con un cliente di spontanea volontà. E anche così facendo, quello che sapeva di lui sfiorava il nulla.

Il giorno del penultimo caffè, Ike si presentò puntualmente alle dieci, la chitarra buttata sulla spalla, ma qualcosa non andava. I suoi occhi sembravano ancora più tristi e cupi del solito, le sue spalle più pesanti e ricurve, il suo passo più affaticato. June impiegò qualche istante per capire cosa ci fosse di diverso.

“Dov’è Monsoon?” volle sapere, non appena lui fu giunto al tavolo che abitualmente occupava. Lui appoggiò la chitarra alla seconda sedia, si tolse il cappotto e si sedette con incuranza.

“Non c’è.”
“Questo lo vedo. Ti ho chiesto dov’è, infatti.”

Senza guardarla, Ike si mise a trafficare nel proprio portafogli.

“Ieri per strada una bambina l’ha vista e ha detto a suo padre che la voleva,” Quando trovò il solito talloncino, ormai logoro, lo porse a June con disinvoltura. “Lui mi ha proposto di vendergliela per cinquecento euro.”

Lei si rifiutò di credere che fosse successo quel che pensava fosse successo.

“E tu hai…”

“Starà meglio con loro.” Tagliò corto Ike.

June dovette muoversi violenza psicologica per non dare in escandescenza.

“Hai barattato il tuo cane con cinquecento miseri euro! Ma che razza di persona sei?”

“Le mie scelte non ti riguardano, June,” dichiarò lui, asciutto. “Non sta a te giudicarmi.”

“Monsoon era la tua migliore amica!” strillò lei. Non le importava se tutti la stavano fissando e bisbigliavano alle sue spalle. Era furiosa.

“No,” la corresse Ike, sempre pacato, ma un’ombra strana gli oscurava il viso. “Era l’unica amica che avessi.”

“E allora perché l’hai abbandonata così?”

“Non ti riguarda. La questione è chiusa. Portami il mio novantanovesimo caffè.”

Era sempre stato scontroso con lei, ma mai così tagliente e lapidario. Doveva esserci stato qualcosa di sbagliato che lei aveva detto, qualcosa che aveva incrinato tutto il resto. Ma al momento non le interessava, non aveva voglia di preoccuparsi per lui. Lo detestava per quello che aveva fatto, non aveva più niente da dirgli.

“Sì, signore.” Gli sibilò, poi gli voltò le spalle, allontanandosi in fretta. “Il solito,” borbottò a Michael, passandogli davanti come una furia. “E fallo portare da qualcun altro, per favore, io sono in pausa.”

Entrò come una furia nel retrobottega e si chiuse nel bagno del personale, desiderando che quello stronzo sparisse per sempre dalla sua vista.

Il giorno dopo, Ike non si ripresentò a riscuotere il suo ultimo caffè.

 

 

June si strinse la sciarpa attorno al collo mentre una folata di vento gelato le scompigliava i capelli. Nonostante l’inclemenza del tempo uggioso, Parnell Street era comunque discretamente affollata, con gente frettolosa che affollava i marciapiedi umidi senza guardare in faccia nessuno. Nell’aria, sempre quel profumo, unico e magico. Il profumo dell’Irlanda. Un profumo che quel giorno a June sembrava insolitamente triste.

Era un mese che Ike non si faceva vedere, e da un mese lei, stupidamente, era preoccupata per lui. Avrebbe cercato di rintracciarlo, se solo avesse saputo qualcosa di più del suo nome. Ogni volta che intravedeva un ragazzo con una chitarra in spalla, le veniva un tuffo al cuore, ma poi si rendeva conto che era troppo alto, o troppo robusto, o che i suoi capelli erano troppo corti e scuri.

Si dava della patetica per come non faceva che cercarlo in ogni volto che incontrava, sperando di scorgere il grigio dei suoi occhi nell’ennesimo sconosciuto che le passava accanto. Un paio di volte le era anche capitato di scambiare il cane di qualche vecchietta per la piccola Monsoon, salvo poi incassare una cocente delusione nel realizzare che non poteva essere lei. Anche adesso, oltrepassando distrattamente l’ufficio turistico, il cane che quella bambina teneva gelosamente al guinzaglio le sembrava fin troppo familiare.

June si fermò di scatto nel bel mezzo del marciapiede, i passanti che la aggiravano scocciati, senza risparmiarle qualche rimprovero, ma lei non li poteva nemmeno sentire. Di fronte a lei c’era una con un cagnolino al guinzaglio: piccolo, nero, con quelle zampette bianche e la lingua pendente di lato. June poteva anche essere un’illusa visionaria, ma non esisteva ombra di dubbio: quella era davvero Monsoon.

Le ginocchia tremanti, si avvicinò con discrezione. Appena Monsoon la vide, fu lei a riconoscerla e avvicinarla, tirando prepotentemente il guinzaglio. La bambina sembrò felice di avere un’occasione di mettere in mostra il suo cucciolo.

“Com’è bella la tua cagnetta!” si complimentò June, abbassandosi per accarezzare dolcemente il muso di Monsoon. “Come si chiama?”

La bambina sorrise orgogliosa, prima all’uomo distinto che era con lei, che ricambiò, poi a June.

“Si chiama Missy.”

Monsoon abbaiò in protesta e si protese di nuovo verso June, leccandole le mani. Era decisamente più vivace delle ultime volte che l’aveva vista assieme ad Ike.

“Che bel peperino.”

“Pensi che prima stava con un artista di strada,” le rivelò l’uomo, avvolgendo un braccio attorno alle spalle della figlia. “La teneva con sé tutto il giorno al freddo mentre suonava in Grafton Street.”

June ebbe la sensazione che il proprio cuore si fermasse.
“Suonava?” balbettò.

“Sì,”confermò lui. “Una vecchia chitarra abbastanza malandata, e questa poverina se ne stava lì ai suoi piedi a congelare, ed era anche malata. Un giorno Sophie l’ha vista e se ne è innamorata, così ho offerto al ragazzo una piccola somma in cambio del cane. Lui all’inizio mi è sembrato titubante, ma alla fine ha acconsentito a regalarci Missy, a patto che ce ne prendessimo cura, e così è stato.” L’uomo regalò a Monsoon un sorriso premuroso. “Il veterinario ha detto che è stata una fortuna che la abbiamo adottata, non era nemmeno vaccinata. Probabilmente quel ragazzo non aveva i mezzi per nutrire sé stesso, figuriamoci un cane. Missy aveva una seria malformazione ai reni, sarebbe morta se non l’avessimo fatta operare.”

“Per fortuna la abbiamo trovata noi, vero papà?”

“Certo, tesoro.”

June era sconvolta. Si era appena resa conto di non aver capito un bel niente, per tutto il tempo. Ike e i suoi caffè gratis, il suo intestardirsi a non prendere mai altro, e poi la storia di Monsoon che stava poco bene, la decisione di darla via… aveva frainteso tutto quanto.

“Capisco,” farfugliò, risollevandosi in piedi sulle gambe malferme “Be’, è stato un piacere,” disse all’uomo e alla bambina. “Arrivederci.”

Loro la salutarono cordialmente.

“Arrivederci.”

Un forte senso di vertigine colse June mentre riprendeva a camminare, senza una meta o direzione. Guardò avanti a sé e pensò che Ike era là, da qualche parte, solo con la sua chitarra, ad odiarla per come lo aveva trattato.

Il rimorso si fece strada dentro di lei e le afferrò la gola, stringendo impietosamente.

Doveva trovarlo e scusarsi. Lo avrebbe fatto, ma prima doveva capire cosa voleva dirgli, e soprattutto cosa si aspettava da lui. Non si era più fatto vivo dopo la loro discussione, e un valido motivo ci doveva pur essere. Se non gliene fosse importato nulla di ciò che lei pensava di lui, non si sarebbe fatto problemi a tornare per il suo centesimo caffè. L’ultimo.

Restò per un attimo a fissare la strada che curvava in lontananza, verso il Trinity College, poco prima di Grafton Street.

Ci sarebbe andata, quando avesse capito perché ci teneva così tanto a ritrovarlo, a riportarlo al Paddy’s per servirgli quel famoso caffè numero cento.

Se necessario, decise, glielo avrebbe portato personalmente là fuori, ovunque lui si trovasse.

 

 

Una settimana fu il tempo che June impiegò a riflettere sulla situazione e un’altra settimana le servì per giungere alla conclusione che non aveva la più pallida idea di che cosa volesse fare. L’unica cosa che sapeva era che aveva bisogno di parlare con Ike.

Era ancora buio quando uscì di casa e si incamminò verso il centro. Quando giunse nei pressi del negozio Monsoon, il sole era già alto nel cielo e penetrava faticosamente attraverso la densa coltre di nuvole livide. Si era fatta mille piani mentali, aveva fatto infinite previsioni, si era preparata tutta una serie di cose da dire, fiduciosa che sarebbe stato tutto semplice e naturale, come quando aveva parlato con lui al caffè.

Quando sollevò gli occhi e lo vide, però, tutto quanto crollò.

Ike era pochi metri avanti a lei, seduto a terra a ridosso di un muro, la chitarra imbracciata mentre cantava una canzone melanconica che lei non conosceva. Aveva i capelli umidi che gli coprivano il viso e il capo chinato. La sua voce roca risuonava debolmente per la via affollata. La gente passava e gli lanciava qualche moneta nella custodia della chitarra, e un gruppetto di giovani si era addirittura radunato vicino a lui per sentire meglio. June non lo aveva mai visto con così tanta gente attorno, eppure, al tempo stesso, non lo aveva mai visto così solo.

Gli si avvicinò in silenzio e si fermò a un passo da lui.

“Ciao, straniero.”

Lentamente, come se non credesse di averla sentita davvero, Ike guardò in su. La musica cessò e i suoi occhi stanchi si dilatarono dallo stupore.

“Che cosa ci fai qui?” chiese in un soffio.

Incurante delle occhiatine incuriosite dei ragazzi presenti, June gli si sedette affianco e si strinse le ginocchia al petto, avvolgendole con le braccia.
“Se dicessi che passavo per caso?”

Per tutta risposa Ike afferrò la custodia senza nemmeno sprecarsi a togliere i soldi che vi erano stati gettati dentro e vi ripose la chitarra. June notò che assieme alle monete e alle rare banconote c’erano anche un paio di buoni pasto. Doveva essere così che era entrato in possesso del coupon: qualche passante gli aveva dato quello, anziché una manciata di monetine. Un affare, a ben pensarci.

“Perché non mi hai detto la verità?” gli chiese.

“A proposito di cosa?”

“Di Monsoon,” June cercò di incontrare i suoi occhi, ma lui non glielo permise. “E di te, soprattutto.”

“Non ho mai mentito.” Si difese Ike.

“Ma hai taciuto diversi particolari, come il fatto che ti guadagni da vivere suonando, tanto per dirne uno. E poi non hai affatto venduto la tua migliore amica; l’hai affidata a delle persone che potessero permettersi le costose cure di cui aveva bisogno.” Lui non disse nulla, così lei aggiunse: “Li ho incontrati per caso. La trattano molto bene, se può consolarti.”

“Mi fa piacere, ma non mi consola,” Il tono di Ike era amaro. “Monsoon era tutto per me, tutto quello che avevo. Adesso non ho più niente.”

“Hai ancora una casella da spuntare sul tuo buono di cento caffè.”

Ci fu una pausa di silenzio. Forse una casella su un buono non era granché, come prospettiva a cui aggrapparsi in un momento di sconforto, ma se non fosse bastata quella, lei aveva qualcos’altro in serbo. Qualcosa di speciale, solo per lui. Per farlo sentire meglio, o così sperava.

“Ah, be’...”

“E hai me.”

Ike si bloccò.

“Scusa?”

“Hai me,” ribadì June, convinta. “Ti ho servito novantanove caffè con panna, si sarà pur creato qualche tipo di legame tra di noi.”

“Mi hai detestato dal primo momento in cui mi hai visto.” Replicò lui. Un ricciolo divertito gli comparve in un angolo della bocca.

“Sai, mi manca la tua presenza molesta, al caffè,” confessò lei. “Tutti gli altri clienti sono così gentili e simpatici… sai che noia?”

Per la prima volta, June udì il suono della sua risata. Era strana, buffa, come quella di un bambino, ma con un retrogusto amarognolo.

“Sì, immagino.”

“Almeno ce l’hai un tetto per la notte?” si informò lei.

“Sto in un ostello. Non è un granché, ma è pur sempre un posto in cui tornare, no? E, prima che tu lo chieda, mangio regolarmente, anche se non sembra.”

June si ritrovò a sorridere. Giocava tanto a fare il ragazzo coraggioso e stoico, il bel tenebroso pieno di misteri, ma in realtà aveva un gran bisogno di stabilità, vantaggio di cui uno che si guadagnava da vivere suonando per strada non poteva godere in abbondanza.

“Sei un randagio, Ike.”

Lui sollevò le spalle.

“E con questo?”

June gli porse un foglietto. Lo aveva fatto lei personalmente quella notte, presa da un’ispirazione improvvisa, ed era piuttosto soddisfatta del risultato.

“Che cos’è?” domandò Ike, rigirandoselo fra le mani.

“Non sai leggere?” fece lei,  sorniona.

Buono da 100 tutto-quello-che-vuoi-tu?” lesse lui, perplesso.

“Offerta imperdibile, vero?”

Ike ebbe un impeto di rabbia e quasi le scaraventò il cartoncino addosso.

“Non accetto la carità di nessuno!”

“Non è carità,” precisò June, paziente, e gli rimise il foglietto in mano. “Mi prendo cura di te. Sei il mio randagio, adesso. Non vedi? Ti ho trovato proprio davanti al negozio di Monsoon in Grafton Street.”

Seppur palesemente sbigottito, Ike prese il nuovo buono tra le dita e si mise a osservarlo con un accenno di sorriso.

“Tu sei fuori di testa.”

“Vorrei ben vedere. Una persona normale mica adotterebbe un selvatico scontroso come te.”

“Sì, forse hai ragione.”
“Verrai?”

“A riscuotere questo buono?”

“Sì.”

“Non lo so, June.”

Vago ed evasivo, come suo solito.

“Qual è il tuo problema?” lo interrogò, severa. “Perché sei così allergico alle persone?”

“Non ne ho mai incontrate di meritevoli di fiducia.”

June si sentì punta nel vivo: tutto poteva accettare, ma non che lui dubitasse della sincerità delle sue intenzioni.

“Sono venuta fin qui a piedi, sotto la pioggia, da Dundrum, nel mio unico giorno libero, e ho fatto a mano quello stupido coso ieri notte alle due, il tutto perché… perché volevo fare qualcosa di carino per te, che ti facesse sorridere, per una volta, e invece tu sei sempre freddo e sulla difensiva! Non voglio pugnalarti alle spalle non appena abbasserai la guardia, maledizione, voglio aiutarti!”

“Ma perché?” esclamò lui, piccato. “Cosa te ne importa di me?!”

“Mi importa!” si arrabbiò lei. “Mi importa e basta! E se per te non è sufficiente, allora proprio non so perché sono ancora qui a perdere tempo!”

Lo sguardo di Ike si adombrò nell’abbassarsi.

“Me lo sto chiedendo anch’io.”

June si alzò in piedi, si sistemò il cappotto e ricacciò indietro una voglia di mettersi a piangere e urlare a cui non sarebbe stato saggio dare pubblicamente sfogo.

“Io ho fatto quel che dovevo, Ike. Il resto sta a te.”

Lui non disse più niente, né la guardò. Rimase seduto a terra con il coupon in mano, fissandolo con espressione assente. Non aprì bocca né mosse un muscolo nemmeno quando June girò sui tacchi e se ne andò, lasciandolo nuovamente solo.

Forse era così che doveva andare. Forse era quello il destino delle persone come lui: la solitudine.

Eppure lei non riusciva ad accattarlo.

 

Era il primo, vero giorno di sole da un paio di mesi a quella parte, eppure June si era svegliata con una sensazione di inquietudine addosso che ancora non sapeva spiegarsi. Aveva visto il cielo blu e aveva capito che la primavera era ufficialmente arrivata, ma non se ne faceva niente della primavera se dentro continuava a sentire la mancanza di Ike e del suo caratteraccio. Era piuttosto masochistico da parte sua, ma così stavano le cose e lei non poteva farci niente, se non infilare il suo grembiule, inventarsi un sorriso credibile e mettersi a servire i clienti.

Erano le dieci quando, dopo essere corsa qua e là per la sala da the al piano superiore del Paddy’s, scese di sotto per portare le ordinazioni e mandare una montagna di stoviglie da lavare in cucina.

Si era aspettata il pienone e la coda di clienti che aspettavano in piedi all’ingresso. Si era aspettata che Morena le urlasse quel ‘Finalmente!’ da dietro la bancone, facendo sghignazzare Michael. Si era anche aspettata di dover sgomitare per raggiungerli. Quello che non si era affatto aspettata era che avrebbe trovato un noto broncio fascinoso ad attenderla.

“Ike!”

Dopo tutto quel tempo, ancora non era riuscita a spiegarsi come i brividi di irritazione che lui le aveva suscitato all’inizio si fossero gradualmente trasformati in piacevoli formicolii allo stomaco.

Lui si fece avanti, le mani affondate nelle tasche dei jeans, serio come non mai.

“Ciao.”

“Sei venuto, alla fine,” June sentiva la propria voce tremare dall’incredulità. “Avevo quasi smesso di sperarci. È tanto che aspetti?”

Lui scosse la testa.

“Mai quanto mi hai aspettato tu.”

“Posso offrirti un tutto-quello-che-vuoi-tu?”

“Il solito mi basta.”

June si illuminò nel vederlo estrarre l’ormai veterano tesserino dalla giacca.

“Siamo a cento, finalmente!”

Ike si schiarì la gola con fare imbarazzato.

“Centouno, a dire il vero.” Puntualizzò.

“Come sarebbe a dire centouno?” fece lei, confusa. Il coupon ne copriva solo cento, e cioè uno ancora, non di più. Ma Ike si comportava in modo strano, strusciava un piede avanti e indietro e guardava il pavimento con smodato interesse

“Ti va di… farmi compagnia?”

A June servì un notevole sforzo per non domandargli di ripeterlo.

“Ti senti bene?” gli chiese invece, notando una vago rossore che affiorava sulle sua guance scavate.

“Ti ho solo offerto un caffè.” Si schermì rapidamente lui.

“Cioè vuoi condividere qualcosa con me?”

“June, voglio solo offrirti un caffè, maledizione!”

“Il buono non li copre entrambi, però.”

“Non importa,” disse Ike, mentre prendevano posto al tavolo di sempre, miracolosamente libero. “Pagherò.”

Compiaciuta, June sorrise senza quasi rendersene conto.

“Ti stai addomesticando.”

“Mai.” Dichiarò lui, categorico.

“Invece sì!”

“Senti, lo vuoi o no questo dannato caffè?” si spazientì lui.

June dovette mordersi il labbro inferiore per non scoppiare a ridere. Era delizioso quando era imbarazzato. Non se lo sarebbe mai immaginata.

“Grazie,” si limitò a dirgli, con il tono più dolce che avesse mai usato con lui. “Sono sinceramente commossa.”
“Per un banalissimo caffè?” minimizzò lui, con un gesto incurante.

In quell’istante, senza che nessuno la avesse avvisata, arrivò Morena in persona e lasciò loro davanti due tazze di fragrante caffè con panna montata. Prima che June potesse dire alcunché, lei le strizzò l’occhio e se ne andò, in fretta come era arrivata, lasciandoli nuovamente soli.

Improvvisamente June ebbe la sensazione che ci fosse qualcosa che Morena non le avesse detto, che l’arrivo di Ike al Paddy’s, ormai diversi mesi prima, fosse stato tutt’altro che causale, ma forse era solo una sensazione. Se conosceva Morena – e la conosceva bene – esistevano forti probabilità che ci fosse il suo zampino sotto a tutta quella storia.

June sorrise ad Ike, pensando che, anziché accusarlo di non sorridere mai per tutto il tempo, forse avrebbe dovuto sorridere lei per prima.

“No, non per il caffè,” disse, avvicinandosi la propria tazza. “Per tutto quello che c’è dietro.”

Ike la imitò e prese a mescolare la panna nel caffè, scrutando pensosamente il proprio movimento.
“E per quello che c’è davanti?” sussurrò, quasi inudibilmente.
“Davanti a questo caffè?” June sollevò la propria tazza e bevve un minuscolo sorso di caffè, per poi abbassarla studiarla, assieme a quella di Ike, come se la risposta a quella domanda fosse tutta lì. Sorrise, perché in fondo era proprio così. “Ci siamo noi.”

E quel noi era caldo e dolce, rassicurante, e aveva il sapore di una promessa. Una promessa suggellata dalla semplicità un caffè con panna, e da due sorrisi che si conoscevano per la prima volta.

   
 
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