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Autore: loryherm    10/12/2009    5 recensioni
Successe tutto molto rapidamente, come nell'immediatezza di un millesimo di secondo si rese conto di aver lasciato i guinzagli dei cani, essersi precipitata lì a pochi metri fino al centro dell'incrocio, afferrato quella giacca di pelle nera lucida, e strattonato l'individuo dal braccio per lanciarlo letteralmente dall'altro lato della strada, mentre la vettura gialla rallentava bruscamente, ma non abbastanza da non prenderla in pieno. Nello stesso istante, in aria si librarono decine di scatole e buste multicolore, firmate Prada e Dolce e Gabbana, e indumenti di varia natura, una crinieria leoncina sferzò il vento per un secondo prima che due gemiti di dolore insieme risuonassero nel silenzio gravido di panico di tutta Fifth Avenue.
Genere: Romantico, Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Bill Kaulitz, Georg Listing, Gustav Schäfer, Nuovo personaggio, Tom Kaulitz
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Like a phantom rider.

Each step you make, each breath you take

Your heart, your soul, remote controlled,

This life is so sick You're automatic to me,

There's no real love in you


                                           Why do I keep loving you?

                                                                                                                                        ***

"Credo che si stia svegliando..."

Oh, no. No. Non voglio svegliarmi.

"Le parlerò io per prima."

Mamma...

"Cecil, cerca di non metterla subito sotto pressione. Con la gentilezza si ottiene di più."

Perfetto, c'è anche la nonna.

"Oh, certamente. Le darò un bacino sulla fronte per aver rischiato volontariamente di porre fine alla sua vita, mamma."

"Non essere sciocca, cara. E' solo un'adolescente. Magari era innamorata del ragazzo."

"Fesserie. Lenys non si prenderebbe mai una cotta per un celebrità, va contro i suoi indefessi principi."

"Certe cose non si possono decidere."

"Ad ogni modo non c'era bisogno di farsi ammazzare da un taxi. Non bastano più i messaggini sul cellulare per dire sono pazza di te?"

"Certi discorsi mi imbarazzano, Cecil."

Va bene, Lenys, apri gli occhi e falli smettere di proferire simili stronzate.

"Come ci è venuto in mente di lasciarla venire?"

"E' stata tua la brillante idea, l'hai dimenticato?"

"Ho voluto darle fiducia."

"Era una bambina, e a quanto pare tale è rimasta."

Oh, ma ti prego.

"A che cosa serve rinfacciarsi delle colpe adesso, cara?"

"Desidero avere voce in capitolo se non è chiedere troppo; state parlando di me come se non potessi ascoltarvi."

Sentì l'eco della sua voce, e quasi si spaventò lei stessa. Roca, un soffio appena, come se non parlasse da anni. Con i suoi genitori non parlava da tempo, infatti. E la sua voce, in loro presenza, le era sempre parsa inudibile e lieve. 

L'anestesia le aveva proscigato ogni forza, ma avrebbe dovuto riprendersi, e in fretta, per affrontare un simile incontro. 

Cercò di abituare gli occhi alla luce fortissima nel neon che aveva sopra la testa, ancora fasciata a quanto pareva. Sentiva una brutta pressione sulla fronte, madida di sudore. Aveva caldo, e una gran sete.
"Mi fa piacere che per una volta tu cerchi di ascoltare, Lenys." La voce di sua madre la ricordava esattamente, così tagliente, soffiata, netta. 

Si sforzò di focalizzare meglio le tre figure che stavano vicine (troppo vicine) al suo letto. Sua madre (Cecil, come preferiva farsi chiamare da lei), con la sua pelliccia addosso, la bocca rossa, i fluenti capelli biondi, troneggiava rispetto a suo padre, dietro di lei, e alla nonna, seduta sulla sedia lì accanto, i suoi capelli parevano più grigi di quanto ricordasse.

Si prese del tempo prima di rispondere, del tempo un cui si impose di restare calma. Aveva ragione sua nonna; con la gentilezza si ottenevano più risultati. Ma la verità è che aveva paura, talmente tanta che si sarebbe aggrappata a qualunque cosa pur di non cedere ai loro voleri, che già immaginava.

"Vi ho sempre ascoltati, ho solo deciso di darvi retta. C'è una sottile, ma non banale differenza." Disse, tirandosi su, e abbassando gli occhi. Ritrovare quella luce lapidaria nelle iridi chiare di sua madre fu come ricevere una pugnalata dritta nella bocca dello stomaco, i suoi occhi la lacervano dentro con crudeli parole mute.

"Se ci avessi dato retta ora non saresti qui, noi non saremmo qui." Sibilò, con assoluta noncuranza. 

Lenys non voleva più sentirsi offesa dal suo trattarla con sufficienza, ormai avrebbe dovuto esserci abituata. Ma ogni qual volta le capitava di interagire con sua madre, le sembrava di tornare bambina. Una bambina sciocca, che si trovava a mostrare sensazioni, idee, fedi, che ad un adulto apparivano come assolutamente prive di senso. Allora anche lei cominciava a balbettare, a chiedersi se fosse nell'errore, e puntualmente a rispondersi che per loro non sarebbe mai stata abbastanza in ogni caso. Non avrebbe mai eguagliato la 'grandezza' di chi l'aveva preceduta, un po' per quel suo ostinato caratteraccio, un po' per convinzione. Nessuno si rendeva conto di quanto poco le importassero le loro effimere grandezze. Aveva trovato molto di meglio, andando via. Si era messa alla prova, e per la prima volta si era sentita capace, adulta. Per quanto vivesse un mondo parallelo a quello che fino a quel giorno aveva conosciuto, si era vista riflessa in uno specchio, così diversa da sua madre, ma per la prima volta, non si era creduta più piccola. Solo diversa. Nella situazione attuale le sembrava quasi di dover spiegare i colori a un cieco.

"Ma non sarei felice come adesso." Rispose, nella vana speranza che lei potesse capire.

"Felice. Cosa sai della felicità? Hai solo diciannove anni."

Oh, ma perchè ti continui a farti del male, Lenys?

"Proprio perchè sono giovane sono felice, mamma. Sono libera di costrurmi una vita." Disse, riascoltandosi come se ormai conoscesse quelle parole a memoria, come se fossero un'eterna litania della sua vita. Aveva creduto che non ce ne sarebbe più stato bisogno, quando era approdata a New York.

E' mai possibile che mi trovi ancora una volta ad affrontare questo discorso con loro?

Evidentemente si sbagliava. Ancora una volta.

"Ne sei davvero così convinta? Per esempio adesso cosa credi di poter fare?" Sua madre inarcò il sopracciglio perfetto, e increspò le labbra scarlatte, senza neanche sforzarsi di non apparire compiaciuta.

"Non sono affari vostri." Sberciò, affilando lo sguardo castano. Suo padre sbuffò teatralmente, restando però in silenzio, come da copione. La nonna sorrideva, distante. Intanto sua madre, si dilettava a dimostrarle la sua totale, insanabile, incompetenza.

"Non hai un soldo, hai bisogno di cure mediche dignitose, tuo nonno è malato e vuole vederti." Recitò, a raffica.

Era necessaria anche la nota pietosa?

"Cecil, non voglio venire via con voi. Sarebbe il primo passo per arrivare dove volete portarmi." Doveva essere decisa, o non l'avrebbero mai lasciata in pace. Ma non riusciva a guardarla negli occhi. Era ancora difficile.

Faceva male, rivedersi nelle sue aspettative deluse.

"Siamo i tuoi genitori, abbiamo a cuore il tuo futuro."

Lenys non si lasciò toccare dal suo tono più mite, nè dal suo imporsi pazienza, nè dalle chiacchiere riguardo suo nonno. Erano decenni che andavano predicando di sue presunte malattie, ed erano decenni che lui restava sano come un pesce.

"Avete a cuore il patrimonio di famiglia." Replicò, quindi, spicciola.

"Non essere melodrammatica, ora." Ancora quello sguardo. Quello sguardo puntato sempre altrove, lontano. 

Dio, ma mi vedi?

Forse non c'era speranza, davvero. Doveva rassegnarsi.

Non avrebbero mai capito quello che sentiva, non avrebbero mai accettato la sua diversità, la sua intraprendenza, la sua voglia di evadere da quel mondo troppo stretto, delimitato da muri di borghesi convinzioni, di fedi superficiali, e di egoismo. 

Eppure sapeva perfettamente cosa aveva sempre voluto, cosa le era mancato nel suo rapporto con loro. Non le rassicurazioni, non le dimostrazioni di affetto. Non avrebbe mai smesso di volere che loro la guardassero. Solo che si soffermassero per un momento a valutare le sue potenzialità. Senza preconcetti, senza programmi, senza pregiudizi.

"Dovete garantirmi che potrò andarmene quando vorrò."

Ancora una volta si trovava a concedere loro una possibilità. 

"Non possiamo promettertelo. Dipende da cosa diranno i dottori, da quale lavoro troverai, dalle esigenze della famiglia." Sua madre sapeva mentire anche così, guardandola in faccia.


L'aveva sempre fatto bene. Ordinava, con la presunzione di sapere cosa fosse giusto. In realtà che cosa poteva sapere della vita un donna cresciuta in una villa di tre piani, che aveva frequentato scuole private, avuto due tate, cinque domestici, e un'eredità pari a quella di tre generazioni di un comune dirigente d'azienda? 


"La famiglia, la famiglia! Ma che ne sapete di cos'è una vera famiglia? Per voi si tratta solo di mantenere alto un nome, tra l'altro costruito su un sacco di bugie."

"Lenys, stai esagerando."

"Dici delle assurdità smisurate." Fece eco suo padre, la sua bocca si era mossa appena, parlando in un sussurro. 

Sussurri, dietro le porte, dietro le schiene, dietro gli occhi. 

Coi silenzi suo padre se la cavava piuttosto bene.

Ma quanto poteva fare rumore il suo silenzio? Quanti passi ci sarebbero voluti per riempire quel vuoto? 

"Sì, dimenticavo di essere una pazza a credere che ci fosse del marcio in tutto il mondo che vi gira intorno."

"Marcio?" Il volto di sua madre si accese di sdegno, e severità. "Marcio è quello che ti abbiamo dato fino a due anni fa? Una bella casa, dei bei vestiti, un buon nome, un'ottima istruzione, feste e incontri con gente che le tue coetanee ti invidiano da sempre?"

"Siamo persone oneste che fanno un lavoro che purtroppo spesso richiede di aggirarsi in luoghi e situazioni poco piacevoli." Suo padre ripteva quelle parole come un disco rotto, come una macchina, ed erano cose che non pensava, che sapeva essere una menzogna. Ma forse, ormai, quasi non se ne rendeva più conto, di cosa fosse vero e cosa no. 

"Ora chi è che dice delle smisurate assurdità, papà?" Soffiò, esasperata da tanta cecità, e ostinazione.

"Abbassa la voce." Suo padre si guardava intorno con aria circospetta, gli occhi nocciola sgranati e preoccupati.

Lenys alzò gli occhi al cielo. "Non sia mai che qualcuno ci ascolti." Sbottò.

"Sei stata capace di affilare la lingua anche con l'anestesia in circolo, vedo." Sua madre la fissò, un breve cenno di sorriso le stirò le labbra fini. 

Lenys passava ore a gurdarla quando era bambina, invidiandole quell'eleganza, quella raffinatezza, quasi congenite, del tutto naturali. Anche in quel momento non potè fare altro che osservarla, e constatare ancora una volta quale immensa distanza intercorresse tra loro. 

Non era cambiato niente negli anni. Lei era rimasta la persona discreta di sempre, nelle parole, nei gesti, nell'aspetto. E sua madre la donna imperiosa e determinata che era.

Il colore rosso del rossetto poteva nascondere tante parole, scialbe. Lo sguardo lontano poteva coprire tanti segreti. 

Quante bugie si dovevano dire per fare di una vita una bugia? 

"Sono ore che sono cosciente, e ho avuto due anni per pensare a tutte le sciocchezze che mi avete detto su come si vive in questo mondo." Sibilò. 

Sua madre rise, riempiendo la stanza di una frivola superbia.

"Noi non viviamo come te." Constatò, lapidaria. 

"Dovreste. Capireste molte cose." Riuscì a sorridere anche lei, beffardamente. 

Buffo che sia proprio io a dirvi questo, eh?

"Sei tu che devi capire molte cose, Lenys!" Sua nonna la fece sussultare, col suo tono sentito, e parlando così all'improvviso. 

"Sei così giovane e ingenua. Credi che il mondo sia tuo a questa età, ma non è così." Il suo sguardo virente era acceso di un sentimento che Lenys non sapeva ben identificare. Forse l'avrebbe detto rimorso. Restò sorpresa. Sua nonna era una donna dalle maniere gentili, certo, ma come sua madre era stata educata a calibrare bene le proprie emozioni. Invece in quell'istante, sua nipote, vide riflesso nei suoi occhi soprattutto un interesse sincero, una sensazione profonda. 

"Lasciateci sole per favore, cari." Disse seria, ma rassicurante. 

Lenys osservò sua madre. Era evididentemente preoccupata. Voleva essere sempre lei a tenere il gioco, non era il tipo che abbandonava il campo a metà partita. 

Non fu l'unica a pensarlo. 

"Cecil, facciamo come dice." Suo padre le poggiò una mano sulla spalla. I suoi occhi erano sicuri, come se sapesse che lasciare fare alla nonna sarebbe stata una buona mossa. 

Non ne sarei così convinta al tuo posto.

Sentì il respiro di sua nonna affaticato, non più lieve e leggero come una volta. Le sedette accanto quando i suoi genitori uscirono dalla stanza. Le rughe del suo volto le scavavano negli occhi un'espressione ansiosa, come se avesse fretta.

"In tutti questi anni ne ho viste talmente tante, bambina mia." Esordì. C'era stanchezza nel suo tono, ma anche dolcezza. Lenys non l'aveva mai sentita così vicina

"Sei così giovane, ti sembra del tutto sensato credere che da soli si possa conquistare la libertà. Ma ascolta chi ha più esperienza di te: per avere un posto sicuro in questo mondo, devi lottare con le unghia e con i denti." Continuò. "Hai la fortuna di avere una famiglia che può aiutarti, che può renderti le cose facili e immediate. Sfruttala."

La ragazza scosse il capo, immediatamente. Era così stanca di ripetere le sue convinzioni, non voleva più farlo.

"Non la penso come te, lo sai. Questo è il mio posto, è il mio modo di vivere." Si limitò a dire, sofferente. Aveva idea che non si sarebbe arresa. Ma la sua vicinanza improvvisa la rendeva curiosa. Perciò restò ad ascoltarla. Pur non riuscendo a guardarla. 

Ha gli stessi occhi della mamma. Quasi l'avevo dimenticato. 

La nonna le sorrise indulgentemente, scrutando dentro i suoi occhi nocciola con reale interesse. 

Erano così diverse loro due.

"Torna a casa per un po'. Se non per noi, almeno per tuo nonno. Vuole soltanto vedere che stai bene, e salutarti. Ti prometto che gli impedirò di chiederti di restare." 

Lenys alzò immediatamente lo sguardo su di lei, colpita dalle sue parole. La paura di guardarla svanì, sostituita da una sensazione affatto piacevole. 
Forse comprendeva perchè la nonna apparisse così sciolta, quasi arresa. Rassegnata.

"Nonna, io..." Sussurrò, titubante. 

"Siamo vecchi, Lenys. Dopo tanti anni vogliamo vivere ciò che ci resta in pace, potresti regalargli dei bei giorni. Smetterebbe di sentirsi in colpa."

In quel momento venne pervasa da un pessimo presentimento, e si maledì. Ne fu del tutto sicura. Sua madre non stava mentendo. Un problema c'era, ed era grave. Un problema che riguardava l'unica persona che per quanto incarnasse in sè tutto ciò che lei aveva da anni e con assoluta determinazione voluto rifiutare, era anche l'unica che aveva sempre rispettato, con cui si sentiva legata nel profondo. E che in questo la ricambiava totalmente.

"Nonno sta davvero male, allora?" Domandò, con voce fievole. 

La signora Blanchard le posò delicatamente una mano sulla sua, e sorrise, incoraggiante. Per la prima volta Lenys riconobbe nei suoi occhi, limpida e palese, una bugia.

"Forse si riprenderà."

E così, decise.

"Fai rientrare mamma e papà. Dobbiamo organizzarci per la partenza."

***

C'era un silenzio innaturale nella stanza. Ogni dove andassero, lui e i suoi amici, portavano sempre scompiglio e devastazione, e sorrise al pensiero che per un po' di tempo ci sarebbe stato lui, da solo, dentro quella stanza, coi suoi pensieri. Gli piaceva ritagliarsi il suo momento di relax, tra le sollecitazioni incalzanti dello staff, la scaletta di canzoni da provare, e il frastuono della folla acclamante e delirante durante i concerti.

Sì, c'era un momento della giornata in cui Georg voleva distendersi, respirare un po' di sana solitudine. Ed era esattamente in quei momenti che qualcuno trovava il modo di irrompere diseducatamente nella sua meravigliosa bolla immaginaria. Quasi sempre quella persona era la stessa.

"Chi è?" Sospirò, incrociando le gambe e mettendosi seduto. Nella sua mente vagliò tutti i modi possibili per far capire a chiunque lo stesse disturbando che avrebbe fatto meglio a togliersi subito dalle scatole. 

Bill entrò senza nemmeno rispondere. Sul suo viso un'adorabile espressione corrucciata, gli occhi nocciola brillanti e liquidi, le labbra incurvate all'ingiù. Restò lì, ritto e steso come un fuso, le spalle tese. "Sono molto preoccupato." Esordì, come se il suo interlocutore tenesse il filo dei suoi pensieri. Lo guardò per alcuni istanti, facendosi teso anche lui. 

Bill era una persona molto sensibile, e spesso il passo perchè la sua sensibilità si tramutasse in ansia sembrava breve quanto un battito di ciglia. In quel caso anche lui credeva che fosse giusto preoccuparsi. Comunque non sarebbe stato saggio da parte sua mostrarsi troppo turbato, o gli avrebbe dato ragione di agitarsi. Invece gli sorrise, a mezza bocca, con uno sguardo comprensivo e ammonitore insieme.

"Lei sta bene. E' stato un incidente, Bill."

"No, è stata una mia colpa. Se non fossi stato così incosciente..."

"Non serve che tu te ne faccia una colpa, adesso. Ormai è successo. I medici sono ottimisti. Si riprenderà presto, in un paio di giorni sarà di nuovo in piedi."

Le sue parole non sortirono alcun effetto sull'umore di Bill. Forse non le aveva nemmeno ascoltate, troppo preso dal flusso veloce dei suoi pensieri. Il suo sguardo era ancora fermo nel vuoto, e la sua bocca piegata.

"Bill..." Lo chiamò, teneramente. "Non tormentarti così." Gli fece cenno di raggiungerlo lì sul letto, battendo con una mano sul materasso. Quasi gli sembrò di vedere l'accenno di un sorriso piegargli le labbra. Se le era martoriate mordendole, come sempre quando era particolarmente nervoso per qualcosa. Bill si avvincinò con passo lento e stanco, ma lo guardò fisso negli occhi mentre il tragitto diventava sempre più breve. Georg non volle leggere quelle domande nei suoi occhi, ma gli fece spazio, come se gli stesse rispondendo implicitamente. Quando furono entrambi seduti, sostennero l'uno lo sguardo dell'altro. Bill non voleva darsi pace.

"Non costringermi a chiamare tuo fratello." Lo minacciò, severamente.

"Tom non potrebbe fare niente per farmi stare meglio al momento, ho bisogno di te."

Georg si impedì di assumere un'espressione intenerita. "Però potrebbe darti una bella strigliata." Ghignò. Bill sbuffò, reprimendo anche lui un sorriso complice. Poi levò via una ciocca di capelli dal viso con fare altezzoso, lo spinse sul cuscino con l'altra mano, e si accoccolò sulla sua pancia. Grugnì: "Bell'ingrato. Sono venuto da te, e mi cacci via." Gli occhi di Georg si fecero birichini. "Ti sei appena sdraiato su di me, e sono io l'ingrato. Fai silenzio, e dormi che domani è una levataccia." Bill alzò lo sguardo su di lui, e gli sorrise finalmente apertamente. "Mi lasci dormire qui?"

"Perchè, te ne andresti via?" Gli rispose l'altro, ma i suoi occhi erano ridenti e accondiscendenti.

"Non ci penso minimamente." Mugulò Bill, accucciandosi più su, sul suo petto. Georg sistemò un braccio sotto il cuscino sbuffando una risata, e scosse il capo. "Spegni la luce, piattola."

Ma Bill dormiva già; sembrava essersi finalmente rasserenato.

***

"La riportiamo a casa."

"Lei non vuole."

"E' stata lei a decidere di venire con noi, oggi, Gigi."

"Non è vero."

"Se non vuoi credere a noi, chiedilo a lei. Ti fidi di lei, giusto?"

"Lenys non lo farebbe mai."

"Partiamo domani mattina presto. Ora noi andiamo in albergo, questa puzza è insopportabile. Non stressarla, il medico ha detto che deve risposare. A presto, cara."

"Speriamo di no."

Gigi stava ripercorrendo quella conversazione da lunghi minuti. Si era lasciata cadere sulla sedia, quando aveva scoperto che le parole di quella megera erano vere: Lenys sarebbe partita l'indomani con loro per tornare in Francia, e forse non sarebbe più tornata. Ed era stata lei stessa a deciderlo. L'aveva scelto. L'aveva voluto.

Non le sembrava possibile che dopo due anni in cui aveva fatto tanto per sè stessa, la sua migliore amica fosse ricaduta in quella maledetta trappola. Continuava a pensare alle sue parole, ma non vi trovava alcun senso. Se c'era una cosa di cui era stata totalmente certa fino a quel giorno, era che lei non sarebbe mai stata in grado di fare la vita della sua famiglia.

"Devo farlo per mio nonno, Gigi. Credo che stia morendo." 

"Tuo nonno doveva morire dieci anni fa, ed è ancora vivo e vegeto."

"Non essere cinica. Ora sono certa che sia diverso. Tornerò, te lo prometto."

"Non promettere se sai di non poter tener fede a quello che dici." 

Ma aveva dovuto ricredersi. 

Era tutto vero.

"Gigi, questa decisione è stata difficile da prendere, non farmi sentire anche in colpa." 

"La vita è la tua, devi farne ciò che credi sia meglio per te."

"Lo sto facendo."

"Stai facendo quello che è meglio per loro."

"Non giudicarmi, per favore."

"Non ti giudico, Lenys. Ti lascio libera, perchè se vuoi davvero il bene di una persona, sai quando devi lasciarla andare via." 

Lei non l'avrebbe tenuta in gabbia. Non come loro. Anche se arrabbiata, era furiosa, era delusa. E avrebbe voluto tenerla con lei anche solo per dispetto. 

"Non mettere il dito nella piaga."

"Ora vado a casa, devi riposare, hai una pessima cera. Fatti sentire, va bene?"

"No, Gigi, resta ancora." 

"Non posso, l'orario di visita è finito."

"Gigi..."

"Niente lacrime, domani passo a salutarti."

"Ti prego, non avercela con me."

"Buonanotte, Lenys."


***

New York era una città infinita, Gigi era stata innamorata di quella infinitudine. Ma non quella notte. Quella notte New York le sembrava una enorme distesa senza volto, un rumore intermittente che disturbava il suo silenzio. Mentre marciava senza una meta, senza trovare al suo cammino un barlume di senso. 

Niente lacrime. Niente lacrime. 

Non sapeva dove stava andando. 

No, vaffanculo.

Lei non piangeva mai, ma non quella notte. Lontano da tutti, nella folla, nel caos, sotto le luci, nel buio degli occhi sconosciuti, infondo, poteva anche piangere. 

Perchè lei andava via. E chi sapeva, se sarebbe mai tornata?

Unica speranza nel domani.

E se la notte porta davvero consiglio, forse deciderà che il suo posto è questo qui, e capirà che sta per fare una gran cazzata. 

Forse.  

Ma la vista di un letto nudo, la mattina seguente, decretò la netta fine delle sue speranze. 

Mentre un'infermiera compilava dei dati in assoluta concentrazione, senza notarla, una donna sistemava la sua stanza, che ancora sapeva di lei, aveva il suo odore, i suoi fiori, le cartacce della cioccolata, la busta di marshmellows, vuota. Tracce della sua passata prensenza. Ma lei non c'era. 

Lenys era andata via, e senza salutarla. Non le aveva detto nemmeno ciao, nemmeno ti voglio bene, nemmeno niente. Probabilmente a quell'ora era già su un volo per l'Europa. Un volo per un futuro che fino al giorno precedente aveva scelto di rifiutare, che non era il suo, e lei stessa lo sapeva perfettamente. Perchè quel giorno che l'aveva conosciuta, col suo vestito azzurro, i capelli ancora castani, gli occhi inondati di lacrime, quel giorno Gigi, in lei, aveva visto un abbandono. La voglia di lasciare tutto e scappare via lontano. 

Lei l'aveva presa e portata con sè, come se non fosse stata lì per nessun'altro motivo al mondo. Avevano vissuto esperienze pazze e ordinarie, insieme, come due amiche comuni. 
Come persone semplci. Sì, Gigi pensava che Lenys, dietro quel nome importante, fosse davvero una ragazza candida e inguenua, vera, genuina, che con quella gente non avrebbe mai avuto niente che vedere. 

Ma forse si era sbagliata. 

Forse Lenys è solo come tutti gli altri. 

Era arrabbiata, furibonda, decisamente fuori di sè. Nei suoi occhi verdi, un tremore annebbiava tutto, mentre quell'uragano di pensieri la lasciava indifferente a tutto ciò che le accadeva intorno. 

Come aveva potuto illudersi di poter valere più di un patrimonio milionario? Insomma, era solo una comune, ordinaria, ragazza americana. E fino a quel credeva di essere stata speciale per lei, esattamente grazie a questo. E, però, effettivamente, quanto poteva durare?

Prima o poi, davanti a un futuro luminoso, chiunque volterebbe le spalle a un dozzinale modo di vivere.

Ma stava forse dando la colpa a sè stessa? 

No, invece. 

Era di Lenys, la colpa. Era stata lei stessa, in perfetta autonomia, a scegliere di partire per gli Stati Uniti, era stata lei a decidere di vivere con lei, come lei.  Gigi se ne era presa cura con premura e attenzione. Ma avrebbe dovuto lasciarla perdere, perchè a quanto pareva i suoi erano stati solo sforzi inutili. 

Che razza di ingrata. Volta le spalle alla famiglia, ora a meNeanche fossi stata un terribile sbaglio.

Ma le sembravano inutili tutti quei pensieri, quelle giustificazioni, quelle bugie, nella sua testa.    

In realtà sapeva bene come si sentiva. Non oltraggiata, nè offesa, nè arrabbiata.

Era solo triste, era solo a pezzi.

Sì, infatti stava di nuovo piangendo.

"Buongiorno, amica di Lenys."

Una voce dolciastra e sonora alle sue spalle la fece sussultare. 

Quella voce...

Prima di voltarsi, Gigi, pregò che non rispondesse al nefasto individuo che malauguratamente poteva essere l'unico ad esserne il detentore.

Sentì il suo volto ceruleo infiammarsi di fastidio, asciugò in fretta una riga di pianto, con le dita. Quando alzò lo sguardo, e inquadrò la suprema imponenza di una cresta corivina, un lampeggiante sguardo castano, una lucida giacca di pelle, e un paio stivali di camoscio a giro coscia, non potè frenare un secondo sussulto: "Tu! Razza di cataclisma umano, che diavolo ci fai qui?" Ruggì.

Ci mancava solo che la giovane onnipresenza di Bill Kaulitz venisse a dare una nota di colore alla sua giornata di sinfoniche armonie variopinte.

Lo sguardo nocciola del frontman venne attraversato da una luce di sorpresa. 

"Sono venuto a salutare Lenys. Ieri non ho potuto..." Si giustificò da subito, pur restando ritto e rilassato di fronte a lei, con in mano il suo bel mazzo di fiori giallo canarino.

Questa tipa deve farsi una cura di psicofarmaci belli potenti.

"Ah, nemmeno io ho potuto, e soltanto perchè per colpa tua e della tua patologica demenza la mia amica non solo è finita in ospedale, ma adesso i suoi genitori l'hanno anche riportata lontano mille milioni di chilometri da qui."

Bill notò che la ragazza parlava tra i denti, come se si stesse trattenendo dall'urlare a squarciagola, o dallo scaraventare ogni elemento solido presente nella stanza. Probabilmente compreso lui. Quindi optò per un approccio paziente e sereno. "Che cosa significa, esattamente, mille milioni di chilometri?" Domandò.

Gigi alzò le mani al cielo, reprimendo un ringhio in gola, e poi le portò ai disordinati capelli castani, scompigliandoli. Era evidente che non avesse chiuso occhio quella notte, per via delle lunghe ombre scure sotto lo sguardo virente, sulla pelle chiara e sciupata.

"Francia, mio caro signore. Europa! Un altro continente!" Esclamò, come se fosse ovvio.

"Aspetta." Bill era decisamente più che confuso, dopo una simile sconcertante rivelazione. "Mi stai dicendo che Lenys non solo non è più qui, ma è anche fuori dai confini del Paese?"


"Oh, ma che bravo! Allora non sei soltanto dotato di altezza e capelli; c'è anche un barlume di vita sotto quel pennacchio che porti in testa!" Soffiò, bieca e rapida.

Poi si morse le labbra. Forse stava esagerando. Ma era furiosa. Era arrabbiata con lui, e non poteva negarlo, e non le interessava che si trovasse a parlare con l'essere di dubbia sessualità che trascinava le masse femminili come un mucchio di estrogeni modificati in laboratorio, e che faceva milioni a palate per il suo bel culetto e qualche mossa da checca repressa.

Era tutta colpa sua.

"Scusa, ma perchè te la prendi con me?" Bill alzò le spalle e la schiena, erigendosi in tutto il suo metro e novanta. La sua voce cambiò completamente tonalità, era chiaramente seccata, eppure anche interdetta e turbata. C'era una strana innocenza nei suoi occhi nocciola, qualcosa che con il suo aspetto stonava, però sembrava pure cadere a pennello ad uno sguardo più attento.

Ad ogni modo Gigi gli lanciò un'occhiata sferzante.

"E me lo chiedi? Quando hanno investito la mia amica, tu creatura celeste, stavi facendo shopping in una delle strade più costose di New York City, lei stava lavorando per mantenersi la vita, gli studi, e un monolocale, in modo da non permettere ai suoi assurdi familiari di soffocarla con le loro smanie di potere. Ora, quei suoi assurdi familiari, a causa della tua dannosa, sciagurata, deleteria e avversa stupidità, sono venuti a prenderla direttamente da Riccolandia, e l'hanno trapiantata a forza nel loro mondo dei sogni. Il che mi riporta al fatto che per la tua sovracitata 'disattenzione', sono qui a chiedermi come, se, e quando potrò mai rivedere la mia migliore amica. Ecco, perchè me la prendo con te!"

"Non ci capisco niente." Ancora lo sguardo ingenuo e candido.

"Non avevo dubbi su questo." 

Il ragazzo si lasciò scivolare addosso anche quell'ennessima denigrazione, e invece domandò: "Sei sicura che non le abbiano semplicemente cambiato stanza?"

Nelle iridi verdi di Gigi si posò una macchia di rassegnazione.

"Certo che ne sono sicura." Sibilò, scorbutica. Le stava forse dando dell'idiota?

"Ho capito: vado a chiedere in assistenza." Bill le voltò le spalle, e si preparò ad incamminarsi verso il corridoio, quando Gigi perse completamente la pazienza.

Ma chi si crede di essere, questo?

"Senti Divina onnipotenza, la situazione attuale è abbastanza distastrosa anche senza che la componente egocentrica di te venga a mettere altro subbuglio." Sbottò, a voce alta.

Bill si voltò ancora verso di lei, apparentemente con assoluta calma. La fissò intensamente per più secondi, osservando il suo sguardo farsi sempre più acceso e di sfida, e poi rispose: "E' sufficiente la tua di componente egocentrica, che la mia, e dico la mia, non riuscirebbe ad oscurare neanche tra cento anni. Focalizzati sul problema, piuttosto." 

"Non c'è proprio un bel niente su cui focalizzarsi. Ha deciso così, sono riusciti a convincerla." Replicò lei, immediata. 

Era stupita dal suo repentino cambio di atteggiamento. Evidentemente la signorina sotto lacca e trucco ha anche un bricolo di fegato.
"Sono i suoi genitori, forse sanno ciò che è meglio per lei." Osservò lui, semplicemente. 

"No, sanno quello che vogliono, e a quanto pare mi sbagliavo a credere che per una volta non sarebbero riusciti ad ottenerlo." 
Lo sguardo del ragazzo si fece ancora diverso; ora era solo interessato. "Sono persone così orribili?" Chiese. 

"Eufemismo." 

"Stronze?"

"Enorme eufemismo."
"Vili, infami e abbiette?"

"Ecco, ora ci sei vicino."

Bill tirò fuori un'inaspettato sorriso divertito, che abbagliò Gigi non poco, anche se solo per un istante. 

Oh, ragazzo mio, vacci piano con quegli espedienti di mercato.

"Perchè ce l'hai così tanto con loro?" Le domandò. 

Gigi lo fissò ancora per qualche secondo, Bill aveva disegnata in volto un'espressione genitile, di nuovo. Un'espressione adorabile, anzi.

Troppo adorabile. 
"Non sono cose che ti riguardano." Soffiò, epigrafica. 

"Oh, scusa se cercavo di capirti e consolarti." Lui incrociò le braccia al petto e fece schioccare la lingua sonoramente, come un bambino. I suoi occhi d'oro erano pieni di offesa e rammarico. 
"Caro, forse la tattica del labbruccio tremulo e gli occhioni teneri funziona con il resto del mondo, ma con me no, quindi risparmiati per le scene." Fece lei, assottigliando lo sguardo verde scuro. Pensava di conoscerli più che bene i ragazzini del Jet set. Qualche mossa da strapazzo e credevano di farla in barba al mondo intero.
Peccato che con me non l'avrai vinta così facilmente, dolcezza.

"Hai ragione tu, sai? Sono anche io una persona vile, infame e abbietta." La voce con cui il ragazzo parlò, però, fece vacillare per un attimo la sua integrità. Era come se lei l'avesse schiaffeggiato in piena faccia, come se si stesse davvero chiedendo cosa aveva mai potuto farle di così deplorevole per meritare un simile trattamento. Magari non era abituato alle manifestazioni d'odio, assuefatto ormai dalle reazioni d'estasi e venerazione che si trascinava dietro da quando non era che un moccioso rocker in erba. 

"D'accordo, mi dispiace." Riuscì a dire, senza spiegarsi neanche lei il perchè di una simile reazione inconsulta. "Sono fuori, adesso. Non so neanche perchè sto parlando con te, stavo andando via." 

Infatti prese a camminare di corsa verso la porta. Non mi plagerai. No, non ci riuscirai, infimo ragazzino spara Ossitocina! 

"Ferma, aspetta." Esclamò lui, preso in contropiede dal suo scatto improvviso. Non osò sfiorarla, ma il suo tono pareva più una preghiera che un ordine. 

Aveva dei bruschi cambi d'umore. Un attimo prima sembrava offeso, poi dispiaciuto, poi divertito, e ancora arrabbiato. Che i suoi filtri emozionali avessero qualche oscuro, maledetto difettaccio? 

"Che altro c'è? Non lo voglio l'autografo." Soffiò, esasperata. Bill mise una mano sui fianchi inclinando il capo. "Spiritosa." Bofonchiò. 

"Sono serissima. Non c'è più niente da fare qui. Me ne torno a casa." Ancora una volta lo scavalcò, e ancora una volta lui la fermò. 

Che razza di zecca rompipalle.

"Ascolta, c'è solo una cosa che puoi fare se sei davvero così convinta che la Francia non sia il posto giusto per Lenys." Disse, con tutta l'aria di saperla lunga sulla questione.
"Illuminami." 

"Se lei non può restare a New York, tu devi andare a prenderla e riportarla a casa. Come dice il detto? Quello di Maometto e delle montagne..." Lo sguardo di Bill si perse per un momento nel vuoto, mentre le sopracciglia si arricciavano in un'espressione dubbiosa, e con le dita gesticolava manifestamente. 
Gigi represse un sospiro frustrato. "Credi che per noi comuni mortali sia così facile?"

"Cosa c'è di difficile, scusa? Prendi un aereo e vai a prenderla." 

E' come schioccare le dita, per te, vero, Milady? 

"Non mi va di discutere questa cosa con te, è assurdo." Cercò per la terza volta di superare la sua allampanata persona. Ma il frontman la bloccò sul posto con una dolce smorfia di colpevolezza nel volto. "Oh, credo di aver capito il tuo genere di problema." Buttò lì, mordendosi il labbro inferiore, carnoso, e morbido. 
La ragazza lo fissò, retorica. "Quello che le Dive come te non avranno mai, ma con cui noi della plebe dobbiamo fare i conti per sopravvivere in questo schifo di mondo." Soffiò, spicciola. 
"Dollari?" 

"Centrato." 

Ancora una volta il volto del cantante si aprì in un sorriso divertito, dolce e malizioso insieme. "Offendo la tua sensibilità se azzardo l'ipotesi di offrirti io stesso il biglietto?" Le chiese, con voce vellutata.
Gigi cercò con tutte le sue forse di reprimere il sorriso che voleva liberarsi dalle sue labbra strette in una buffa smorfia. "Neanche fare il ruffiano ti farà apparire
migliore ai miei occhi." Sibilò, felina. 

"Ah, ma sei impossibile! Come faccio a dimostrarti che sono sincero?" 
"Non puoi farlo, lascia stare."

Bill restò un momento in silenzio, teso. Nella sua altezza la sovrastava, ma cominciava a sentirsi piccolo di fronte a lei. Era come trovarsi faccia a faccia con un muro
di cemento armato. Combatterlo era impossibile, l'unica cosa da fare, era restarvi fermo di fronte, e sperare che bussando si aprisse un varco che lo lasciasse entrare.

"Gigi, per favore, accetta. Lo faresti per Lenys. Metti da parte l'orgoglio." La pregò, cercando di sembrarle il più limpido e sincero possibile. Gigi lo fissò di sottecchi, cercando di scoprire in lui un secondo fine. "Non è all'orgoglio che non voglio cedere." Confessò. 

"E' all'idea che ti sei fatta di me?" 

Lei sbuffò sonoramente. "Ecco che il tuo egoicentrismo colpisce ancora. La questione va ben oltre Bill Kaulitz. C'è anche altro, a questo mondo, che non sia tu." 

Bill alzò gli occhi al cielo. Era abituato a sentirsi dire quelle parole, non gli faceva più quasi nessun effetto. E quella ragazza era talmente inflessibile e accanita che quasi neanche valeva la pena di farle cambiare idea. Voleva solo che lei tornasse da Lenys, per il momento.

"Lo so benissimo, e non è a te che devo venire a dimostrarlo. Hai una certa distorta idea di quello che siamo io e gli altri della band. Ti sembriamo dei poveri sfigati messi su da un discografico e paio di bravi musicisti, ma in ogni caso ce l'abbiamo anche noi divinità olimpiche, un cuore. Vogliamo aiutarti. Prendi almeno in considerazione la proposta." Disse.

"I tuoi amici se ne fregano di me o di Lenys, sono solo felici e contenti che tu sia stato miracolosamente tirato fuori dalla merda."

"Ora ci offendi."

"Allora siamo pari."
"Scusa, non era mia intenzione."

"Non scusarti, per favore." Nello sguardo di Gigi c'era solo un'assoluta frustrazione.

"Ti urta anche la gente che fa uso delle comuni regole per la civile convivenza?" Bill stava perdendo la pazienza. Detestava le persone imperscrutabili. Ne conosceva solo una, che con lui non aveva mai avuto segreti. 

"Ho detto per favore. Ma me lo rimangio, sei assolutamente detestabile e odioso, e con le persone come te non interagisco pacificamente." 

"Accetta, Gigi. Lo sai che devi farlo." Lui le si avvicinò di un altro passo, e lei di nuovo arretrò.

"Ma tu non ti arrendi mai?" Sbottò, esacerbata. 

"Non finchè non ottengo quello che voglio." Un sorriso determinato accese il viso del ragazzo, e i suoi occhi brillarono di sfida. 

"Sei proprio una fottuta celebrità, Bill Kaulitz, capriccioso fino al midollo." Ringhiò, ma ormai arresa.

Come diavolo sono arrivata a farmi pregare per avere un favore da Bill Kaulitz dei Tokio Hotel?

"E anche molto bello, ricco, affascinante e generoso. Ora se non ti dispiace ho una partenza da organizzare. I miei agenti ti contatteranno. Hai un telefono, vero?"

"Sparisci dalla mia vista prima che cambi idea." 

Bill saltellò sul posto per un momento, mentre il suo sorriso più fanciullesco e zuccherino gli illuminava il volto pallido, quasi marmoreo.

"Il numero puoi lasciarlo alla reception." Trillò, mettendo a freno la sua eccitazione.

"Agli ordini, Madame." Sussurrò roca lei, per tutta risposta. 

Ho appena compuito una clamorosa, colossale, stronzata. E già so che me ne pentirò, molto, molto, amaramente.

"A domani, Gigi." Bill le si avvicinò, e agitò le dita affusolate per salutarla. Le voltò le spalle e si incamminò verso la grande porta verde ospedale.

Lei restò a fissare il letto vuoto di Lenys. Sorrise nascostamente, e sberciò: "A domani, vostra molesta grazia." 

Poi si rese conto che aveva mancato di dirgli qualcosa. Si voltò per guardarlo negli occhi. 

"Ah, e...Bill?" Lo chiamò. 

Non sorridergli, non sorridergli.

Lui si voltò subito, con ancora quel sorriso a luccicargli negli occhi. "Sì?"

"Grazie." E gli sorrise. 

***

"Scusi? Lei è il signor Kaulitz?"

Bill era proprio sulla soglia dell'uscita, quando una voce femminile e roca lo chiamò. Si voltò, con in volto un'espressione gentile. Quella di quando veniva sorpreso da una fan.

"In persona. Ha una penna? Non ce l'ho con me, stamattina." Disse, sfoderando la sua aria più diplomatica. 

"Una penna?" La donna che gli stava di fronte era bassa e tarchiata, coi capelli corti e rossicci, un paio di occhiali verde pastello calati sul naso a patata. 

Non era decisamente la classica figura di fan dei Tokio Hotel che Bill aveva in mente, ma nella sua carriera ne aveva vista anche di esteticamente ben peggiori.

"Per l'autografo." Rispose, battendo le ciglia. 

La signora abbassò il capo sorridendo di sottecchi. "Ah, no, c'è una lettera per lei, veramente."

Sul volto di Bill passò una smorfia di sorpresa; "Oh" Sospirò, timidamente. E subito chiese: "Una lettera?"

Lei annuì, rapida. "Da parte della ragazza del quinto piano, che è andata via stamattina."

"Lenys?"

"Lenys Blanchard, esatto. Eccola." L'infermiera tirò fuori dalla tasca del grembiule rosa una piccola busta, e gliela porse. 

"Grazie mille, buona giornata." Bill le sorrise cortese, afferrandola, eccitato. 

"Ehm, signor Kaulitz?" Lo chiamò lei, con voce impacciata. Il cantante si voltò curioso. "Mi dica." 

"Per quell'autografo...mia nipote sarebbe proprio contenta se..." La donna sorrideva con imbarazzo. Bill ridacchiò e si avvicinò. 

"Nessun problema, si figuri." Firmò rapidamente un post.it arancione, e glielo incollò divertito sulla spallina del camice. Le strizzò l'occhio, e lei arrossì. 

"Saluti sua nipote. Arrivederci." 

"Torni presto!"

Bill era un fascio di curiosità. Non riuscì neanche ad arrivare alle porte della struttura, prima di aprire la busta gialla, e tirare fuori il piccolo biglietto. Una scrittura ordinata e veloce aveva scritto poche parole: Grazie del biglietto, e del pensiero, Bill. Non sentirti in colpa, è andata bene così. Al mondo servi vivo. Io torno a casa, per le cure.  Il mio numero di scarpe è trentasei e le adoro di pelle. Stai bene. Lenys.

***

La sala della casa, era il posto preferito della band, comoda e confortevole. Era lì che i ragazzi trascorrevano gran parte delle loro ore libere, a chiacchierare, o semplicemente a poltrire. Infatti, Bill e Georg, appena rientrati a casa dopo un pomeriggio di shopping, erano già splamati sul divano, con due tranci di pizza in mano, facendo zapping. 

"C'è solo spazzatura." Sbuffò Bill, limandosi le unghia. 

"C'è un film splatter." 

"Appunto, spazzatura. Ho comprato un biglietto aereo all'amica di Lenys per andarla a trovare, oggi." Buttò lì il cantante, come se stesse commentando qualcosa di appena rilevante. 

Gli occhi del bassista strabuzzarono per un momento fuori dalle orbite. "Scusami?" 

"Ehi, ragazzi; Io e Gus andiamo al Roxy. Vi unite a noi?" Tom irruppe nella conversazione con un tempismo ottimo. Indossava dei vestiti con una parvenza di decenza, quindi probabilmente il Roxy era un posto abbastanza ricercato per gli standard di suo fratello. 

"A fare?" Gli chiese, Bill. 

"C'è il concerto di un gruppo figo."

"Il tuo concetto di figo lo conosco; io e Georg restiamo a casa." Bill sorrise a Georg. "Vero?" Gli sussurrò. 

"Signor Listing, mi delude." Ridacchiò il chitarrista. "Resta a casa a fare la calzetta con Nonna Kaulitz invece di venire a divertirsi con i suoi giovani e balzanti amici?"

Georg fece cadere il suo sguardo sul frontman, di fianco a lui, che gli sorrideva sfacciatamente. "Per questa sera farò un'eccezione." Si arrese. Era stanco, sì. Sarebbe rimasto a casa a vedere la tv con Bill.

"Come preferisci, ma alla prossima intervista non mi risparmierò dal commentare la tua recente condotta abulica." Sberciò Tom. I suoi occhi nocciola ridevano divertiti. Adorava stuzzicare Georg di fronte alle telecamere, e vederlo fremere per picchiarlo, nell'assoluta impotenza di farlo. 

"Tu non sai neanche che significa la parola abulica, Tom." Commentò Bill distrattamente. 

"Perchè tu, sì?" Il gemello inarcò un sopracciglio, beffardamente. 

"No, ma sono sicuro che il tuo irrisorio vocabolario non contenga questo termine aulico."

"Ma senti come parla!" 

"Come una persona civile." Sberciò il fratello. 

Gustav e Georg si scambiarono uno sguardo d'intesa, poi pacatamente il batterista disse: "D'accordo, Tom leviamoci dalle scatole. E' tardi." 

"A domani, ragazzi." Sorrise Georg, scuotendo il capo. Tom si infilò al volo l'enorme giacca felpata, e inarcò un sopracciglio, boriosamente. "Sì, quando torneremo a casa voi due starete già facendo la ninna." Ghignò. 

"Sparisci, rompipalle." Bill gli lanciò contro una patatina. 

"Mi macchi tutto, scemo!"

"Sono sicuro che c'è già una macchia di rossetto da qualche parte." Bill se la rideva sotto i baffi. Toccare i punti deboli di Tom lo divertiva da morire. 

"Come siamo spassosi, stasera." Sbottò suo fratello, con una smorfia. 

"Gustav, tienilo d'occhio." Fece Georg, strizzandogli l'occhio. 

"Come tutte le volte." Gustav battè una mano sulla spalla del chitarrista, e salutò gli altri con la mano. 

"Notte, notte, stelline. Fate i bravi mentre non ci siamo!" Strillò Tom dall'ingresso.

Quando i due amici furono fuori dall'appartamento, Georg si voltò verso Bill, attento e severo.

"Fammi capire bene; tu hai invitato l'amica di quella ragazza in Francia?" Gli domandò. Non poteva credere che l'invadenza e la vena suicida di Bill avessero toccato simili, vertiginosi picchi in soli tre giorni. Prima a momenti si buttava sotto un taxi, poi era andato a trovare la ragazza che l'aveva salvato sotto esplicita richiesta di non farlo, ora comprava biglietti aerei a perfetti sconosciuti. 

Il cantante annuì, tranquillo. "Esatto." Disse. 

Gerog incrociò le braccia la petto, con una smorfia. "E l'avresti fatto perchè?"

"Perchè dovevano rivedersi!" Esclamò quello, con fervore, ma come se fosse del tutto ovvio. In viso la solita espressione capricciosa. 

"O perchè tu volevi rivedere loro?" Lo inchiodò con uno sguardo astuto. 

"Oh, Georg, andiamo. Che vuoi che me ne importi?" Bill sventolò una mano, distrattamente. 

"Raccontalo a qualcun'altro." Negli occhi verdi di Georg, Bill vide passare una scintilla di fastidio anche piuttosto evidente. Cercava di ingannarlo con un sorriso disinvolto, ma ormai lo conosceva troppo bene. Si sentì in dovere di giustificarsi. 

"Non sono neanche riuscito a parlare con Lenys, e Gigi è una ragazzina impertinente con cui non potrò mai avere niente a che vedere, a meno che non si tratti di sputarci in faccia insulti e denigrazioni reciproche." Disse, serio. 

"Una ragazza che ti insulta?" Rise Georg, colpito. 

"Sì lo so che è incredibile, perchè andiamo chi è che potrebbe parlare male di me? Seriamente, chi potrebbe? Nessuno!" Bill sembrava serissimo. 

Il bassista scosse il capo, ormai tristemente abbandonato alla consapevolezza di quanto bizzarro e assurdamente altero potesse essere il suo migliore amico.

"Bill, sappiamo tutti e due che hai questa pessima qualità che si chiama altruismo, o più precisamente sappiamo che sei una persona terribilmente sconveniente e folle. Ma stavolta hai davvero superato te stesso. Ben e David non saranno per niente contenti." Volle metterlo in guardia, ritornando al punto. 

"Ma se dicono tutti che sono un incorreggibile egoista!" Lo sguardo di Bill si fece pungolato. Mise un lieve broncio. 

"E lo sei, con qualche notevole eccezione." Georg gli sorrise. 

Lui alzò gli occhi e li fece entrare nei suoi, serio. "Tu pensi che abbia sbagliato?" Gli chiese. 

"Io penso che ci cacceremo nei guai."

"Quindi, sì."

"Quindi se ti serve qualcuno che deve coprirti l'hai appena trovato, ma è l'ultima volta." Si sforzava di restare serio e severo, ma se Bill continuava con quelle facce da martire era impossibile. 

"Oh, Georg, come si può non adorarti?" Battè le mani, allegro. 

"Come si può non detestarti, oh impareggiabile ruffiano?" Georg alzò un sopracciglio, scaltro. 

"Nessuno mi chiama più per nome, ormai sono per tutti un impareggiabile qualcosa!" Fece il cantante, di nuovo imbronciato. 

"Sicuramente non sei una persona comune."

Ed era verissimo. Bill era l'ultima persona al mondo che si potesse dire normale. Look a parte era un improbabile misto tra una scapestrata donna in carriera, un cantante bello e dannato, una diva anni ottanta, e un bambino di otto anni. Bastava aggiungere qualche pennellata di comica superbia, trasgressivo sex appeal, occhi luccicanti di un cucciolo in amore, ed ecco il Bill Kaulitz che solo pochi avevano imparato a conoscere. 

"Questo l'abbiamo sempre saputo." Il volto del cantante si dipinse di superiorià, ma un sorriso lo tradiva. 

Georg non sapeva spiegarsi ancora perchè non riuscisse mai a muovergli un rimprovero degno di tale nome. Però alzò gli occhi al cielo, e alzò il volume della tv.

"D'accordo, adesso comincia il film, quindi zitto." Glo ordinò, brutale. Bill si mise a braccia conserte, accoccolandosi sotto la coperta di pail. 

"Ma che gusto c'è senza i miei commenti?" Sbuffò. 

"Quello di una visione tranquilla."

"Ecco, nessuno." 

Georg gli prese la testa e la sistemò sul cuscino che stava sulle sue gambe, per farlo addormentare. Sapeva che sarebbe crollato in pochi minuti.

"Bill, taci." 

E Bill tacque.


Note dell'autrice: Oh, finalmente anche questo capitolo ha trovato una fine! Ringrazio per la paziente attesa e per la presenza di alcune persone, che sicuramente sanno di essere qui chiamate in causa. Le recensioni sono sempre ben attese. Grazie di aver letto, e seguito la storia.
E un grazie fa in particolare a Ladynotorius e a chi mi ha voluto tra le storie scelte. Sono commossa e grata per questo regalo. Devo tutto a certe brillanti scrittrici, senza le quali sarei ancora la superficiale Loryherm di qualche anno fa. Grazie anche a Eli, per avermi lasciato usare una sua esilarante citazione. Baci, al prossimo capitolo.
  
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