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Autore: Li_chan    08/10/2003    4 recensioni
Per Hikari è giunto il momento di fare i conti con il passato e affrontare il presente... In amore cosa vuol dire per sempre?
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il viso del mio vero amore

E’ notte inoltrata, ormai. L’aria frizzante della notte e i raggi d’argento di una pallida luna, che si erge timida nelle sue vesti corvine e fluttuanti, fanno capolino dalla finestra accostata.
Mi alzo, senza fretta, la gonna che scivola silenziosa sul pavimento. Mi stringo addosso il cardigan di lana e mi fermo di fronte alla veranda, tenendo tra le mani una tazza di tè alla frutta, il mio preferito. Ho le mani gelide, e le dita s’intrecciano nervose sopra la superficie liscia e calda, nel tentativo forse goffo di scaldarsi un poco. Una ciocca di capelli mi ricade sul viso, e la scosto meccanicamente, mentre i miei occhi cercano, e trovano, la tua figura placidamente addormentata nel mio letto.
Steso bocconi, con un braccio mollemente adagiato affianco al busto e l’altro che stringe il cuscino, i capelli che offuscano in parte il viso immerso nella serenità del riposo, rimango immobile a guardarti.

Quante volte ti ho preso in giro per i tuoi capelli lunghi, da ragazza, che mal si sposavano con la tua vita da atleta, anzi da campione!
Tu scuotevi la testa, sorridendo, il viso nascosto sotto la visiera del cappellino, buttandoti il borsone su una spalla con noncuranza. E io rimanevo dietro di te, e ti fissavo senza farmi scorgere, proprio come faccio adesso.
La verità era che i tuoi capelli lunghi, lucenti e sempre spettinati, mi piacevano da morire. E te li invidiavo, perfino. Le mie ciocche sottili non sono nemmeno paragonabili alle tue; e allora facevo quello che fanno molti ragazzini per non far comprendere quanto amino o ammirino qualcosa: la denigrano.

Peccato che non abbia più tredici anni. Tutto era più facile, allora, perfino la scelta del primo ragazzo. Le mie compagne di classe mi hanno invidiata ferocemente, lo so, perchè ero riuscita dove molte di loro avevano fallito: diventare la ragazza fissa di H. Per uno strano scherzo del destino me l’avevi presentato proprio tu, era un tuo buon amico. Ne ero felice, ovviamente, H. era il ragazzo perfetto. Alto, carino, con gli occhi grandi, mani salde, un talento eccezionale per lo sport e in più ci teneva davvero a me. Non era nemmeno paragonabile a quel ragazzino dalle ginocchia sbucciate e il sorriso impertinente che mi trotterellava sempre affianco. Te ne ricordi, vero? Ti battevo in tutto: nella corsa, nell’arrampicata, nel salto con la corda, perfino nella lotta.
-Non è giusto!- ti lamentavi. -Tu hai le gambe più lunghe delle mie!-
-Già! Perchè tu sei un nanerottolo!- replicavo, rivolgendoti una smorfia di trionfo.
Ma quando il mio nanerottolo si &grave trasformato nello splendido ragazzo di fronte a me? Non lo so, non saprei dirlo. So solo che la consapevolezza di ciò mi ha colpito in pieno volto come uno schiaffo.

-Una lettera d’amore per lui? Stai scherzando?- sorrisi, incredula.
Peccato che la mia amica non stesse scherzando. Anzi, era fin troppo seria. Mi guardava dritta negli occhi con l’espressione più grave e assorta che le avessi mai visto.
Esitante, mi alzai e ti andai a cercare.
Ti trovai dopo pochi minuti, di fronte ai rubinetti del cortile. La divisa sporca di terriccio aperta sul torace, una macchia di fango su una guancia, i capelli bagnati da cui scivolavano gocce d’acqua sulla pelle arrossata e sudata. Ti porsi la lettera senza pronunciar parola.
Eri sempre tu, ma non eri più il mio nanerottolo. Di fronte a me stava un ragazzo alto ed aitante.
E a riprova di questo, facesti il gesto di misurare le nostre diverse altezze con la mano, e sorridendo mi dicesti:
-Vedi? Ti ho superata! Ti sta bene!-
Corresti via, e io ti seguii con lo sguardo. Non avevo mai fatto caso a quanto fosse solare e seducente il tuo sorriso.
Da allora tutti gli avvenimenti della mia vita si possono suddividere in ‘prima’ e ‘dopo’.

Tutte le mie amiche m’invidiavano, perchè ero rispettivamente la ragazza e la migliore amica dei due ragazzi più belli e popolari della scuola. Ma a me tutto questo non importava. Io... Ero combattuta. Non sapevo più chi ero, e chi volevo. Chi amavo.
Dopo le medie scegliemmo due istituti diversi. Non ci saremmo più visti con la stessa frequenza. Seguii H. nella strada che lo avrebbe portato a diventare un grande campione. M’imposi di pensare a te solo come un buon amico d’infanzia, e con questo stato d’animo affrontavo i nostri brevi e sporadici incontri, io con H. e tu con lei. L’avevi incontrata nella tua nuova scuola, era molto carina e sbadata, dolcissima e spontanea.
Proprio il mio esatto contrario. Quand’ero con te, con H. o da soli, mi comportavo malissimo, ero brusca e pungente. Mi guardavi, disorientato, e quel tuo sguardo mi feriva nel profondo.
Tu non potevi saperlo, ma conservavo la tua foto sotto il cuscino. Ero conscia che il mio comportamento non era quello di un’amica, e allora sfogavo la mia frustrazione su di te, inconsapevole causa del mio turbamento. La verità è che ero gelosa, gelosissima di te. Di lei. Di voi. Ancora non me ne rendevo conto, ma avrei voluto esserci io al tuo fianco.

Da quanti anni ci conosciamo? Da tutta la vita, o forse più?
Pensa… Anche se sulla terra vivono tanti uomini e donne quante stelle sono in cielo, noi siamo nati vicini e per tutti questi anni siamo rimasti insieme, sempre insieme… Questo è… un miracolo…
Non riesco a richiamare alla memoria un solo giorno in cui tu non compaia affianco a me, con i capelli spettinati e le mani sporche disseminate di calli, o con addosso la tua maglia preferita, quella a righe, e la bocca piena di biscotti.
Mi seguivi dappertutto, tanto che ti scambiavano spesso e volentieri per il mio fratellino minore. Eri così piccolo rispetto alla tua età che per tenere il mio passo eri costretto ad avanzare velocemente, quasi di corsa, visto che io non ti aspettavo mai.
E forse è stato proprio questo il mio errore. Non averti aspettato. Ero così concentrata nelle mie ansie e speranze che non mi rendevo conto di star avanzando da sola, in quella stessa strada che ci eravamo ripromessi di percorrere insieme.
Risi anch’io insieme agli altri ragazzi quando ti vidi arrivare alla cerimonia d’ammissione alla scuola media tutto trafelato, con le maniche della divisa talmente lunghe che avevi dovuto rimboccarle almeno quattro volte, e i pantaloni larghissimi e cascanti.
-Ehi bimbo, guarda che hai sbagliato scuola! Le elementari sono nell’edificio accanto!-
I nostri compagni ti apostrofarono così, mentre ti sedevi affianco a me, con un’espressione serena negli occhi e masticando chewing-gum, incurante degli sguardi di scherno e delle risatine di cui eri fatto oggetto.
Quasi quattro anni dopo, per la cerimonia di consegna della licenza, il ragazzo che varcò la soglia di quella stessa sala e che prese posto in prima fila accanto ad H. tra gli sguardi d’ammirazione delle ragazze e quelli di rispetto dei ragazzi non aveva nulla in comune con il buffo ragazzino che non era capace di mangiare un gelato senza sporcarsi il naso di cioccolata.
Eri tu, il numero 3 della squadra che aveva vinto il torneo di distretto per due anni di fila.

Ho nostalgia di quel periodo, sai? Di quando c’ero solo io nella tua vita, di quando non guardavi altra ragazza che non fossi io.
Pochi giorni fa ho incontrato due bambini. Lui si era arrampicato su un albero e non riusciva a scendere; assomigliava un po’ a te. Lei lo rimproverava aspramente; ed assomigliava un po’ a me.
-Dovresti aiutare il tuo fratellino- le ho detto.
-Non è il mio fratellino, è solo un compagno di classe- mi ha risposto lei.
Ho sorriso, e ho replicato:
-Non trattarlo così. Tra dieci anni, quando crescerà e diventerà uno splendido ragazzo, te ne potresti pentire-
La bambina ha scosso la testa, con decisione:
-Non c’è pericolo che lo diventi!-
Li ho osservati andare via, con una punta di amarezza. A volte quello che non si crede possibile accade, e ci si sente frastornati e impotenti, perché ormai è troppo tardi per riuscire a cambiare il passato. Io lo so bene.
Non potevo continuare a occupare nel tuo cuore il posto speciale che mi avevi riservato da sempre, lo sapevo bene; ma allora perché quando vi incontrai in quel caffè sentii una stilettata nel petto e corsi via furiosa? Non era certamente perché avevi interrotto il mio appuntamento con H., come vi avevo fatto credere.

Tu eri gentile con me, e forse proprio per questo era così difficile fingere davanti a te e ad H. Ma in un modo o nell’altro ci riuscii. Certo, sicuramente non ce l’avrei fatta se ti avessi dovuto vedere tutti i giorni. Ma gli impegni di entrambi contribuivano a tenerci lontani senza destare sospetti, e le rare volte in cui c’incontravamo indossavo in silenzio la mia maschera di cristallo, e mi comportavo come sempre, anche se la mia anima veniva lacerata senza pietà.
Non conoscevo l’amore. E forse proprio per questo ci misi tutti quegli anni per arrivare a comprendere una semplice, quanto scontata, verità: ero innamorata di te.

Tu arrivasti al nostro appuntamento con lei, entrambi con la giacca a vento e la sciarpa spruzzate di cristalli di ghiaccio. Io ti aspettavo seduta al bar, gli occhi che vagavano ansiosi in direzione della porta ad ogni guizzo del campanellino d’argento. Non appena vi intravidi in mezzo alla folla, sentii il mio cuore sussultare e farsi inspiegabilmente pesante. Una rabbia sorda s’impossessò di me.
Non eravamo più ragazzini. Ormai diplomati e studenti universitari, liberi dalle restrizioni che ci eravamo imposti nel tentativo forse sciocco di evitare di procurare un dolore a chi non lo meritava, eravamo pronti ad accettare e comprendere la vera natura del sentimento che ci legava.
O almeno così credevo.
Mi scorgesti che vi fissavo dall’altro capo della sala e mi salutasti con un cenno del capo. Le prendesti la mano e vi avvicinaste a me, entrambi sorridendo.
-Hai visto che tempaccio c’è fuori?- ridesti tu, scuotendo la neve dalla sciarpa ormai fradicia.
-Già- replicai io, senza convinzione. -Proprio un tempo da lupi.-
Prendeste posto vicini, di fronte a me, e ordinaste entrambi una cioccolata. E’ strabiliante la nitidezza con cui ricordo tutti i particolari, quasi mi fossero stati marchiati a lettere di fuoco nella mente. Il mio cuore sanguinava nel vedervi vicini… nel sapervi insieme.
-E H.?- domandò lei, guardandomi con uno dei suoi grandi sorrisi fiduciosi.
-Vedrai che starà per arrivare- risposi tu, macchiandoti il mento con la cioccolata.
Sorrisi. Dentro di te sopravviveva ancora una parte di quel ragazzino pasticcione che eri stato, la parte che amavo di più: la tenerissima purezza d’animo.
Lei prese un tovagliolo di carta e ti pulì, ridendo. Vi scambiaste un bacio appiccicoso alla cioccolata, e io divenni livida di rabbia. Mi alzai in piedi di scatto, e sibilai, con un’intonazione cattiva nella voce:
-H. non verrà, oggi.-
I vostri sorrisi si spensero.
-Ha avuto un contrattempo? L’università, forse? O gli allenamenti?- domandò lei.
Tu tacesti, rivolgendomi uno sguardo inquieto. Forse avevi intuito qualcosa.
-Lui mi ha lasciata. O meglio, sono stata io a costringerlo a lasciarmi. Sono talmente vigliacca che non ho nemmeno avuto il coraggio di dirgli di persona ciò che alla fine ha compreso.-
-Cosa vuoi dire?- chiedesti tu, con un’espressione preoccupata negli occhi.
-Quando ti ho chiesto di vederci, stasera, non intendevo per un appuntamento a quattro. Volevo vederti da sola, noi due e nessun altro.-
-Cosa stai cercando di dirmi…?- mi domandasti, alzandoti in piedi per guardarmi in viso.
-Mi pare di capire che tu non voglia essere consolata né sfogarti per la fine del tuo rapporto con H. E allora cosa vuoi da me?-
Per un lungo, interminabile istante i nostri sguardi s’incrociarono e si fusero in uno solo.
Per la prima e forse unica volta nella mia vita, decisi di lasciarmi guidare dal mio istinto. Presi il tuo viso tra le mani e ti baciai.

Era una limpida e chiara serata d’estate.
Io, in un fresco abitino estivo senza maniche, i capelli raccolti strettamente in una coda di cavallo, e tu, con un paio di pantaloncini blu marine e la maglietta a righe, la tua preferita, le ginocchia sbucciate rosse per il mercurio cromo e un cerotto in piena guancia, riponevamo l’attrezzatura che avevamo usato per pescare.
Era già calata la sera, e il sole rifletteva la sua effigie sulle placide acque del fiume in una strana tonalità rosso sangue. I grilli stormivano, forse inneggiando alla notte che stava per arrivare.
Era ancora il periodo in cui ti surclassavo di tutta la testa, e mi piaceva cantare vittoria su di te, crogiolandomi nella mia puerile soddisfazione. Tu eri abituato allo scherno, tutti i nostri compagni di classe ti avevano soprannominato ‘piccoletto’, e non te ne facevi un cruccio.
E forse proprio per questo, in un atto di avventata leggerezza, ti dissi:
-Su, andiamo a casa. La borsa la prendi tu e io le canne da pesca, che ne dici, piccoletto?-
Mi stupii nel vedere le lacrime scorrere sul tuo viso, mentre orgogliosamente cercavi di nasconderle e le scacciavi con la mano.
Fu in quel momento che compresi quanto le parole possano far male.
-Cosa c’è?- chiesi.
Un aereo passò sopra di noi, disegnando una scia bianco avorio nel cielo scarlatto pallido.
-Non mi avevi mai chiamato così!- singhiozzasti.
-Così come?- domandai, disorientata.
-Piccoletto-
-Non dire sciocchezze, ti chiamano tutti così! E anch’io l’ho fatto più di una volta!-
-Sì, ma non con quel tono cattivo… Cosa credi, che non mi dispiaccia essere così piccolo e magro?-
Avevi ragione, me ne resi conto grazie alle tue parole. Avevo usato con te lo stesso atteggiamento di sufficienza che ti riservavano gli altri bambini. Proprio perché non l’avevo mai fatto prima, ti avevo ferito senza rendermene conto. E allora mi comportai in un modo per me inusuale.
-Scusami- dissi, sommessamente.
Ti venni vicino e ti baciai su una guancia, assaggiando con la punta della lingua le lacrime che ancora ti scorrevano copiose sul viso.
-Sai una cosa? Sono amare, le lacrime.-
Avevo conosciuto per la prima volta il sapore della sofferenza.

Ti scostasti da me bruscamente, quasi che il contatto con me ti bruciasse. Io, al contrario, avevo avvertito sulle labbra una sensazione di gelo che mi aveva annientata.
-Cosa…- balbettasti, passandoti una mano sulla bocca.
-Ancora non l’hai capito? H. mi ha lasciata perché ha capito che ti amo. Non ti ha detto niente?- risposi, ostentando una sicurezza che in realtà non possedevo.
-No… Io…-
Guardasti lei, che piangeva in silenzio, seduta di fianco a te. Si alzò e frettolosamente indossò il cappotto, sistemandosi la sciarpa sopra i capelli, e si diresse verso la porta senza guardarci.
La raggiungesti, trattenendola per un polso.
-Aspetta! Non è come credi! E’ tutto uno stupido equivoco!- dicesti.
-Lei ti ama, non l’hai sentito?- replicò lei, liberandosi con uno strattone dalla tua stretta.
-D’accordo, sarà anche così, ma i miei sentimenti non contano niente?-
-Non fingere con me. Adesso hai tutto quello che hai sempre desiderato.-
Lei si voltò e uscì da locale senza aggiungere altro. Tu tornasti da me, e sedesti di fronte alla tua cioccolata, ormai fredda, abbandonando il capo sulle braccia incrociate sopra il tavolo.
-Perché adesso? Perché proprio ora, quando è troppo tardi?- sentii che sussurravi.

Forse non basta la linea tracciata dal destino quando entrano in gioco altre persone. I sentimenti non sono immutabili, come niente in questa nostra precaria vita. Avevo atteso troppo, e avevo perduto l’occasione per essere felice insieme a te. E in quei momenti, in cui ci univano le lacrime che rigavano i nostri visi e le mani intrecciate sul tavolo, oltre che lo stesso, tremendo dolore, ne ebbi piena consapevolezza. Avevamo coinvolto troppe persone con la nostra indecisione, persone che avevano sofferto per causa nostra, e che non lo meritavano. Le nostre lacrime e l’amaro, tardivo pentimento erano anzitutto per loro, oltre che per un fiore che non sarebbe mai sbocciato.
Non avrei mai creduto che tu potessi imparare ad amarla. Era vero che avevi accettato l’amore che ti aveva offerto con tanta innocenza nel tentativo in parte puerile e in parte disperato di dimenticarmi, ma lei rispetto a me aveva goduto di un’arma che si sarebbe rivelata di fondamentale importanza: la quotidianità. Per tre anni avevate vissuto insieme, inseparabili: a scuola, agli allenamenti, durante il campionato e le trasferte. Ti ha conquistato poco a poco, con la sua dolcezza e la sua solare goffaggine, lenendo le ferite del tuo cuore con l’alito curativo della sua freschezza.
Tu avevi bisogno di una persona come lei, ora lo so.
-Ti prego, se davvero mi hai amata in passato, non lasciarmi sola stanotte- mormorai, con le lacrime che mi accecavano.

Le mie labbra cercarono le tue, e le nostre bocche si unirono in un bacio che almeno per me aveva il sapore dell’immortalità. Le mie mani s’insinuarono sotto la tua felpa, sfiorando appena la pelle della schiena. Seguii con le dita la linea diritta della colonna vertebrale, mentre il tuo profumo mi stordiva. Sentivo addosso le tue mani calde ed esperte, le labbra umide sul collo, e giocai con le tue lucenti ciocche nere, appena un po’ più lunghe di come le ricordavo. Ti tolsi la felpa, posando le mani sul torace, e il capo sull’incavo tra la spalla e il collo. Il battito del tuo cuore mi risultava dolce come nient’altro. Rimanemmo così, stretti l’uno all’altra, io desiderando che quell’attimo in cui avevo l’illusione di averti non si spezzasse mai.
Sentii le tue mani risalire sulla mia schiena, una a sciogliermi i capelli e l’altra a cercare la chiusura del reggiseno, che cadde, inerte, sul pavimento. Rimasi così, dalla vita in su completamente nuda, mentre mi abbracciavi con smania, quasi con violenza.
Una tua lacrima cadde, calda, sopra la mia spalla.
-Mi dispiace… Io… Non ce la faccio…- mormorasti, nascondendo il viso tra i miei capelli.
Ti tenni stretto a me senza pronunciare una sola parola. Capii di aver definitivamente perso, e lo accettai.

Non riuscivi a fare l’amore con me senza amore. Non potevi farle una cosa del genere, l’amavi troppo. E anche se io ero consapevole della natura dei tuoi sentimenti per me, non eri capace di passare la notte con me, per poi dimenticare tutto al mattino. Mi rispettavi troppo, in un modo in cui io non rispettavo nemmeno me stessa. Mi ero denigrata al ruolo di amante, solo per avvertire il dolce peso del tuo corpo contro il mio, nella fatua illusione di avere, solo per un fuggevole istante senza ritorno, ciò che invece era concesso ad un’altra.
Se è possibile, ti amo ancora di più di per questo, per questa tua delicata premura e forse anacronistica onestà. Stanotte mi sono innamorata di te per la seconda volta.

-Perché hai atteso tanto?- mi chiedesti, mentre, completamente vestiti, ti tenevo stretto a me sul divano di casa mia.
-Io ti ho amata in silenzio per molto tempo… Ma ora…-
-Ora ami lei- completai, con un sorriso tirato. -Lo so. Non dirmi altro.-

Ci dev’essere qualcosa di sbagliato in me. Quando avrei dovuto aspettarti non l’ho fatto. Quando avrei dovuto capire l’importanza di ogni singolo istante, ho procrastinato all’infinito la mia confessione, trattenuta da una stupida paura che mi è costata cara.
Ti ho perso senza averti mai avuto veramente. Che ironia!
Ti osservo, avvolto dalle nuvole del sonno, e timidamente sfioro una ciocca dei tuoi capelli con la punta delle dita, scostandotela dal volto arrossato.
Dormi pure, veglierò io sul tuo sonno. Niente e nessuno potrà turbare il tuo riposo, stanotte.
Dalla scrivania prendo uno dei quaderni e ne strappo una pagina. Con una penna biro ad inchiostro nero scrivo poche, semplici parole, ripiegando il foglio e sistemandolo sul comodino affianco a te, tra la abat-jour e la sveglia, che disattivo poco prima di uscire in veranda.

Domani, quando ti sveglierai, non mi troverai qui. Sarò a lezione. Vai da lei, e spiegale tutto. Mostrale anche questo biglietto, se necessario. Dille che mi dispiace, che non avrei mai voluto farvi soffrire in questo modo, e che ogni mia azione è stata dettata dall’amore. Forse non mi perdonerà, ma sono sicura che almeno capirà. E dille anche che è fortunata ad avere trovato ciò che io ho perso.

Ricordati che ti amo, Hiro.

Fine
  
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