D’accordo, sarà meglio procedere con ordine.
La scorsa estate ho scoperto le 10 songs challenges, un esercizio di scrittura particolarmente utile per l’ispirazione: sapete, ascoltare dieci canzoni a caso e nel frattempo scrivere dieci drabble… Beh, subito dopo essermi cimentata con questa sfida, mi sono accorta che non mi lasciava completamente soddisfatta. Perché? Forse perché ne nascevano cose troppo improvvise, e a me piace ponderare attentamente e a lungo le mie storie. Non so, non sono sicura di averlo capito. Fatto sta che mi sono detta: e se invece delle canzoni ci fossero dei film?
Da allora è stato un rimuginare continuo. Dieci film. Dieci coppie. Non sarebbe male una raccolta così. Vi risparmio i dettagli, ma vi dico che quest’idea mi ha letteralmente ossessionata. X3
Ed infatti quello che state per leggere, e che è il primo capitolo della mia – chiamiamola così – 10 movies challenge, ha assorbito circa tre mesi, forse qualcosa in più, della mia voglia di scrivere.
Dunque eccoci qui: benvenuti! ^^ Ogni capitolo tratterà di una coppia diversa di Kingdom Hearts associata ad un particolare film. Ovvio che non ho intenzione di plagiare nulla; sicuramente ci saranno capitoli più fedeli e altri meno ai film originali, ma in linea di massima conto di modificare molto, e di mantenermi soltanto sull’idea principale, come è stato fatto per moltissime fic prima di questa.
Solo che questa è una raccolta. E se avete voglia di seguirla, vi dico subito che i capitoli che vi aspettano saranno chilometrici, perché ovviamente ognuno di essi sarà una storia a sé. Per cui, se davvero siete intenzionati a farlo, a voi vadano le mie adorazioni perpetue. =^-^=
Personalmente di questo primo capitolo/shot mi piace più la prima parte; la seconda mi sembra scritta un po’ troppo velocemente. Se anche voi avrete la mia impressione, cercate di essere clementi: forse è un bene che mi sia sbrigata, altrimenti mi avreste maledetta mille volte per le mie idee stupidose che vanno a minare i vostri poveri occhi… .__.
Bene, non ho intenzione di tediarvi oltre, soprattutto considerando che vi aspetta un file Word della bellezza di 55 pagine… u///ù Però una lista di note introduttive è d’obbligo. Le aggiungo subito qui sotto.
Buona lettura… Oh, e buon anno! ^^
Pairing: Axel/Roxas
Film: "I passi dell’amore" [A walk to remember], 2002, Adam Shankman
Genere: Drammatico, Romantico, Triste
Avvertimenti: Shounen-ai, OOC (ma vale soltanto per alcuni personaggi secondari)
Note:
~ I cognomi dei personaggi protagonisti sono anche quelli dei protagonisti del film originario. So che è una cosa un po’ banale, però ammettiamolo, ‘Axel Carter’ e ‘Roxas Sullivan’ suonano decisamente bene insieme. ^^
~ Il personaggio del padre di Axel è (l’unico) inventato. L’ho chiamato Lea perché questo è il nome di Axel prima che diventasse un Nessuno. Ancora una volta, perdonate la banalità. u///ù
~ Ho un po’ giocato con le età dei personaggi. Capirete meglio leggendo. ^^
~ Ci sono anche alcuni personaggi tratti da Kingdom Hearts: Birth by Sleep, ma non condizionano in modo particolare la storia, per cui no problem se non li conoscete. ;)
~ In una scena troverete Axel e Roxas alle prese dello studio di Jack London e del romanzo Zanna Bianca. Premesso che questa shot non è ambientata né in America né in Giappone, non sapevo comunque che cosa inserire per rendere più realistico il programma scolastico del liceo. Ho ripiegato su questo particolare autore perché suppongo che sia conosciuto e più o meno studiato in tutto il mondo. Suppongo. Spero.
~ Troverete scritto che il compleanno di Roxas è il 13 agosto e quello di Axel il 31 luglio. Non so se sia così, ma mi è capitato di leggere queste date su un canale di YouTube, e le ho prese per buone (anche e soprattutto perché il 13 agosto è, come saprete, l’AkuRoku Day). ^^
~ Fingete che Traverse Town sia una cittadina che in parte si affaccia anche sul mare… Licenza poetica. ^-^’’
~ La canzone utilizzata in due scene è Thunder dei Boys Like Girls.
1
Il prato
dei gigli
[I passi
dell’amore]
Avevo meno di diciotto anni quando ho
scoperto questo posto.
Ne avevo poco più di diciotto
quando ho cercato di lasciarmelo alle spalle.
E oggi che ritorno e che ricordare non fa
più paura, me ne sento addosso molti di più.
Sono poche le persone che possono dire di
aver vissuto per davvero un miracolo. Io sono tra
queste.
Il mio miracolo è esploso qui.
Ma era cominciato molto prima che io me ne
accorgessi.
* * *
Axel Carter sedeva scompostamente
nell’ufficio del preside Ansem, le braccia incrociate e praticamente
accasciato contro lo schienale, in attesa che il suo aguzzino finisse di
scribacchiare e si decidesse a decretare la sua sorte.
Che bisogno c’era di farla tanto lunga?
Era stato solo un po’ di colorante chimico, in fondo. Un po’ di
colorante verde ramarro. Un po’ di colorante verde ramarro nei gabinetti
delle ragazze. Beh, e allora? Era tanto per ridere. Niente di pericoloso.
Niente a che vedere con l’episodio del laboratorio di scienze, quando gli
aveva dato fuoco. Ok, certo, quello era stato un incidente, e in quanto tale
lui aveva subito provveduto a spegnere le fiamme, e tra l’altro nessuno
era risalito a lui. Ma c’erano stati parecchi danni.
Però perché allora le
indagini si erano fermate lì, e adesso di una sciocchezza si
stava facendo una montagna?
Cominciò a dondolare la sedia, avanti e
indietro, il piede puntato su una delle gambe della cattedra. Tanto quel
rompipalle del professor Ansem era tutto intento a scrivere e scrivere e
scrivere. Stava già chiedendosi se potesse arrischiarsi a sgattaiolare
fuori dall’ufficio senza farsi notare, quando quello posò la penna
e alzò lo sguardo.
«Bene, Carter.» Pronunciò il
suo nome con tono esasperato. «Sei di nuovo qui, Carter. Che cosa devo
fare con te, Carter?»
Axel smise di dondolarsi e sfoderò il suo
miglior sorriso strafottente, giusto per il gusto di prenderlo in giro.
«Bene, professor Ansem. Sì,
professor Ansem. Non ne ho idea, professor Ansem.»
Il preside schizzò all’istante,
proprio come da copione.
«Tu ti diverti, vero, Carter?»
sbottò. «Lo sai che questo è il tuo ultimo anno di liceo?
Lo sai che stai rischiando grosso, con questa tua mania di combinare pasticci?
Sei stato davanti a questa scrivania per cinque volte, nell’ultimo mese.
Cinque volte in un mese! Lo sai che figura ci fai? Proprio tu? Non pensi a tuo
padre, Axel Carter?»
Axel guardò insistentemente il soffitto.
Sapeva bene cosa avrebbe voluto rispondere. Rispettivamente: sì,
sì, sì, sì, sì e in ultimo no, professore. Ma
il riferimento a suo padre lo aveva frenato in tempo, e lo frenava ancora
adesso.
In una cittadina piccola e ottusa come Twilight
Town, un uomo politico giovane, efficiente e conservatore come Lea Carter era
semplicemente venerato come un dio. Figurarsi quale onta, per la famiglia
Carter, se il loro unico rampollo fosse diventato un teppistello da quattro
soldi.
Beh, quello era esattamente ciò
che Axel voleva essere.
Aveva convissuto con l’ombra inquietante
di Lea Carter per anni: sentiva il desiderio di dire la sua, di dimostrare che
lui era lui e non suo padre. Di fare casino. Di essere stronzo quando gli
pareva e come gli pareva. Di non essere il figlio modello che tutti
dovevano prendere a esempio.
Ma quando si toccava quel tasto, non riusciva
mai a far valere la sua posizione. Perciò, taceva. Proprio come in quel
momento.
Il professor Ansem sospirò profondamente
e parve calmarsi. «Carter, capisco il tuo spirito ribelle. Che tu ci
creda o no, sono stato un adolescente anch’io.»
Axel sbuffò tra sé. Sì,
nel Paleolitico. Vede, prof, mi sono ricordato il nome di un’era
geologica!
«Ma devi capire» continuava il
preside, imperterrito, «che non posso lasciarti fare quello che vuoi
soltanto perché sei il figlio del sindaco. Anzi, proprio perché
lo sei, è necessario che tu metta la testa a posto.»
Bla, bla, bla…
Tutto, tutto esattamente come da copione. Chissà cosa servirà
Daisy per pranzo?
«Perciò, sappi che questo è
un ultimatum. O cominci a capire qual è il tuo posto, Carter, o
sarò costretto ad espellerti.»
Axel distolse gli occhi dal soffitto e
tornò a guardare l’uomo seduto davanti a lui. Questa era
una novità.
Valutò con cura la prospettiva
dell’espulsione. Sarebbe stato fantastico: niente più scuola,
niente più compiti a casa da fare controvoglia o fingere di aver fatto o
da copiare la mattina dopo all’ultimo minuto. Soltanto la musica,
finalmente. Un vero sogno!
Già… Per lui. Ma sapeva
già cosa lo aspettava oltre alla musica. Suo padre e il suo trattamento
speciale “sensi di colpa & affini”. Era un vero asso nel far
sentire a disagio gli altri; forse era per questo che i suoi avversari politici
calavano le armi quasi subito. Avrebbe cominciato a fargli sarcastici
complimenti per il suo egoismo, poi a sbraitargli addosso che tutto il lavoro
che faceva lo faceva anche per garantirgli un’istruzione – non che
lui gli avesse mai chiesto nulla in proposito, comunque… – e infine
a sottoporlo a mille ricatti morali. No, quel rovescio della medaglia non gli
piaceva per niente.
Così, sostenne lo sguardo del preside e
annuì con cautela. «Bene, professore.»
Ansem annuì di rimando. Prese i fogli che
aveva appena compilato e glieli porse. «Qui troverai alcuni corsi
integrativi che possono contribuire ad occupare il tuo tempo. Magari
così la smetterai di perderne per organizzare scherzi idioti.»
Axel si morse la lingua per non rispondere a
tono; afferrò i fogli e si chinò ad infilarli nello zaino senza
guardarli.
«È tutto. Puoi andare.»
Lo prese in parola e si alzò di scatto,
gettando lo zaino su una spalla e bofonchiando un vago saluto. Era già
alla porta quando la voce di Ansem lo richiamò.
«Carter?»
Axel chiuse gli occhi, invocando forza
interiore, li riaprì e si voltò, in attesa.
«Cerca di capirmi.» La voce
dell’uomo non recava più tracce di irritazione o di
autorità; sembrava solo stanca. «Non è giusto espellerti. I
tuoi voti stanno migliorando, rispetto all’ultimo trimestre, e non
sarebbe neppure una buona pubblicità per tuo padre. Non mettermi in una
posizione difficile.»
Crede che la mia sia facile?
avrebbe voluto rispondergli. Ma preferì evitare un’altra
discussione.
Annuì di nuovo, uscì
dall’ufficio chiudendosi la porta alle spalle e si avviò lungo il
corridoio, diretto al refettorio.
«Ehi, Axel! Siamo qui, amico!»
Al tavolo più lontano dal bancone, Demyx
si stava sbracciando verso di lui. Durante il tragitto per raggiungerlo, Axel
arraffò dal vassoio di un ragazzo un tubetto di ketchup e da quello di
una ragazzina del primo anno una confezione di succo. Infine andò a
sedersi accanto a Demyx e gli altri e sospirò di sollievo.
«Era ora.» Aprì il ketchup e
ne sparse una porzione generosa sulle salsicce. «Quel preside è
davvero una palla al piede.»
«Che cosa ti ha detto?»
s’informò Larxene, civettuola come al solito.
«Ah, le solite.» Axel alzò
gli occhi al cielo. Prima di iniziare a mangiare, lanciò
tutt’intorno al tavolo un’occhiata di sbieco. «Dice che se
non metto la testa a posto mi espelle.»
«No!»
«Sì.»
«Ma scusa, non avrai mica intenzione di
diventare un angioletto, vero?» Demyx si sporse sul tavolo verso di lui,
accigliato. «Perché non è da te, lo sappiamo tutti.»
«Ma va’? Te ne sei accorto?»
Sogghignando, Axel si cacciò una forchettata di salsicce in bocca.
«Sentite, devo solo tenermelo buono per un po’. Non posso
permettermi che mio padre ricominci a sfinirmi come l’ultima volta…
Non avete idea di come sia sfibrante.»
L’amico annuì, comprensivo. Aveva
avuto modo di assistere ad uno di quei “colloqui” padre-figlio in
casa Carter. «Perciò, che farai?»
Axel ingoiò il boccone e alzò le
spalle. «Immagino che sceglierò uno a caso dei corsi integrativi,
farò finta di aver abbassato la testa e poi me ne uscirò con
qualcosa di nuovo, come al solito. Ehi, che ne dite di un po’ di
colorante nell’ufficio di Ansem, stavolta? Magari sulla sua adorata
stilografica. No, ripensandoci, meglio metterne un bel secchio sulla porta del
suo gabinetto personale.»
Demyx e Larxene scoppiarono a ridere. Persino
Zexion alzò il naso dal suo libro per concedergli un sorrisetto.
«Ehi, Larx.» Demyx si voltò
verso la ragazza; la sua notevole capacità di cambiare argomento da un
secondo all’altro non si smentiva mai. «Hai una macchia sulla
maglietta. Aspetta che te la tolgo io.»
«Non ci provare, pervertito.»
«Oh, non fare tanto la difficile!»
Axel azzannò un’altra salsiccia e
si distrasse. La ragazzina cui aveva rubato il succo era tre tavoli più
in là, stava piagnucolando accanto ad un ragazzo dai capelli biondi. Gli
sembrava di averlo visto qualche volta, doveva fare il terzo anno. Il biondino
asciugò le lacrime della ragazzina con un fazzoletto, sorrise e le
offrì la sua confezione di succo. Ma guardatelo… Che razza
di femminuccia.
«Zex, hai fatto i compiti di
algebra?»
La domanda di Demyx indusse Axel a voltarsi di
nuovo. La risposta serviva anche a lui: il preside Ansem poteva anche essere un
ingenuo, ma la verità era che dietro buona parte dei suoi voti
c’era il cervello di Zexion.
Il loro “addetto ai compiti” non
alzò nemmeno la testa dal libro. «Domanda retorica, Demyx. Come
quella che seguirà. Certo che te li faccio copiare, altrimenti non mi
libererò di te per settimane.»
«Sei un amico. Che faremmo senza di
te?»
Axel scosse la testa, continuando a masticare.
Erano davvero una strana accozzaglia di amici.
Fu solo alla sera che ripensò alla lista.
Aveva cenato in silenzio con suo padre, come
sempre. Non avevano mai molto da dirsi, eccetto in quelle occasioni in cui il
signor Carter recitava alla perfezione la parte del genitore deluso, ossia
quando veniva a sapere di quelle che chiamava «le ultime prodezze»
di suo figlio. Evidentemente, questa volta il preside Ansem era stato di
parola: poiché non intendeva “mettersi in una posizione
difficile”, non aveva nemmeno informato Carter Senior
dell’ultimatum.
Tanto meglio.
Axel aprì lo zaino, recuperò i
fogli appallottolati sul fondo, li spiegò e tornò a stendersi sul
letto.
Il primo foglio diceva:
1
Laboratorio artistico, responsabile:
professor Saïx;
2
Giornale d’istituto,
responsabile: professoressa Lockheart;
3
Laboratorio teatrale, responsabile:
professor Highwind;
4
Progetto Educazione Alimentare,
responsabile: professor Xaldin;
5
Progetto Tutor, responsabile: professor
Vexen;
6
Progetto Cinema…
Non aveva bisogno di andare avanti.
Riaccartocciò con cura il tutto, spinse la carta giù dal
materasso e incrociò le braccia dietro la testa.
Zexion aveva partecipato per un po’ al Progetto
Tutor, l’anno precedente. In teoria avrebbe dovuto dare ripetizioni di
algebra ad un ragazzo del secondo. In pratica, aveva passato buona parte di
quel tempo a leggere e cazzeggiare in giro, perché spesso quel gran
genio del suo pupillo non si prendeva neppure la briga di presentarsi al
progetto che avrebbe dovuto assicurargli la promozione alla fine
dell’anno scolastico.
Se anche avesse dovuto spiegare qualcosa a un
qualche moccioso disperato, gli argomenti non sarebbero comunque stati
così difficili. Avrebbe potuto cavarsela. L’amicizia – o
comunque quella cosa che li teneva uniti – di Zexion aveva anche i suoi
vantaggi, in fondo.
Sorrise soddisfatto. Quale modo migliore per
fare qualcosa di “utile” e al contempo rilassarsi e meditare un
altro colpaccio?
Sì, non c’erano dubbi. Era quella
la soluzione.
Axel si alzò di nuovo in piedi e
cominciò a spogliarsi, pregustando il mattino successivo, quando avrebbe
fatto credere a tutti quello che lui voleva che credessero. In un certo
qual senso politico, si disse, suo padre avrebbe potuto essere fiero di lui.
* * *
«Vuoi farmi credere che sei interessato? Tu?»
Il professor Vexen, responsabile del Progetto
Tutor, era un uomo sulla sessantina, irascibile e sempre vestito di nero, che
rispecchiava appieno l’immagine del cittadino medio di Twilight Town:
l’ottusità fatta persona. Non a caso, era anche uno dei prof
più odiati alla Twilight Town High School. In quel momento lo scrutava
coi suoi occhietti verde acido, da sopra la breve lettera che Axel gli aveva consegnato
direttamente dalla segreteria.
Il ragazzo alzò le sopracciglia, il
solito sogghigno sulle labbra. «Qualche problema, signore? In fondo
è stato il preside in persona a concedermi di provare.» Gli
indicò il foglio che l’altro aveva in mano. «La sua
raccomandazione non è sufficiente a garantirle la mia buona fede?»
Vexen agitò la lettera in aria, con fare
impaziente. «Carter, questo non è un gioco. Chi si presenta qui
deve essere consapevole di quello che vuole fare, deve averne la capacità.
Francamente, i tuoi voti non mi sembrano all’altezza del Progetto
Tutor.»
Axel aveva già in punta di lingua una
risposta pungente – rischiando di mandare tutto all’aria prima
ancora di cominciare – ma, con sua sorpresa, fu una voce tranquilla e
sconosciuta a ribattere al vecchio pipistrello.
«Mi scusi, professore, ma non credo che
questo sia vero.»
I due si voltarono all’unisono.
Accanto ad Axel era comparso un ragazzo, le
braccia cariche di libri. Era lo stesso biondino del terzo anno che lui aveva
visto, il giorno precedente, consolare la piccoletta del succo d’arancia
in mensa. Da vicino sembrava ancora più giovane dei suoi anni: aveva
occhi grandi e celesti come quelli di un bambino; puntati
sull’insegnante, parevano assurdamente ingenui.
«Non occorre avere una media eccezionale
per partecipare al progetto» continuava il biondino in tono pratico.
«Basta solo avere voti sufficienti da poter aiutare studenti più
giovani con carenze gravi. Sono le regole che ha stabilito lei,
ricorda?»
Suo malgrado, Axel si godette l’espressione
scocciata del pipistrello.
«Sì, questo è vero,
Sullivan» borbottò il vecchio dopo un breve silenzio. «Ma
suvvia: Carter, un tutor…!»
«Perché non dargli una
possibilità? Può vedere come se la cava con i ragazzi del primo
anno. In questo modo, anche se non lo giudicasse… idoneo, nessuno
potrebbe dire che lei non l’ha lasciato provare.»
Axel incrociò le braccia, seccato. Odiava
quando gli altri si mettevano a parlare di lui in sua presenza come se in
realtà non ci fosse. Era stato uno degli atteggiamenti tipici di suo
padre per anni, quando ancora lo costringeva ad assistere alle sue riunioni e
cercava in ogni modo di coinvolgerlo lodandolo agli occhi degli altri; guarda
caso, questo era stato proprio uno di quegli irritanti fattori che avevano spinto
l’Axel allora tredicenne sulla strada dei… cattivi ragazzi.
Vexen si voltò di nuovo a guardarlo, con
aria di profonda riflessione, e lui si sforzò di mantenere
un’espressione neutra. Alla fine l’uomo sbuffò.
«D’accordo, Carter. Sarai dei
nostri.» Piegò con cura il biglietto del preside e se lo
infilò in una tasca del lungo cappotto nero; lo indossava anche dentro
la scuola, quel cappotto, il che contribuiva molto a farlo assomigliare a un
vampiro assetato. «Ma al primo sgarro, sappi che te la vedrai con me,
è chiaro?»
Axel gli sorrise, trionfante.
«E fatti sparire quella smorfia dalla
faccia!» Il vecchio ottuso si scansò dalla porta e gli fece cenno
di sbrigarsi a entrare. «Fatti spiegare tutto da Sullivan. E già
che ci sei, ringrazialo.»
Per la prima volta, il biondino incontrò
lo sguardo di Axel. Subito dopo abbassò gli occhi.
«No, non c’è bisogno»
mormorò, imbarazzato. Si sistemò i libri tra le braccia ed
entrò in classe. «Vieni, Carter.»
Axel lo seguì, non prima di aver rivolto
un cenno beffardo di saluto a Vexen. Quello gli diede le spalle, stizzito.
L’aula destinata al progetto era molto
spaziosa, probabilmente una delle più grandi della Twilight High. Era
ancora troppo presto perché si riempisse di studenti in cerca di tutor,
ma sembrava che fosse tutto pronto per le ripetizioni. Una grande scrivania
offriva tre postazioni ad altrettanti computer. I banchi erano stati tutti
sistemati contro le pareti, lasciando un grande spazio vuoto al centro, dove
erano stati uniti quattro tavoli della mensa – magari quella era
l’area dei ripassi di gruppo. Axel si affiancò al biondino,
guardandosi intorno.
«Non c’era bisogno che intervenissi,
signor avvocato del diavolo» bofonchiò, sarcastico. «Guarda
che non ti posso pagare per la tua arringa.»
Con la coda dell’occhio, si accorse che il
ragazzo sorrideva.
«Chi ti dice che io voglia qualcosa in
cambio?»
«Allora cosa saresti, un buon
samaritano?»
«Se vuoi chiamarmi così.»
«Beh, in questo caso, sei il primo che
conosco che fa qualcosa per qualcuno senza voler niente in cambio.»
«Forse è solo che non hai guardato
bene. Ti garantisco che siamo in tanti.» Il biondino si fermò
accanto ai tavoli al centro della classe, dove posò i libri, e si
voltò ancora a guardarlo. «Come mai Axel Carter si fa vedere in
questo covo di secchioni?»
Axel alzò un sopracciglio. «Ottima
definizione. Ma a te cosa importa?»
«A me niente.» Scrollò le
spalle. «Semplice curiosità.»
«Non mi piacciono le persone curiose,
sai.»
«Non è un problema. A me non
piacciono le persone che non rispondono alle domande dirette.» Sorrise,
senza ironia. «Sta’ a vedere che andremo d’accordo.»
L’adolescente lo soppesò con gli
occhi. Era un ragazzino minuto, la pelle chiarissima, la camicia perfettamente
in ordine, la cravatta della divisa pulita e le scarpe allacciate. Accanto al
suo colletto sbottonato e alle sue scarpe disastrate, il contrasto era
assoluto. Andare d’accordo? Sì, come no.
«Mi spieghi come vanno le cose qui o mi
arrangio da solo?» sbuffò.
Lui non si scompose; annuì e si
voltò per indicargli i banchi accostati alla parete alla sua destra.
«Là è dove sistemiamo i ragazzi del primo anno. Sono divisi
per anno per non creare confusione tra gli argomenti che hanno studiato…
Beh, niente di che, devi solo aiutarli nella materia in cui hanno
difficoltà, capire il loro metodo di studio, incontrarli quando ne avete
la possibilità… A proposito» aggiunse tornando a guardarlo,
«c’è una materia particolare in cui sei preparato, o non fa
differenza?»
Axel – che si era perso più o meno
ad “aiutarli nella materia…” – tornò in
sé e sogghignò.
«Diciamo che ultimamente sono diventato un
amante della chimica.»
Il ragazzino sospirò e scosse la testa.
«Ok, preferisco non saperne niente.» Si diresse alla bacheca dietro
la scrivania con i computer e tornò da lui con un fascio di fogli in
mano. «Al momento c’è un tutor per tutti i gruppi; ma ieri
è arrivata una ragazza nuova: potresti aiutare lei, finché non si
ambienta. Si chiama Olette e ha bisogno di una mano in…» scorse i
fogli, quindi gli lanciò un sorrisetto di sotto in su, «chimica.
Non nel farsi rubare succhi d’arancia, dunque.»
Axel rimase impassibile alla provocazione. Prese
il foglio su cui erano scritte le informazioni sulla ragazza; alzò lo
sguardo solo quando la sensazione degli occhi del biondino su di sé si
fece insostenibile.
«Beh?» fece.
«“Beh?” a te»
ribatté lui, serissimo. «Non si usa più ringraziare?»
Axel alzò gli occhi al cielo. Lo diceva; non
potevano andare d’accordo.
«Abitudine persa da molti anni.»
«Questo spiega molte cose.» Il
ragazzo sospirò di nuovo, andò a riprendersi i libri e si
allontanò verso la parete opposta a quella che gli aveva indicato.
«Comunque» aggiunse, guardandolo di sfuggita da sopra la spalla,
«se hai bisogno di qualcosa, chiedi pure a me. Mi chiamo Roxas
Sullivan.»
«Tranquillo, Roxas Sullivan. Vedrò
di non avere bisogno di niente.»
Axel voltò le spalle e si preparò
psicologicamente a quella rottura di scatole, già dimentico del
biondino.
Ora di pranzo. Di nuovo. Tutto come sempre.
«E allora?»
Axel rubò la porzione di patate fritte
dal vassoio di Demyx prima che lui se ne accorgesse e si riempì la
bocca. «E allora che?»
«Dai, Axel, non fare il deficiente. Dicci
che hai combinato, no?»
«Deficiente sarai tu.» Gli
spalmò il ketchup sulla faccia, tra le risate acute di Larxene.
«Non c’è niente da raccontare, a meno che tu non voglia
crepare di noia qui su questa sedia.»
«Ok, ok, messaggio ricevuto!» Demyx
si pulì la faccia con un fazzoletto. Si conoscevano da troppo tempo;
sapeva quando era meglio non insistere. «Era semplice
curiosità!»
Quelle parole gli ricordarono qualcosa.
Axel riprese a mangiare in silenzio, alzando lo
sguardo sul refettorio gremito di studenti. La Twilight High non era una grande
scuola, ma contava tra i suoi iscritti tutti gli adolescenti della
città, perciò sembrava sempre che non ci fosse abbastanza spazio
per tutti.
Allo stesso tavolo dove lo aveva visto il giorno
precedente, Roxas Sullivan sedeva con un vassoio vuoto davanti a sé e un
libro in mano.
Stavolta si accorse che era da solo.
«Chi stai guardando, Axel?»
La voce un po’ infastidita di Larxene lo
fece sussultare. Tornò bruscamente a se stesso e alle patate fritte che
erano state di Demyx.
«Niente, un moccioso che ho incontrato
stamattina al progetto» tagliò corto. «Un certo
Sullivan.»
Zexion alzò gli occhi dal suo libro.
Fatto piuttosto insolito. Leggere per lui non era solo un passatempo, ma
ciò che meglio poteva isolarlo dalla folla. Perciò i tre amici lo
fissarono con tanto d’occhi quando lo sentirono parlare.
«Sullivan? Vuoi dire il ragazzino
dell’orfanotrofio?»
Axel ricambiò il suo sguardo, senza
capire. «Orfanotrofio?»
Zexion posò il libro sul tavolo. Le
stranezze aumentavano.
«Non lo sai? Sono anni che se ne parla. Un
ragazzo chiamato Roxas Sullivan è nato e cresciuto in orfanotrofio, e
vive lì tuttora…»
«Non è un po’ grande per
stare in orfanotrofio?»
«Ed è proprio per questo che se ne
parla, genio.» L’amico si scostò i capelli dagli occhi,
scoccandogli un’occhiata di disapprovazione. «Non ha nessun
parente, nessuno che possa ospitarlo. Finché è minorenne deve
restare lì. Ma la cosa più strana è che lui non sembra
avere problemi, anche se gli tocca vivere di scarti e roba del genere. Ho
sentito dire che ama quel posto alla follia.»
«Amore per un orfanotrofio per
poveri?» Demyx mosse in circolo un dito accanto alla tempia, in un gesto
eloquente. «Secondo me è un po’… strano, come
minimo.»
«Non sei l’unico a vederla
così, infatti» convenne Zexion, prima di tornare al suo libro.
Aveva evidentemente esaurito il massimo della sua capacità comunicativa
nell’arco di una giornata.
Axel si voltò di nuovo verso il tavolo di
Roxas Sullivan. Era d’accordo con Demyx; lui si sarebbe sepolto
vivo, piuttosto che passare tutta l’infanzia a nutrirsi e vestirsi di
elemosina… Anche se, ora che ci pensava, l’idea di una eventuale
mancanza di suo padre non era così male.
Osservò l’uniforme pulita e
ordinata del ragazzo. Non si sarebbe mai detto che fosse roba scartata da altri
– e dire che lui l’aveva osservata da vicino. Era però
chiaro che, per quanta cura potesse avere dei suoi vestiti, quel biondino dagli
occhi blu non lo faceva per vergogna di ciò che indossava, non si
preoccupava minimamente dell’impatto che poteva avere sulla gente. Forse
neanche della solitudine…
Mentre scrutava il suo tavolo vuoto,
all’improvviso lo vide alzare gli occhi su di lui.
Axel distolse i suoi. Non per discrezione, ma
semplicemente perché – si disse – in fondo, a lui cosa
diavolo gliene importava?
Finì di mangiare le sue patate,
inserendosi nei discorsi di Demyx e Larxene. Solo quando ebbe finito si
azzardò a lanciare un’altra occhiata a Roxas Sullivan; lui,
però, era di nuovo chino sul suo libro.
Avrebbe quasi potuto giurare di averlo visto
sorridere.
* * *
Lo rivide di continuo, ogni volta che aveva modo
di entrare nell’aula del Progetto Tutor – e succedeva spesso,
perché la sua giovane allieva approfittava di tutti i momenti liberi per
chiedergli una ripetizione – ma non si rivolsero più la parola per
un pezzo.
Accadde di nuovo quando Olette entrò in
classe saltellando e ridendo e si gettò addosso ad Axel.
«Grazie, grazie, grazie!»
Lui cercò di scrollarsela di dosso, senza
successo. Era piccola, ma aveva una bella carica.
«Ehi, bimba. Perché mi ringrazi? Ti
ho prestato qualcosa che non mi ricordo?»
Olette scoppiò a ridere e si
allontanò quel tanto che le bastò per guardarlo in viso.
«La verifica di chimica è andata bene! Ho recuperato
l’insufficienza! È tutto merito tuo!»
«Ah…» Axel si sforzò di
sorridere. «Fico.»
«Grazie, Axel, grazie infinite!»
Olette gli stampò un bacio sulla guancia. Se non ci fossero stati
testimoni, l’avrebbe fulminata all’istante. «Adesso ho
matematica, devo correre o arriverò in ritardo. Ci vediamo!»
Schizzò via veloce come era apparsa,
lasciandosi dietro un eco di risatine da parte degli altri tutor presenti. Axel
si sentì schifosamente osservato: questa non era una circostanza
in cui era piacevole stare al centro dell’attenzione. Sfregandosi la
guancia con gesti quasi rabbiosi, si voltò per rimettere a posto le
provette di cui, a quanto pareva, non avrebbe più avuto bisogno.
Si avvicinò all’armadio delle
scorte e si accorse che c’era già qualcun altro. Roxas Sullivan
stava mettendo via gli appunti di algebra che gli erano serviti con alcuni
ragazzi del secondo anno. Gli arrivò alle spalle in silenzio, ma il
biondino sembrava essersi accorto da un pezzo di lui.
«Avresti anche potuto metterci un
po’ più d’entusiasmo, Carter.»
Axel sbuffò, riponendo lo scatolone con
il materiale di chimica nell’armadio aperto. «Credimi, Sullivan,
fare il tutor non è il massimo delle mie aspirazioni. E poi non li
sopporto, i ragazzini.»
L’altro si voltò a guardarlo;
sembrava sinceramente sorpreso. «Davvero? Allora lasciati dire che sai
fingere bene. C’eravamo cascati tutti. Sembrava che ti stessi
affezionando a Olette…»
Axel scoppiò a ridere. Chiuse
l’anta dell’armadio dalla sua parte e si voltò a sua volta,
mani sui fianchi.
«Affezionando? Io? Ti prego.
Semplicemente le ho spiegato le cose a modo mio… in modo che le
restassero bene impresse nella mente. H2O è la formula da ricordarsi per
allagare i bagni… Un po’ di questo se vuoi far esplodere qualcosa,
un po’ di quest’altro se vuoi colorare di verde le mutande della
tua acerrima nemica…»
Il ragazzo non sorrise neppure. Scuoteva la
testa. «Davvero un brutto esempio.»
«Scricciolo, lei l’ha adorato,
questo brutto esempio. E i risultati parlano chiaro.»
«Perché non sopporti i
ragazzini?» chiese lui a bruciapelo.
Axel lo fissò, perplesso. Per qualche
istante ci rifletté sul serio.
«Non so. Dovrebbe esserci un
motivo?»
Roxas Sullivan annuì. «Ovviamente.
Se una persona dice che non sopporta le verdure, è perché le ha
assaggiate e non le piacciono. Se una persona dice che non sopporta le
bestemmie, è perché è molto religiosa e si sente offesa da
chi bestemmia. Tu perché non sopporti i bambini? Che ti hanno
fatto?»
La sua logica pulita e schiacciante lo
lasciò senza parole. Axel si grattò la tempia, confuso. Il
biondino sorrise al suo silenzio.
«Magari non li conosci abbastanza da poter
dire se ti piacciano o no, non credi?» suggerì chiudendo
l’altra anta dell’armadio.
In quel momento Axel si accorse che tutti nella
stanza erano fermi a guardarli. Con un altro sbuffo, ignorò a bella
posta la sua ultima domanda e si allontanò da lui, meditando di riempire
il momento libero con un paio di tiri di sigaretta.
Si sentì addosso gli occhi azzurri di
Roxas Sullivan fino a quando uscì senza voltarsi dalla porta che Olette
aveva lasciato aperta.
* * *
La professoressa Aqua era una donna paziente,
ma, mentre gli tendeva il foglio coperto in buona parte da segni rossi, i suoi
occhi sfioravano il limite dell’esasperazione. Axel prese la sua verifica
senza scomporsi e senza provare alcuna meraviglia per l’insufficienza che
si era aspettato.
«Mi dispiace, Axel» disse
l’insegnante, evidentemente sincera. «Proprio non capisco quale sia
il tuo problema con la letteratura. Nelle altre materie è tutto a posto,
no?»
Axel si impegnò con tutte le sue forze
per non riderle in faccia. Lui sapeva bene quale fosse il suo problema:
letteratura era l’unico corso che lui e Zexion seguivano in classi
differenti. Lo sforzo fu tale da impedirgli di rispondere, così si
limitò a sollevare le spalle.
«Forse potresti prendere delle
ripetizioni.» La donna si picchiettava l’indice sul mento, pensosa.
«Non è tardi, c’è ancora tempo prima degli esami di
fine anno… So che ti sei iscritto al Progetto Tutor. Non conosci nessuno
lì che possa darti una mano?»
Si figurò la scena: suo padre – che
tra le varie lauree ne annoverava anche una in lettere – che veniva a
sapere che il suo unico erede alla poltrona rischiava di non essere ammesso
alla maturità, per via dell’assenza del suo compagno di banco in
una sola fottuta lezione, e che doveva ricorrere alle ripetizioni per salvare
la faccia a entrambi – Lea Carter e se stesso. Quasi gli venne un crampo
facciale nel tentativo di non sogghignare.
«Pensaci su» insistette la
professoressa. «Lo sai che questo è il tuo ultimo anno.»
Axel sospirò. Tutti a ricordarglielo,
tutti a ripeterglielo come una cantilena: ma credevano davvero che lui fosse
così imbecille da non saperlo?
«Va bene, prof» mormorò
seccato, voltando le spalle e tornando al proprio banco.
Nell’arco di quei pochi passi gli venne
un’idea… Ma quando si sedette, l’aveva rifiutata prima ancora
di elaborarla.
Il chiacchiericcio in mensa sembrava molto più
alto del solito, ma Axel non ci dava peso.
Non aveva più incontrato Roxas Sullivan
dalla mattina precedente, ma questo non gli aveva impedito di ripensare alle
parole che si erano scambiati. Rimuginandoci su, aveva capito che il biondino
era scattato all’argomento “bambini” perché lui viveva
in un orfanotrofio, e quindi praticamente circondato da ragazzini di ogni
età…
Non capiva: perché continuava a
pensarci? Che gliene importava, a lui, delle fisime personali di quel
ragazzo-della-porta-accanto?
Ad un tratto, Axel si rese conto di due cose
contemporaneamente. La prima era che il brusio di sottofondo era aumentato
oltre ogni dire; sembrava che tutti avessero qualcosa su cui spettegolare, quel
giorno. La seconda era che al suo tavolo, invece, il silenzio era altrettanto
assordante.
Silenzio totale da parte di Demyx? La
cosa era sospetta.
Alzò finalmente gli occhi dal pranzo, e
il primo particolare che notò fu che gli occhi di Demyx e Larxene e il
ciuffo di Zexion erano rivolti verso un punto preciso dietro di lui. Il punto
in cui ricordava esserci il tavolo dove per due volte negli ultimi giorni aveva
visto Roxas Sullivan.
Si voltò.
Proprio in quel momento, il
ragazzo-della-porta-accanto si fermava alle sue spalle.
«Ciao, Carter.»
Il mormorio e il silenzio divennero
improvvisamente molto eloquenti.
Axel resistette all’impulso di guardarsi
intorno, ma era certo che tutti i presenti avessero gli sguardi puntati su di
loro. Immaginò quanto dovesse apparire curiosa quella scena ad occhi
esterni: la persona più volutamente invisibile della scuola che andava a
rivolgere la parola a quella più volutamente appariscente.
Immaginò anche la muta domanda nelle menti di tutti: Carter era forse amico
dello strano, solitario “ragazzino dell’orfanotrofio”?
Cercò di mantenere un’aria
distaccata. «Sullivan.»
Il ragazzo sorrideva tranquillo, come se
l’improvvisa confidenza nei suoi confronti fosse assolutamente normale.
«Venivo a chiederti se hai ancora
intenzione di partecipare al Progetto Tutor, ora che hai aiutato Olette a recuperare.
Il professor Vexen ci terrebbe a saperlo in tempo, credo che abbia già
promesso il tuo posto a qualcun altro.» Scosse la testa, divertito.
«Allora? Cosa devo dirgli?»
Axel avrebbe giurato di poter sentire sulla
pelle le occhiate perforanti di Demyx, Larxene, Zexion e di tutti gli altri
studenti della Twilight High.
Si concentrò sul biondino ed esibì
il suo ghigno sadico. «Di’ pure a quella vecchia mummia che ho
chiuso col suo covo di secchioni. La mia pena l’ho già
scontata.»
Demyx ridacchiò. In qualche modo,
sembrava che qualcosa si fosse spezzato.
Roxas Sullivan annuì e sorrise di nuovo.
«Sei libero di non crederci, ma me l’aspettavo. E il professore
sarà probabilmente felice di sapere che non mi sono sbagliato.»
Axel tornò al suo pranzo, indifferente.
Lo sentì allontanarsi, sentì le voci degli studenti calare di
tono e le risate soffocate di Demyx e Larxene di fronte a sé. Il mondo
tornò normale. Axel Carter, al solito, si era dimostrato
l’intoccabile gran figo della Twilight Town High School.
Eppure, quella dichiarazione di confine tra
popolarità e invisibilità non gli dava nessuna soddisfazione.
Tenne gli occhi sul vassoio finché non si
sentì immune dagli sguardi di chicchessia; allora li alzò, emise
uno sbuffo annoiato e con fare distratto appoggiò un gomito al tavolo,
girandosi su un fianco per far scorrere un’occhiata sul refettorio. A
quel punto, certo che nessuno fosse attento a lui, azzardò una sbirciata
tre tavoli più in là.
Lui non c’era.
Axel si alzò.
«Dove vai?» chiese Demyx a bocca piena.
«Bagno» borbottò, dandosi una
leggera pacca sulla tasca dei pantaloni dell’uniforme, il cui rigonfio
tradiva la presenza delle sigarette.
L’amico afferrò al volo. Sorrise e
strizzò l’occhio. «A più tardi, allora.»
Axel si allontanò dal tavolo e percorse
lentamente la lunghezza del refettorio, dandosi la solita aria distaccata. Gli
parve di sentire altri mormorii alle sue spalle lungo la strada, ma si convinse
che stava esagerando. Forse. O forse no.
Superò le porte a molle, aspettò
che si chiudessero dietro di lui e si guardò intorno.
Lo vide alla fine del corridoio, davanti al
distributore automatico; gli dava le spalle. Chiedendosi se si fosse mai
sentito più stupido in vita sua, Axel s’incamminò
verso di lui.
Gli sembrò una strada mille volte
più lunga di quella del dopo-compito, in classe, lungo la quale aveva
avuto l’idea malsana che si era appena riaffacciata alla sua mente.
Arrivò alle spalle di Roxas Sullivan
nello stesso momento in cui recuperava un filo della sua indole ironica.
«Mi spieghi che cos’hai contro la
mensa della scuola?»
Il biondino non ebbe il minimo sussulto di
sorpresa, come se avesse sempre saputo che lui era lì; eppure gli era
parso di essere silenziosissimo…
«Niente.» Si voltò a
guardarlo, un’espressione inquieta sul visetto da bambino.
«Perché me lo chiedi?»
«Sei venuto a rifornirti qui» gli
fece notare Axel, indicando la barretta al cioccolato che l’altro aveva
appena recuperato dal distributore. «So fare anch’io uno più
uno.»
Il ragazzo si rilassò. Alzò le
spalle e cominciò a scartare la barretta, abbassando lo sguardo.
«Non ho niente contro la mensa.» Una
breve pausa. «Tu, invece?»
Axel continuò a fissarlo.
«Eh?»
Lui scosse la testa, sorrise e restò in
silenzio, come se sapesse qualcosa che l’adolescente ignorava. Grande: lo
stava già mandando in bestia. All’improvviso si
voltò e cominciò ad allontanarsi dal distributore.
«Beh, ci vediamo, Carter.»
La stizza si dissipò in fretta. Axel lo
seguì con lo sguardo.
«Aspetta.»
Il biondino obbedì e tornò a
guardarlo, ancora concentrato sul cioccolato; ora sembrava sorpreso, più
di quanto non lo fosse stato poco prima, quando se lo era ritrovato davanti.
Il silenzio si protraeva, ma ormai la sua scelta
l’aveva fatta. Imprecò mentalmente, sbuffò e si decise a
cedere all’eventualità che aveva cercato di accantonare fino alla
fine.
«Sullivan… Ti piace la
letteratura?»
Lui sembrò soppesare con molta attenzione
la domanda. Sollevò di nuovo le spalle, lentamente. «Non so. Credo
di sì.» Diede un altro morso distratto alla barretta di
cioccolato. «Perché?»
Axel gli rispose con un’altra domanda.
«Pensi che il programma di letteratura
dell’ultimo anno possa piacerti?»
Rimase in silenzio, poi annuì con la
stessa lentezza.
«Bene.» Axel sbuffò di nuovo.
«E pensi che sarebbe un problema… per te… darmi delle
ripetizioni?»
I suoi grandi occhi blu lo scrutavano pensosi.
Si sentì mille volte più idiota di quanto gli fosse successo nel
momento esatto in cui aveva pensato di rivolgersi a lui. Non solo stava chiedendo
aiuto – cioè, a Zexion praticamente lo ordinava! – no:
stava chiedendo aiuto a quel ragazzino.
Alla fine, Roxas Sullivan lo sorprese con un
sorriso.
«Immagino che questa non sia una cosa che
vorresti far sapere ai tuoi amici.»
Sospirò. Se non altro, almeno farsi
capire da lui era piuttosto facile.
«Hai centrato il punto.»
«Lo sapevo.» Il biondino sorrise
più apertamente; sembrava divertirsi da matti. «Non sono io ad
avere un problema con la mensa. Sei tu a non volerla affrontare.»
Axel lo osservò accigliato. Perché
doveva mettersi a far filosofia spicciola in quel momento? Gli bastava un
sì o un no, cazzo.
Continuò a guardarlo mentre si dedicava
di nuovo al suo cioccolato, in attesa di un qualunque responso; finalmente, il
ragazzino lo accontentò.
«Posso aiutarti, ma ad una
condizione.»
Axel lo fulminò con gli occhi.
«Ehi, ma tu non eri il buon samaritano?»
«Guarda che non voglio niente da
te.»
«Hai appena detto…!»
«Mi lasci parlare o no?»
Sbuffò ancora. Si arrese. «Qual
è la condizione?»
Il biondino finì il cioccolato,
appallottolò la carta e la lanciò direttamente nel cestino
accanto al distributore. Poi gli piantò in faccia quegli occhi
azzurrissimi, accompagnati da un’espressione molto seria.
«Axel Carter. Mi devi promettere che mai,
assolutamente e in nessun caso, io e te diventeremo amici.»
Axel lo fissò, interdetto. Quando
capì che non scherzava, gli sfuggì una risata.
«Puoi stare tranquillo.»
Lui sorrise e si voltò di nuovo,
affondando le mani in tasca e allontanandosi lungo il corridoio.
* * *
Fu molto strano, dopo, continuare ad ignorarlo ogni
volta che s’incrociavano e contemporaneamente setacciare la scuola per
trovarlo e chiedergli di incontrarsi per lo studio. Fu strano soprattutto
perché, nella settimana seguente a quel loro ultimo incontro a tu per
tu, Roxas fu assente da scuola, e Axel non ebbe più l’occasione di
parlargli lontano da occhi e orecchie indiscreti. Ma il venerdì
successivo fece la sua ricomparsa; così, l’adolescente
saltò l’ora di chimica per andare a sbirciare nell’aula del
Progetto Tutor.
Fu fortunato: il biondino era lì. Emerse
con il viso dai meandri del solito armadio, una nube di polvere sulle guance, e
quando si voltò e lo vide sulla soglia rimase là a guardarlo con
occhi stupiti.
La classe era miracolosamente vuota. Axel
oltrepassò la porta aperta e gli si avvicinò. Roxas sembrò
scuotersi.
«Di ritorno nel covo dei secchioni?»
«Di ritorno da una vacanza?»
ribatté lui.
A sorpresa, l’espressione del ragazzo si
fece spaventata. «Cosa?»
Axel incrociò le braccia. «Te
l’ho detto che non mi piace chi fa troppe domande.»
Quasi all’istante, lui ritrovò il
sorriso. «Anch’io ti ho detto che non mi piace chi evita di
rispondere.»
Axel non replicò. C’era qualcosa di
strano. Come mai quel cambiamento improvviso nel suo sguardo?
Decise di lasciar correre e scosse la testa.
«Senti, volevo dirti…»
«Sì, lo so.» Roxas
tornò ai mucchi di fogli e scatole che stava riponendo
nell’armadio delle scorte. «Mi dispiace, sono stato un po’
impegnato.»
Ebbe la strana impressione che stesse evitando
il suo sguardo di proposito.
In quell’istante, il biondino
barcollò sotto il peso di uno scatolone troppo grosso per lui. Axel si
mosse automaticamente, senza neppure rendersene conto; sostenne la scatola e
gliela prese dalle mani, riponendola nello scaffale più in alto.
«Grazie» fece Roxas, nervoso. Si passò
il braccio sulla fronte accaldata, scompigliandosi i capelli. «Mmm, beh,
stavo per dirti… Magari oggi pomeriggio in biblioteca…»
Axel fece una smorfia. «Non mi piacciono
le biblioteche. Troppo silenzio.»
L’altro sospirò, come se le sue
parole avessero dato conferma ad una sua paura.
«Già. Posso immaginare.» Lo
guardò di sotto in su. «Allora dove vuoi che studiamo?»
Axel lo soppesò con gli occhi per un
attimo, chiedendosi come avrebbe reagito e soprattutto come cavolo era venuta
in mente a lui un’idea simile.
«Lo sai dove abito?»
Roxas rimase per un po’ in silenzio.
Sembrava esitante, quasi allarmato. Alla fine annuì cautamente.
«Sì» sussurrò.
«Lo so dove abiti.»
Axel annuì. Studiò le sue guance
ancora grigie di polvere, e sollevò un dito per ripulirgliele. Ancora
una volta, non si sentiva padrone delle proprie azioni. Dal canto suo, il
ragazzo si ritrasse, distolse lo sguardo e chiuse le ante.
«Sarà meglio che tu torni a
lezione, se non vuoi che i tuoi amici comincino a sospettare qualcosa»
scherzò, con voce ancora un po’ incerta.
L’adolescente si riscosse.
«Sì, sarà meglio.» Si allontanò a sua volta e
rivolse un altro sogghigno alla sua nuca. «Ci vediamo oggi dopo le
lezioni. Cerca di non perderti, Sullivan.»
Roxas si voltò appena, sorrise e
s’incamminò verso la porta. «Non mi perderò,
Carter.»
Quando andò ad aprirgli e lo vide
là nell’ingresso di casa sua, gli affiorò alle labbra un
sorrisetto.
Si era aspettato che Roxas Sullivan si sarebbe
sentito assolutamente fuori posto nella residenza del sindaco di Twilight Town;
ma se era così, sapeva nasconderlo molto bene. Se ne stava sulla porta
con l’aria più serena del mondo, nei suoi vestiti usati ma
impeccabili e con la cartella sulla spalla.
«Cosa c’è di tanto
buffo?»
Axel tornò a se stesso, scosse la testa e
spalancò la porta. «Niente. Vieni dentro.»
Roxas lo seguì in casa. Le sue scarpe da
tennis quasi non emettevano suono, sul parquet di casa Carter.
«Tuo padre non c’è?»
«Assemblea. O quel cavolo che
è.»
«Non ti capita mai di sentirti solo,
eh?»
Axel lo sbirciò di sottecchi. A volte
dimenticava che Twilight Town fosse una cittadina così piccola, che
tutti sapessero tutto di tutti, e che l’assenza di sua madre nella sua
vita non fosse un mistero per nessuno. Strano, però: Roxas Sullivan
sembrava quasi interessato alla sua realtà, mentre lui non aveva
mai neanche sentito parlare del “ragazzino
dell’orfanotrofio”… No, si corresse, in realtà non era
affatto strano. Lui era il figlio del sindaco, il teppista del liceo. E Roxas era…
Beh, era un invisibile. Niente di cui stupirsi che l’uno sapesse
dell’altro così poco, e l’altro sapesse così tanto
dell’uno.
«No» gli rispose infine, «non
mi capita mai.»
Con la coda dell’occhio lo vide annuire,
ma Roxas non disse nulla.
In soggiorno, Axel si diresse ad
un’estremità del lungo tavolo, dove fino a poco prima era stato
stravaccato in compagnia della sua chitarra elettrica.
«Succo d’arancia, Sullivan?»
Lo sentì ridere.
«Cos’è, mi prendi in
giro?»
«E perché dovrei?»
sogghignò, voltandosi a guardarlo.
Roxas non smise di ridere e scosse lentamente la
testa. «No, in effetti hai ragione. Perché dovresti, se non hai un
pubblico?»
Axel sentì il sogghigno scivolargli via
dalla faccia. Perché quella specie di nanerottolo biondo trovava sempre
il modo di metterlo a tacere?
Per un po’ ci fu silenzio. Poi Roxas si
sfilò la cartella dalla spalla, prese posto al tavolo e cominciò
a rovistare tra i libri.
«Ho trovato qualcosa sugli argomenti che
stai studiando. Mi sono dovuto documentare anch’io, sai. Per il momento
ti consiglierei di ripassare Jack London, anche perché ho letto Zanna
Bianca tre volte e dunque saprei ancora meglio di cosa
parliamo…»
«Ah, beh, l’importante è che
lo sappia tu.» Axel gli sedette di fronte, un po’ frastornato.
«Non pensavo ti saresti addirittura documentato. Credevo che ti saresti
limitato a farmi trovare un… com’era?… Ah, sì: metodo
di studio.» Sogghignò di nuovo, lievemente. «Insomma, mi
aspettavo meno partecipazione da parte tua, specie dopo la… condizione
che hai posto.»
Roxas alzò lo sguardo dai libri nel suo
zaino, e gli sorrise di rimando. «Gli affari sono affari, Carter. Ti ho
detto che ti avrei aiutato e lo farò. Ma conosci il prezzo.»
«Sì, sì, tranquillo.»
Axel fece un gesto vago con la mano. «Illuminami pure su questo Jack
London. Il nome mi dice qualcosa, ma il prof sei tu.»
Il biondino sorrise di nuovo, abbassò gli
occhi e tirò fuori i libri dalla cartella, disponendoli con ordine sul
tavolo di fronte a sé. Prima che allontanasse la borsa, Axel fece in
tempo a notare sul fondo lo stesso piccolo volume che gli aveva visto leggere
al refettorio della scuola qualche giorno prima.
* * *
Le ripetizioni di letteratura andavano avanti
già da qualche settimana.
Passare il tempo con Roxas Sullivan era la cosa
più contraddittoria che gli fosse mai successa. In cuor suo, Axel
sentiva di detestare quella sua aria ingenua, la semplicità
semplicemente insopportabile nei suoi occhioni blu. Ma nonostante tutto, non
riusciva a fare a meno di aspettare quei momenti condivisi, quelle occasioni in
cui loro due non erano il mito della Twilight High e il ragazzino
dell’orfanotrofio, ma soltanto due ragazzi seduti davanti a dei libri di
letteratura.
Roxas aveva ragione: senza un pubblico, lui non
provava neanche il desiderio di prenderlo in giro o di allontanarlo in qualsiasi
altro modo. Ciò che il biondino non sapeva era che questa era la prima
volta che gli succedeva di “non avere un pubblico”, e che
stranamente non ne sentiva neanche la nostalgia.
E che fingere in compagnia di Demyx e degli
altri si stava facendo davvero difficile.
Alla metà di marzo, Roxas fu di nuovo
assente per una settimana da scuola. Axel avrebbe voluto capirci qualcosa
– insomma, quelle erano assenze davvero prolungate, ed era già
successo in gennaio! – ma nessuno sembrava aver notato quel particolare.
Nessuno sembrava mai interessarsi al ragazzino solitario che passava le sue
giornate con il naso immerso in un libro e che alla sera si addormentava in un
letto che non sarebbe mai stato davvero suo.
Proprio come la prima volta, lo rivide di
venerdì.
Il refettorio era gremito come sempre, ma Axel
aveva imparato a guardare. Il solito tavolo, rimasto vuoto per quattro giorni,
gli mostrò la vista del ragazzo biondo seduto col solito libro e il
solito vassoio vuoto. Ma non mangiava mai?
Distolse lo sguardo. Demyx e Larxene erano
impegnati in una fitta discussione, Zexion era concentrato sull’iPod; si
disse che poteva rischiare e azzardare un’altra occhiata.
Questa volta, come era già successo, il
biondino alzò gli occhi e lo guardò. Per un attimo si limitò
a fissarlo in modo neutro, ma poi sollevò una mano e abbozzò un
cenno distratto di saluto.
Le voci di Demyx e Larxene scalarono varie
ottave, sovrapponendosi al brusio delle chiacchiere degli studenti. Axel si
voltò verso di loro, infastidito, e interruppe la schermaglia di cui non
aveva neanche capito il motivo.
«Volete darci un taglio o no, voi
due?»
Larxene lo fulminò immediatamente.
«È quest’idiota del tuo amico, Axel. Non capisce quando gli
si dice di no!»
«Sei tu che giochi a fare la
difficile!» ribatté Demyx in tono altrettanto forte.
Axel si alzò in piedi e scavalcò
la sedia su cui era seduto. «Oh, andatevene un po’ al
diavolo.»
Si voltò. Roxas lo guardava ancora, sopra
il suo libro, con aria incuriosita.
L’esitazione durò solo un istante;
poi, Axel raddrizzò le spalle e s’incamminò verso il suo
tavolo.
Vide gli occhi di Roxas Sullivan spalancarsi
sorpresi, mentre molte teste si voltavano nella sua direzione. Axel Carter non
si allontanava mai dal suo tavolo, il tavolo degli in. Quando gli
astanti intuirono la meta del suo improvviso trasferimento, invece che
aumentare, il parlottio si spense del tutto.
Axel superò i tre tavoli di distanza e
andò a sedersi di fronte a Roxas, incrociando le braccia.
Ancora silenzio totale. Chissà che faccia
avevano Demyx, Larxene e Zexion in quel momento.
Roxas lo fissava sbalordito. La voce gli
uscì in un sussurro.
«Che stai facendo?»
Axel scrollò le spalle. «Ti faccio
compagnia.»
Il ragazzo abbassò lo sguardo, confuso;
poi dispose il libro davanti a sé sul tavolo, in modo da costruire una
sorta di barriera tra di loro. Sulla copertina del volume non c’era
nessun titolo. Non lo aveva mai notato.
«Alzati, Carter. Sei ancora in tempo,
prima che i tuoi amici pensino che sei completamente rincretinito.»
«A te dovrebbe importare qualcosa?»
Posò il mento sulle mani a coppa. «Allora è questo il
problema? Non vuoi che io e te siamo amici perché non vuoi rischiare di
rovinarmi l’immagine?»
Lui lo guardò smarrito; il suo visetto
spuntava dal bordo del libro, e Axel si accorse che era più pallido di
quanto ricordasse.
«Ma che ti prende?»
In effetti, non era sicuro di saperlo neppure
lui. Aveva pensato di andare a chiedergli perché fosse stato assente da
scuola tanto a lungo, di nuovo, e invece se n’era uscito con quella
richiesta di spiegazioni sul loro strampalato patto. Forse era vero che era
completamente rincretinito.
Scosse la testa. «Mi pare di non essere
l’unico ad evitare le domande dirette, a questo punto.»
«Axel.» Abbassò il libro e si
sporse verso di lui, arrabbiato. Era la prima volta che lo chiamava apertamente
per nome. «Mi hai dato la tua parola. Cerca di mantenerla, per
favore.»
Di colpo si alzò, libro alla mano, e
voltò le spalle al tavolo.
Axel lo imitò quasi subito, irritato e
confuso dal suo stesso comportamento. Tornò dai suoi amici senza
voltarsi indietro.
Non si era accorto che il silenzio generale era
proseguito per tutta la durata del suo breve colloquio con Roxas Sullivan;
soltanto quando tornò a sedersi, qualcuno prese a sussurrare, spezzando
la sospensione e la sorpresa.
Demyx, Larxene e persino Zexion sembravano
sconcertati.
«Amico» Demyx gli posò una
mano sulla spalla, esitante, «che diavolo sta succedendo tra te e quel
ragazzino?»
Axel si voltò. Le porte a molle del
refettorio si stavano ancora chiudendo su se stesse.
«Non ne ho la minima idea» rispose,
ed era sincero.
Non si aspettava di rivederlo a casa sua, dopo
quella mattina; ma Roxas Sullivan gli aveva già dimostrato di andare
fino in fondo alle proprie idee. Così, anche quel venerdì
pomeriggio si presentò alla porta dei Carter coi suoi fidati libri nella
cartella.
«Scusami, sono un po’ in
ritardo» disse, monocorde. «Sono passato in biblioteca per prendere
un paio di libri in più e ci è voluto più tempo del
previsto.»
Al di qua della porta aperta, Axel lo scrutava e
non sapeva cosa pensare di quel suo far finta di niente. Poi Roxas fece per
entrare, e lui si riscosse, trattenendolo per un braccio.
«No, aspetta.»
Alzò gli occhi su di lui. «Cosa
c’è?»
«Mio padre.» Con una smorfia, Axel
afferrò lo zaino già pronto nella stanza d’ingresso,
uscì all’aperto e si chiuse il portone alle spalle.
«Credimi, meglio per te non ritrovarti da solo nella stessa casa con me e
lui. Oggi si studia nel portico.»
Lo guidò attraverso il giardino ben
curato fino al lato posteriore del villino, alla larga dalla presenza
ingombrante del sindaco Carter. Roxas lo seguì in silenzio.
«Non andate molto d’accordo,
vero?» chiese all’improvviso.
Axel sbottò in una risata amara.
«Dire che questo è un eufemismo è ancora poco.»
«Mi dispiace.»
Si voltò a guardarlo. La sincerità
nei suoi occhi azzurri era palese, e spiazzante.
Axel raggiunse il tavolino di vetro nel portico,
mollò lo zaino sulla superficie lucida e si lasciò cadere a
sedere, sghignazzando.
«Certo che sei strano, tu.»
Roxas rimase in piedi di fronte a lui,
dall’altra parte del tavolo. «Perché?»
«Beh, senza offesa, non mi pare che la tua
condizione familiare sia molto meglio della mia. Eppure dici che ti dispiace
per me.»
Lui si sedette, con un sorrisetto. «Non
credo di essere più strano di uno che prima fa di tutto per mantenere
l’incognito e poi mi viene a parlare alla luce del sole…»
«Già» annuì Axel,
«immagino che tutti abbiamo i nostri livelli di stranezza.»
«Giusto. C’è chi sfoga la
propria bravura in chimica in modo aggressivo…»
«… Chi manca da scuola per giorni
senza dire a nessuno dove accidenti va…»
«… E chi dice di non sopportare le
persone curiose senza rendersi conto di essere una di loro.»
«Non rigirare la frittata,
Sullivan.» Axel perse la voglia di scherzare e si sporse sul tavolo verso
di lui. «Me lo dici o no che cosa combini quando non vieni a
scuola?»
Roxas non si arrabbiò come alla mattina.
Era tornato il ragazzino sorridente che era sempre stato.
«Dirtelo non fa parte degli accordi,
Carter.» Prese i nuovi libri dalla cartella. «Adesso che ne dici di
cominciare a concentrarti sul vero motivo di tutti i nostri incontri?»
Sbuffando, Axel si tirò lo zaino sulle
ginocchia, in cerca degli appunti.
«Com’è
l’orfanotrofio?»
Soltanto con Roxas Sullivan gli succedeva di
agire – parlare, in questo caso – prima di pensare. Doveva farsi
vedere da uno specialista: o non stava bene, oppure era lui che
esercitava qualche forza oscura sul suo subconscio.
Il biondino non manifestò alcuna sorpresa
per quella domanda inaspettata. Rise, con naturalezza.
«Pieno di ragazzini. Non ti
piacerebbe.»
Axel lo guardò di traverso.
Era quasi buio quando lo seguì sul viale
d’ingresso.
«Ci vediamo domani a s…»
«Frena un attimo, Sullivan.»
Il biondino si fermò a guardarlo, in
attesa.
Axel prese un respiro profondo. Era una cosa che
non era abituato a fare, ma sentiva di volerla fare e perciò
andava fatta per bene.
«Non ti ho ancora… ringraziato per
il tuo aiuto.» Sbuffò. «Beh, grazie.»
Ecco fatto. Tutto sommato, non era stato
così terribile.
Il bagliore fioco del crepuscolo illuminò
un sorrisetto ironico sulle labbra di Roxas.
«Non era un’abitudine persa da molti
anni?»
«Già, lo credevo
anch’io» ribatté, scrutandolo in tralice e sbuffando di
nuovo.
Lui rise e scosse la testa. «Non
c’è di che, Carter.» Si sistemò la cartella sulla
spalla. «Bene, allora; se hai finito di rimettere tutto di te in
discussione, io vado.»
«No. Non ho finito.» Axel
infilò una mano in tasca e ne estrasse un mazzo di chiavi. «Ti
accompagno io.»
Il sorrisetto svanì. Roxas lo
fissò con gli occhi azzurri spalancati.
«Mi accompagni tu?» ripeté.
Axel stava già camminando verso la
rimessa. «È un problema per te?»
«Beh… Beh, no» fece il ragazzo
in tono confuso, seguendo quasi automaticamente i suoi passi. «Ma non
pensavo che tu…»
«L’hai detto» sogghignò
Axel, «è tutta una faccenda di rimettere in discussione. Ci credi
se ti dico che non so neanche perché lo faccio?»
Si pentì all’istante della propria
sincerità; cosa diavolo gli stava prendendo?… Ma quando si
voltò a guardare l’espressione pensosa di Roxas, dimenticò
il nervosismo.
«Sì» mormorò il
biondino, come a se stesso, «credo di crederti.»
«Fermati, siamo arrivati.»
Axel accostò, mise in folle e si
voltò a guardare dal finestrino l’orfanotrofio di Twilight Town
che era la casa di Roxas Sullivan. Era una costruzione anonima, un po’
malmessa, il posto più diverso da casa sua che avesse mai visto. Forse
fu per questo che gli piacque.
Alt. Piacergli?… Sì, aveva
proprio bisogno di uno specialista.
Roxas si chinò a recuperare la borsa ai
suoi piedi.
«Grazie del passaggio. Non dovevi
disturbarti. O forse» soggiunse, con un’azzurra occhiata di
sottecchi, «avevi intenzione di impressionarmi con il tuo modo
spericolato di guidare?»
Axel ridacchiò. Aveva sbirciato le
espressioni del biondino lungo tutto il tragitto da casa Carter a lì;
non era mai riuscito a coglierlo in fragrante, ma era quasi certo di averlo
terrorizzato sul serio almeno un paio di volte. Per esempio quando aveva
imboccato una stradina secondaria all’ultimissimo istante, tagliando la
strada ad un ciclista che ne usciva e facendo imbestialire il conducente
dell’autobus subito dietro di loro.
«Sì, può anche darsi.»
Sorrise, vedendolo alzare gli occhi al cielo. «Se preferisci, la prossima
volta puoi guidare tu.»
Roxas si tolse la cintura e aprì la
portiera, continuando a guardarlo ironico. «Sei proprio certo che ci
sarà una prossima volta?»
«Chissà.» Axel alzò le
spalle. «Devo dedurne che non sai guidare?»
«Non ho ancora compiuto sedici anni,
Einstein» gli confermò lui, scuotendo la testa con aria di
commiserazione. Quindi scese dalla macchina e si chinò a guardarlo,
senza chiudere lo sportello. «Comunque mi riferivo alle tue ripetizioni.
Sbaglio o hai una verifica questa settimana?»
Axel sbuffò. «Non sbagli.»
«Beh, allora forse non avrai più
bisogno di me, no? E così torneremo ad ignorarci cordialmente. Estranei
come prima.» Roxas sorrideva. L’ironia, però, era sparita.
«Grazie ancora per avermi accompagnato, Carter. Buona serata.»
Senza aspettare una risposta, chiuse la portiera
e gli voltò le spalle, incamminandosi verso la costruzione logora in cui
viveva con una famiglia che non era tale. Axel rimase per un lungo istante
immobile a guardarlo e a rimuginare sulle sue parole.
Alla fine innestò di nuovo la marcia e si
allontanò dal vialetto d’ingresso. Questa volta si premurò
di controllare che non arrivasse nessuno.
La sagoma di Roxas Sullivan era solo una
figurina minuta nello specchietto retrovisore.
* * *
Lunedì mattina, ora di letteratura. La
professoressa Aqua distribuì le verifiche, accuratamente spillate in
fasci di due fogli.
Axel Carter non aveva studiato granché.
Anche così, quando si ritrovò a leggere le domande,
constatò di conoscere le risposte ad una buona parte di esse. Mentre
l’insegnante tornava alla cattedra, scorse il secondo foglio e gli
sfuggì un sorrisetto: la sufficienza ce l’aveva già in
tasca.
«Cominciate» disse la prof, e la sua
voce si spense in un fruscio di penne su carta.
Axel lanciò uno sguardo al banco dietro
il suo. Il problema dell’assenza di Zexion non riguardava solo lui. Demyx
aveva la testa abbandonata su una mano, gli occhi persi nel foglio bianco. Due
file più in là, Larxene si studiava meticolosamente le unghie,
ignorando la verifica.
Con un altro mezzo sorriso, si concentrò
sul compito e si mise al lavoro.
I minuti trascorsero lenti mentre la penna di
Axel, abituata soltanto a copiare dalle altre e a comporre musica, si
esercitava nel rispondere a quesiti che non erano mai stati al centro del suo
interesse. Aveva già riempito tre quarti del primo foglio quando si
disse che Roxas Sullivan lo aveva cavato da un bell’impiccio, e che tutto
sommato rivolgersi a lui era stata una buona idea.
Quel pensiero portò automaticamente alla
sua memoria il ricordo delle ultime parole che si erano scambiati il
venerdì precedente.
«E così torneremo ad ignorarci
cordialmente. Estranei come prima.»
La penna si fermò.
Gli occhi fissi sulla verifica, Axel
rimuginò a lungo.
Non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse
passato prima che si decidesse a fare quel che fece.
All’improvviso si ritrovò a frugare
nell’astuccio in cerca di un’altra penna: quella che gli era
scoppiata tra le mani qualche mese prima, durante una lezione di algebra, e che
ancora non si era preso la briga di gettare in qualche cestino. Badando che la
professoressa Aqua non lo guardasse, la sostituì con quella che aveva
usato finora per il compito; poi ripose l’astuccio sull’angolo del
banco e ricominciò a scrivere come se niente fosse.
All’istante, il compito si sporcò
irreparabilmente.
«Professoressa?»
La donna alzò gli occhi dal registro.
«Sì, Axel?»
Le mostrò il secondo foglio, ricoperto da
un nero che non era dato dall’insieme delle sue risposte ma da ampie
macchie d’inchiostro. «Un problema con la penna. Potrebbe darmene
un’altra copia, per favore?»
Grande. Aveva usato anche il “per
favore”. Stava migliorando.
Un insegnante come il professor Vexen –
tanto per fare un esempio – avrebbe di certo cominciato a strepitare
contro la negligenza e la sbadataggine di studenti come lui, che non sapevano
neppure fare un compito in classe senza distruggere qualcosa. Ma la
professoressa Aqua non si arrabbiava praticamente mai. Si limitò a
sorridergli comprensiva e a prendere un altro compito dalla pila di fotocopie
avanzate sulla cattedra.
«Non c’è problema. Metti pure
via quella.»
Axel represse un sogghigno. Proprio ciò
che sperava.
* * *
Il mercoledì seguente, armato della sua
determinazione, Axel entrò in mensa in ritardo ed ignorò
volutamente i cenni di Demyx e Larxene. Si guardò invece intorno con
aria svagata e si diresse al tavolo cui sedeva il ragazzino biondo con il
vassoio vuoto e il libro senza titolo.
Gli sembrò che questa volta il cicaleccio
e il successivo silenzio fossero più pesanti della prima; tuttavia, oggi
era troppo concentrato su ciò che voleva lui per stare a
preoccuparsi di quel che pensavano tutti gli altri.
Roxas non smise di leggere, non lo guardò
nemmeno, quando Axel gli si sedette di fronte.
«Com’è andata la verifica,
Carter?» disse soltanto.
Incurante degli sguardi che si sentiva addosso,
Axel iniziò tranquillamente a mangiare il suo pranzo.
«Come al solito» rispose,
riempiendosi la bocca. «Un’altra insufficienza.»
Il ragazzo non alzava gli occhi dal suo libro.
«Capisco.» Voltò pagina. «Quindi?»
Axel cominciava a spazientirsi. Lo stava
prendendo in giro?
«Quindi, se la cosa non ti disturba,
mi servirebbero un altro paio di ripetizioni. Forse tre o quattro.»
Lo vide annuire sopra il bordo della copertina
scura.
«Va bene, nessun problema.»
All’improvviso alzò gli occhi e lo guardò. Difficile capire
se fosse arrabbiato, triste o che altro: in quelle iridi sorprendentemente
azzurre si agitavano pensieri indefinibili. «Adesso, se la cosa non ti
disturba, mi spieghi perché hai intenzione di pranzare a questo
tavolo? Cosa c’è, hai litigato con i tuoi amici?»
«Nah, niente affatto.» Axel gli
scoccò un sorriso sornione. «Volevo tentarti un po’.»
Roxas sollevò un sopracciglio. «Di
che diavolo stai parlando?»
«Di questa.»
Afferrò il trancio di pizza al pomodoro
dal vassoio e lo agitò con fare suadente sotto il suo naso. Roxas
sgranò gli occhi, attonito, ritraendo automaticamente il libro
perché il pomodoro non gocciolasse sulle pagine; aveva un’aria
così confusa che Axel non poté fare a meno di rincarare la dose.
«Annusa, Sullivan: pizza. P-i-z-z-a,
memorizzato? Una delle cose più belle del mondo. Una delle cose che
rendono questa mensa degna di tale nome. Una spianata di farina e lievito
ricoperta dagli ingredienti più appetitosi che esistano. Come fai a
startene lì seduto a leggere? Possibile che non ti tenti neanche un
po’?»
Roxas non guardava la pizza; continuava a
scrutare lui, ed era ovvio che si preoccupava sempre più della sua
salute mentale. Ad un tratto, però, gli sfuggì un risolino.
L’istante successivo scoppiò a ridere.
Axel rimase immobile per un attimo a guardarlo,
come incantato. Non l’aveva mai visto ridere in quel modo.
Il biondino rise e rise, sollevando il libro e
rifugiandovi il viso dietro. Quando si calmò, lo abbassò di nuovo
e riprese fiato.
«Carter, fidati di me, tu sei
completamente fuori.»
«Lieto che tu l’abbia notato.»
Axel cercò di mantenere un tono scherzoso, ma ora si sentiva inquieto.
Molto più inquieto di quando aveva deciso di tornare a quel tavolo.
«Guarda che dico sul serio, Sullivan. Dovrai pur mangiare qualche
volta.»
«Va bene, se proprio insisti, prima o poi
lo farò.» Sorridendo ancora, Roxas puntò il dorso del libro
contro il tavolo e si preparò a riprendere la lettura. «Sei
impegnato questo pomeriggio?»
Axel diede un grosso morso al pezzo di pizza.
«Sì. Ho una ripetizione di letteratura.»
Lui continuò a leggere e a sorridere.
Tutt’intorno a quel tavolo, non esisteva
più niente.
Si era seduto nel portico con la chitarra e,
come gli accadeva spesso, la musica era arrivata da sola.
Aveva soltanto chiuso gli occhi e l’aveva
seguita.
Your
voice was the soundtrack of my summer
Do
you know you’re unlike any other?
You’ll
always be my thunder, and I said
Your
eyes are the brightest of all the colours
I
don’t wanna ever love another
You’ll
always be my thunder
So bring
on the rain, and bring on the thunder
Nel mezzo di quel suo mondo, ad un tratto
avvertì una presenza e fu costretto a tornare alla realtà di
fuori.
In piedi davanti a lui, nel giardino di casa
Carter, Roxas Sullivan lo guardava in silenzio.
Axel si raddrizzò, neanche fosse stato un
bambino sorpreso con le mani nella marmellata.
«Ehi, sei già arrivato?»
Il ragazzo inclinò la testa da un lato,
pensoso; poi sorrise. «Sei bravo, lo sai?»
Ricambiò lo sguardo a lungo.
L’aveva colto di sorpresa, in tutti i sensi.
«Ehm. Grazie.»
Il sorriso di Roxas divenne più
malizioso. «Due ringraziamenti nell’arco di pochi giorni. Non male.
Mi chiedo se riuscirai a fare di questi progressi anche in letteratura»
aggiunse, con un’occhiata scettica allo zaino ai piedi di Axel.
Lui evitò di rispondere, reputando poco
saggio mostrargli la verità che sentiva sul punto di emergere nella
propria espressione.
Lasciò la chitarra sul dondolo e si
alzò, facendo segno al biondino di seguirlo al tavolo dal lato opposto
del portico. Peccato che durante la manovra il suo piede sinistro colpì
lo zaino aperto, che si rovesciò in tutto il suo contenuto di fogli e
cartacce varie.
Axel sbuffò. «Siediti; un attimo e
ti raggiungo.»
Si chinò per recuperare il tutto,
ammucchiandolo di nuovo alla bell’e meglio nella borsa; invece di
obbedirgli, Roxas lo raggiunse e si chinò di fronte a lui per aiutarlo.
«Cos’è questa?»
Aveva appena messo le mani sulla verifica di
letteratura, quella prima versione che lui aveva quasi completato e che poi
aveva voluto occultare – dimenticandosi però di sbarazzarsene.
Axel trattenne un’imprecazione tra i
denti. Non avrebbe voluto guardarlo mentre esaminava il compito; ma alla fine
non riuscì ad impedirsi di sbirciare la sua reazione.
Dopo quella che gli sembrò
un’eternità, il ragazzino alzò la testa.
«Tu… sapevi le risposte.»
Axel non replicò. Cercò di
decifrare il suo sguardo – ma, proprio come quel giorno in mensa,
c’erano soltanto emozioni contrastanti ed incomprensibili nei suoi occhi
blu.
Rimasero così, immobili a terra, fin
troppo a lungo. Axel si chiedeva perché Roxas non gli facesse quella
dannatissima domanda, perché non gli chiedesse il motivo per cui aveva
finto spudoratamente di meritarsi l’insufficienza che aveva preso. Si
aspettava che si arrabbiasse, magari che gli urlasse addosso, che gli ordinasse
di smetterla di comportarsi in quel modo, perché loro due non
dovevano diventare amici.
Aspettava il momento in cui la valanga gli
sarebbe piombata addosso, e soprattutto si chiedeva come accidenti si
sarebbe giustificato.
Perché la verità era che neanche
lui sapeva spiegarsi ciò che aveva fatto.
Alla fine, Roxas si schiarì la voce, gli
rese la verifica e lo zaino di nuovo pieno di scartoffie e si alzò.
«Allora cominciamo?»
Stordito, Axel lo seguì con gli occhi mentre
si dirigeva al tavolo e preparava i soliti libri della biblioteca.
No, inutile, non riusciva proprio a capirlo.
Si alzò a sua volta, lentamente.
«Vuoi ancora aiutarmi?»
Il ragazzo gli dava le spalle; rispose con voce
neutra, piatta.
«Ti ho promesso che ti avrei dato
ripetizioni. Ora non hai passato una verifica. È evidente che ti servono
altre ripetizioni.» Si voltò. «Io mantengo sempre le mie
promesse, Axel.»
Calò un altro lungo silenzio.
Axel non sapeva se ci fosse un rimprovero nelle
sue ultime parole… Non sapeva cosa significasse il fatto che
l’aveva di nuovo chiamato per nome. Non ci capiva più nulla.
Non gli restava che raggiungerlo al tavolo.
E quando lo fece, con sua grande sorpresa, poco
prima che Roxas si sedesse e aprisse un grosso volume intitolato Letteratura
del Novecento, gli sembrò di intravedere un piccolo, breve, timido
sorriso sulle sue labbra.
Con il passare della giornata la tensione si era
dissipata del tutto, al punto che Roxas accettò un altro passaggio in
macchina senza inquietarsi troppo.
Però stavolta, quando raggiunsero il
vialetto dell’istituto, gli fece una domanda che lo spiazzò.
«Ti ricordi di quando mi hai chiesto come
fosse l’orfanotrofio?»
Axel lo soppesò con gli occhi.
«Ah-ha.»
Roxas sorrise. «Perché non vieni a
vederlo con i tuoi occhi?»
L’orfanotrofio di Twilight Town ispirava
quel senso di calore tipico degli ambienti più semplici e poveri; la
tiepida luce che riempiva il locale – un’atmosfera che lo rendeva così
diverso dai posti ampi e freddi in cui era cresciuto – mise subito Axel a
suo agio.
Roxas lo superò per andare ad aprire una
porticina sulla destra dell’ingresso.
«È permesso?»
Axel sbirciò sopra le sue spalle,
sinceramente incuriosito dalla nota affettuosa nella sua voce.
Oltre la porta c’era una piccola sala
dalle pareti tinte in toni pastello. Due ragazze sui vent’anni sedevano
sul pavimento insieme ad una decina di bambini concentratissimi su scatole di
colori, pennelli, album e fogli bianchi.
Quando Roxas parlò, l’attenzione
generale si spostò su di lui, e subito fu un’ovazione di
squillanti voci infantili.
«Roxas! È tornato Roxas!»
I bambini si alzarono tutti insieme e gli
corsero incontro. Ridendo, Roxas fu costretto a bilanciarsi su un piede per non
perdere l’equilibrio dopo che una bimba dai capelli rossi gli si
gettò letteralmente addosso.
«Ciao anche a te, Kairi.» La
scostò un po’ da sé e fece scorrere uno sguardo dietro di
lei. «State disegnando? Dai, fatemi vedere.»
Axel rimase al suo posto mentre i piccoli
squittivano d’eccitazione e correvano a prendere le loro opere per
mostrarle a Roxas; alcuni trascinarono il ragazzo dentro la stanza,
afferrandolo per le mani e per i vestiti.
Una delle due giovani donne si alzò e si
rivolse al più scalmanato di tutti. «Sora, lascialo in pace. Il
nostro Roxas sa camminare da solo.»
«No, davvero, Yuffie. Va bene
così.» Roxas strizzò l’occhio al bambino dai capelli
castani impossibili e i vestiti impasticciati di colori. «Non darle
retta, Sora, è solo che sta diventando adulta.»
«Sì» sghignazzò Sora,
mostrando i vuoti dei dentini caduti, «tra un po’ diventerà
una vecchietta antipatica!»
La giovane di nome Yuffie – che a dirla
tutta non sembrava neppure più grande di Axel – partecipò
allo scherzo assumendo una finta aria da maestrina acida. «Ma come siete
simpatici, voi due. Badate che vi rifilo una bella sculacciata.»
Sora e Roxas risero insieme, contagiando gli
altri bambini.
Axel non riusciva a muoversi. Continuava a
pensare alle parole di Zexion e di Demyx, il giorno in cui avevano parlato per
la prima volta del “ragazzino dell’orfanotrofio” e si erano
chiesti come si potesse essere felici in un posto come un orfanotrofio. Non si
era aspettato di vedere tanto affetto, tanta serenità, tanta gioia
entrando là dentro…
Si scosse quando vide, sulla soglia, una bambina
bionda che lo guardava attentamente, con due occhi color indaco che sembravano
infinitamente saggi.
«Ciao.» La bimba sorrise.
«Come ti chiami?»
Axel si accovacciò per ritrovarsi alla
sua altezza. «Ciao, piccola. Io sono Axel. E tu come ti chiami?»
«Naminè.»
«Naminè? Bel nome.»
Lei arrossì. «Grazie.» Con le
mani tormentava un lembo del grembiulino a quadretti. «Sei un amico di
Roxas?»
Axel lanciò un’occhiata al ragazzo
al centro della camera, che studiava e commentava con un sorriso i disegni dei
suoi piccoli amici. Proprio in quel momento, Roxas si voltò nella sua
direzione, notò il suo sguardo e sorrise direttamente a lui.
Incoraggiato, Axel si concentrò di nuovo
sul visetto di Naminè.
«Qualcosa del genere» le disse.
Un’ombra calò su di loro;
sollevando di nuovo la testa, Axel si ritrovò a guardare la ragazza dai
capelli castani che aveva visto intrattenere i bambini insieme a Yuffie.
Sorrideva gentilmente.
«Non mi presenti il tuo nuovo amico,
Nami?»
Naminè la guardò e sembrò
perdere all’istante la voglia di chiacchierare. Rivolse un saluto ad Axel
agitando la manina, quindi schizzò via verso Roxas e il gruppo dei suoi
compagni.
Axel si sollevò all’altezza della
giovane donna, confuso. «Mi sono perso qualcosa?»
Lei sospirò. Parlò a voce molto
bassa.
«Mi dispiace. Naminè è qui
con noi da poco tempo, e non ha ancora legato con nessun altro che con Roxas;
è estremamente timida e non riesce a parlare di fronte a noi.» Gli
rivolse un altro sorriso, più ampio. «È ovvio che
però ha visto in te qualcuno di cui potersi fidare.»
Axel tornò a guardare Naminè, che
aveva raggiunto gli altri, avvertendo un crescente senso di disagio. E pensare
che aveva detto a Roxas di non sopportare i ragazzini.
«Io sono Aerith» continuò la
giovane. «E tu devi essere Axel. Roxas ci ha parlato di te.»
La fissò, sconcertato. «Sul
serio?»
«Certamente.» Il suo sorriso assunse
una sfumatura divertita. «Cosa c’è? La cosa ti
stupisce?»
Roxas stava accarezzando i capelli di
Naminè, facendole i complimenti per il suo disegno. Axel lo
guardò, cercando di immaginarsi le parole con cui aveva descritto il
loro strano e traballante rapporto a quelle persone sorridenti che lui non
conosceva e che forse non aveva neppure il diritto di conoscere.
«Ad essere sincero… un po’
sì.»
Roxas alzò gli occhi quando Sora, in un
altro dei suoi slanci di entusiasmo, trascinò anche Axel sul tappeto.
Si ritrovarono seduti vicini, circondati da
quella famiglia allargata, la migliore che Axel Carter avesse mai conosciuto.
«Allora» sorrise Roxas, «stai
ancora lottando con il tuo pregiudizio sui bambini?»
Scrutò per un istante la sua espressione
serena. Alla fine rispose scuotendo la testa. Non c’erano parole.
Però c’era una domanda che voleva
fargli ad ogni costo.
«Perché mi hai lasciato
entrare?»
Non era esattamente così che avrebbe
voluto esprimersi. Perché mi hai lasciato entrare nel tuo mondo, perché
non mi hai allontanato come al solito sarebbe stato qualcosa di più
esaustivo. Ma ora come ora, non sapeva bene dove andare a pescare le frasi
più giuste, o il coraggio di pronunciarle.
Roxas sostenne il suo sguardo senza esitazioni.
«Per lo stesso motivo per cui hai
macchiato d’inchiostro quella verifica, credo.»
Axel si sentì tirare per un braccio; si
voltò per accontentare Sora ed esprimere un giudizio sul disegno che gli
stava mostrando. L’aveva appena fatto, e mostrava due sagome umane
stilizzate, una più alta con una macchia indistinta di rosso sulla
testa, l’altra più piccola e bionda.
«Allora, Axel? Ti piace? Ti piace?»
Sorrise, gli occhi fissi sul foglio.
«Sì, Sora, è veramente una forza.»
Sora trillò eccitato, aggiudicandosi uno
scapaccione da parte di Kairi, la piccola rossa precoce.
Axel abbassò la voce, tornando a
rivolgersi a Roxas. «Lo sai che cosa significa questo, vero?»
Lo sentì sospirare.
«Sì, Axel Carter, lo so. Significa
che stai disonorando la promessa.»
«Che stiamo disonorando la
promessa, vorrai dire.»
Roxas chinò il viso. «Già.
Stiamo.»
C’era l’ombra di un sorriso nella
sua voce. Di un sorriso che suonava triste.
Quella sera, quando imboccò il viale della
villa, Axel si sentiva girare la testa. Non sapeva dove lo avrebbe portato
quella storia, ma cominciava ad intuire che non avrebbe mai più potuto
semplicemente escludere Roxas Sullivan dalla propria vita. Non sarebbe mai
tornato ad ignorarlo, a giudicarlo un invisibile, perché quella sua
invisibilità era stata la cosa più vera che gli fosse
capitato di vedere da molto tempo, forse da tutta una vita.
In un modo o nell’altro, per qualche
strampalato e sconosciuto motivo, stavano diventando amici.
Axel fermò la macchina davanti alla
rimessa, spense il motore e scese dall’auto.
Sussultò quando guardò verso il
portico e vide nella penombra la sagoma indistinta di Demyx.
«Dem? Che ci fai qui?»
S’incamminò verso di lui; man mano
che si avvicinava, vedeva il suo volto emergere alla luce fioca proveniente
dalle finestre. Sembrava irritato.
«Che ci faccio qui? Vediamo. Se non
sbaglio avevamo appuntamento questa sera per provare insieme, no?»
Axel trattenne uno sbuffo. Se n’era
completamente dimenticato.
«Hai ragione. Mi dispiace, ho perso la
cognizione del tempo.» Lo raggiunse e inarcò un sopracciglio.
«Comunque potevi anche aspettarmi dentro. Non ti ha aperto mio
padre?»
Demyx lo fulminò con gli occhi.
«Oh, sì che mi ha aperto. Mi ha aperto e mi ha detto che eri fuori…
Che dovevi accompagnare a casa un amico che ultimamente viene spesso a
trovarti. Un ragazzino biondo, mi pare abbia detto così.»
Axel non aveva mai detto a suo padre che Roxas
gli stava dando ripetizioni di letteratura. Lo aveva presentato come un semplice
compagno di studi. Ma al momento il punto non era il ruolo di Roxas nella sua
istruzione, quanto piuttosto il ruolo di Roxas nella sua vita. Era
evidente che era questa la domanda che angosciava Demyx, che gli conferiva
quell’espressione contrariata così insolita per la sua perenne
allegria.
«Stammi a sentire, Axel.» Aveva
incrociato le braccia sul petto; in quel momento – e più del
solito – sembrava un bambino imbronciato. «Non mi interessa che tu
abbia altri amici, lo sai. So di essere il tuo migliore amico… o
perlomeno lo sapevo fino ad oggi. Ma non ti riconosco più.
All’improvviso cominci a dare confidenza a questo biondino e
cominci… cominci… a cambiare, ecco. Sparisci per ore intere,
ti incontri con lui senza parlarne con me e gli altri, e oggi sei anche andato
a mangiare al suo tavolo. Io non ti capisco. Davvero preferisci… la sua
compagnia alla nostra? Alla mia?»
Ci volle tutta la sua forza di volontà
per impedire ad Axel di ringhiare come una bestia furiosa.
«Dem, avrò pure il diritto di fare
quel che cazzo mi pare senza doverne rendere conto a te, a Zexion, a Larxene o
chiunque altro.»
«Non ti sto accusando di questo.»
«No? Strano. A me sembrava di
sì.»
Demyx si morse il labbro. Stava evidentemente
lottando con le parole.
«Qual è il problema?» sbottò
Axel. «Hai qualcosa contro Roxas?»
Nella penombra, l’amico impallidì.
«Lo vedi? Ti stai ascoltando? Un mese fa neanche lo conoscevi. E di
sicuro non parlavi di uno di noi in quel tono. Non credere che sia
gelosia» lo prevenne precipitosamente, «è semplice
incomprensione. Stai cambiando, lo capisci? Io-non-ti-riconosco-più!
Sto solo cercando di capirti, Axel, accidenti a te!»
Axel si voltò di scatto e si diresse alla
porta secondaria che dava sul portico; si fermò prima di raggiungerla,
sentendo la rabbia sbollire.
«Forse hai ragione.» Chiuse gli
occhi, e sotto le palpebre trovò ad aspettarlo il viso bambino di Roxas,
il modo in cui aveva sorriso a Naminè, il suo sguardo serio quando aveva
trovato la verifica di letteratura. «Sto cambiando davvero. Non mi
riconosco più neanch’io. Ma la sai una cosa?» Sorrise,
consapevole che Demyx non avrebbe visto quel sorriso, e che forse in ogni caso
non l’avrebbe capito. «Non è detto che questo sia un
male.»
* * *
Con il passare del tempo, Axel aveva cominciato
a sedersi tutti i giorni al tavolo di Roxas. Gli sguardi della gente non erano
diminuiti, ma, se non altro, lui aveva smesso del tutto di curarsene.
In mensa, Roxas non mangiava mai. Nelle poche
occasioni in cui Axel lo incrociava nei corridoi, poteva capitargli di vederlo
mordere senza convinzione una delle solite barrette di cioccolato del
distributore automatico; per il resto non aveva idea di come si reggesse in
piedi. Inoltre, anche se partecipava alla conversazione e non mostrava
più di volerlo allontanare, aveva sempre gli occhi tra le pagine di quel
libro nero senza titolo.
Axel Carter era sempre stato un animo inquieto e
– la cosa andava da sé – curioso. Già, curioso, alla
faccia delle sue antipatie per la gente curiosa. E per i suoi standard, due mesi
e mezzo di resistenza erano un vero e proprio record.
«Dimmi una cosa, scricciolo…»
Nonostante tutto, non era ancora riuscito a
rivolgersi a lui chiamandolo per nome. Preferiva rimanere sulla linea di
confine dell’ironia, come per lasciargli l’illusione di non aver
ancora rotto la promessa che gli aveva fatto tre mesi prima, alla fine di
gennaio, in un corridoio deserto… Quando in realtà lui per primo
sapeva bene che non era così.
Roxas sospirò profondamente. «No,
Axel, non ho fame.»
«No, non è questo che volevo
chiederti.»
«Un’altra ripetizione? Domani
pomeriggio andrebbe bene?»
«Non è neanche questo.»
«D’accordo. Non ci arrivo.
Sorprendimi pure.»
Axel puntò i gomiti sul tavolo e
stritolò tra le mani un tovagliolo, fissando accigliato la sua testolina
china. Con chiunque altro sarebbe stato diverso: gli avrebbe strappato il libro
di mano e avrebbe verificato da solo. Eppure l’idea di comportarsi in
modo tanto immaturo con Roxas… Così come l’idea di superare
la linea ironica, di instaurare un vero contatto… Tutto questo lo
imbarazzava. E non riusciva a capire perché.
«Si può sapere che cosa leggi tutto
il tempo?»
Lentamente, Roxas ricambiò il suo
sguardo.
Sotto quegli occhi, Axel ebbe il tempo di
pentirsi mille volte di averglielo chiesto.
Ma Roxas Sullivan lo aveva già sorpreso
altre volte. E questa fu soltanto l’ennesima.
Abbassò gli occhi e le mani, arrossendo.
La vista di quel rossore colpì Axel molto più del gesto
successivo.
Roxas spinse lievemente il volume sul tavolo
verso di lui, e sussurrò qualche parola senza guardarlo.
«Il diario di mia madre.»
Axel lasciò scivolare nel vassoio il
tovagliolo. Abbassò le braccia. Rimase in silenzio, perché non
avrebbe saputo che cosa dire.
Dal canto suo, Roxas sembrava aver deciso che
l’unico modo per superare l’impasse era continuare a parlare.
Sempre a bassa voce.
«Me… Me l’hanno dato quando ho
compiuto dieci anni. È l’unica cosa che sia rimasta… di
lei… all’istituto. Lo so a memoria, però…
Beh…» S’interruppe e sorrise, colpevole.
Dopo un solo istante, Axel sentì il tocco
delle sue mani minute, che gli posavano tra le dita il libro ancora aperto.
La sorpresa gli rese difficile parlare.
«Vuoi… che lo legga?»
Roxas strinse le labbra e annuì. Tolse le
mani dalle sue, e all’istante Axel sentì un brivido di freddo.
Sfuggendo a quello sguardo silenzioso, non
poté fare altro che abbassare il suo su una grafia nitida e femminile.
13 agosto
Il mio bambino è la cosa più bella
che abbia mai avuto.
Lo stringo a me, lo cullo tra le braccia, e non
riesco a pensare ad altro. Non posso fare a meno di chiedermi cosa ho fatto per
meritare questo dono. Pochi minuti dopo essere venuto al mondo ha spalancato i
suoi occhi azzurri e mi ha guardata, ha guardato dritto nei miei… E
allora ho pensato: questa è la felicità. Sono sicura che chiunque
avrà modo di incontrare questi suoi occhi, almeno una volta nella vita,
si dirà la stessa cosa.
Cerco di non pensare a suo padre, ma è un
pensiero ricorrente. Mi chiedo dove sia, se pensi a noi. Poi guardo il mio
piccolo, e vedo che Ventus Sullivan sarà sempre con me. Anche se io non
sarò qui quando lui tornerà.
In questo momento il mio bambino mi guarda
dall’altra parte di un vetro. Sembra quasi che sappia che tra poco tempo
dovremo dirci addio. Premo il palmo sulla superficie; vorrei tanto toccarlo ancora
una volta. Vorrei non doverlo lasciare mai.
Ho paura. Ho paura per lui.
Prego Dio ogni minuto perché gli sia
vicino.
Il mio bambino si chiama Roxas.
Axel tenne gli occhi fissi su quell’ultima
riga, incapace di voltare pagina.
Avrebbe voluto fare tante domande, e aveva paura
di sentire le risposte, e gli mancavano le parole e la voce.
Ma come al solito, Roxas capì senza il
bisogno di voce o di parole.
«Era malata» lo sentì
mormorare, pianissimo, un bisbiglio appena udibile nella mensa affollata.
«Morì due settimane dopo. Ha scritto che mio padre era partito per
le Destiny Islands, in cerca di fortuna e di un modo per farla guarire. Erano
molto poveri. Lui non avrebbe voluto lasciarla, nelle sue condizioni, ma non
c’era altro da fare.» Una pausa, in cui Axel immaginò che
Roxas stesse lottando per mantenere lo stesso tono neutro. «Lei rimase ad
aspettarlo senza la speranza di rivederlo. Non seppe più niente di lui,
e nemmeno io ho mai saputo chi e dove fosse. Però ho questo diario, e mi
basta per sentire lei… un po’ più vicina.»
Axel alzò il viso. Per la prima volta da
che lo conosceva, osservò attentamente la sfumatura intensa dei suoi
occhi.
… Chiunque avrà modo di incontrare
questi suoi occhi, almeno una volta nella vita, si dirà la stessa cosa.
All’improvviso gli sembrò
squallido, squallido e fuori luogo, quel volgarissimo refettorio scolastico
pieno di facce vuote e di parole senza senso. E desiderò essere altrove,
in un posto in cui la serenità che c’era negli occhi di Roxas
Sullivan – di quel ragazzino che sorrideva timido ad un passato che gli
era stato tolto – potesse essere compresa fino in fondo, un posto che lui
potesse sentire finalmente e veramente suo.
Come se percepisse i suoi pensieri, Roxas
sorrise di nuovo, senza alcuna traccia di amarezza.
Era il sorriso più bello che Axel avesse
mai visto.
Sforzandosi di non soccombere ai sentimenti che
si sentiva crescere dentro, chiuse il libro e distolse gli occhi.
Il suono della campanella segnò il
ritorno da un luogo a metà tra il ricordo e il sogno.
* * *
Le ripetizioni di letteratura erano diventate
solo un pretesto. Probabilmente fu per questo motivo che Roxas non
manifestò eccessiva sorpresa il pomeriggio in cui Axel, invece che con i
soliti libri, lo accolse con in mano le chiavi della macchina.
«Oggi niente ripasso, scricciolo. Vieni
con me.»
Il ragazzino biondo lo guardò mettere in
moto con occhi – Dio, quegli occhi – tra l’ironico e
il severo.
«Uffa, Axel. Potevi anche dirmelo a
scuola. Hai idea di quanta roba porto in questo zaino?»
Axel dovette impiegare tutto il suo sangue
freddo per non mostrare quanto lo turbasse il sentire il proprio nome dalle sue
labbra.
«Va bene. Capito. Devo farmi
perdonare.» Alzò gli occhi al cielo, fingendo esasperazione. Come
se non sapessero entrambi che quella “roba” nel suo zaino era
assolutamente inutile. «Però non posso farmi perdonare se
non ti sbrighi a saltar su.»
Roxas lo fissò, immobile sul vialetto.
«Che hai in mente? Devo preoccuparmi?»
Per tutta risposta Axel sporse la testa dal
finestrino e tamburellò le dita sul volante. «Vogliamo muoverci,
sì?»
Sconcertato e impacciato, Roxas girò
intorno all’automobile e aprì lo sportello; si sedette lasciandolo
aperto e sistemandosi lo zaino tra i piedi.
«Senti, non per essere scortese, ma io
continuo a non capirti…»
«Ah, beh» sogghignò Axel,
sporgendosi su di lui per chiudergli la portiera, «in questo siamo in
due.»
Il colpo secco dello sportello servì in
qualche modo a distoglierlo dalle sue stesse parole, a fargli notare di essere
quasi disteso addosso a Roxas. Sollevò lo sguardo e si ritrovò a
un soffio dal suo faccino confuso.
Aveva le ciglia molto lunghe. Non l’aveva
mai notato. Non era mai stato così vicino…
Il momento si protrasse a lungo, mentre Roxas
ricambiava l’esame, con aria sempre più disorientata. Alla fine si
schiarì leggermente la gola.
«Ehm. Non avevi fretta?»
Axel si scosse e si ritrasse bruscamente da lui.
Era rimasto senza fiato.
«Già» borbottò,
sforzandosi di recuperarlo alla svelta e di concentrarsi sull’auto.
«Già.»
Con le dita corse alla chiave; poi si
ricordò che il motore era già avviato, e spostò la
traiettoria della mano verso il cambio, augurandosi che Roxas non si accorgesse
del suo impaccio.
Quando tornò a sbirciarlo, lo vide
voltarsi verso il finestrino. Sembrava che fosse arrossito.
«Mi dici dove andiamo?» sentì
che chiedeva rivolto al vetro.
Di nuovo presente a se stesso, Axel guidò
la macchina personale del sindaco di Twilight Town lungo il viale che usciva
dal villino. Si concesse un sorriso.
«Vedremo.»
Uscì dal bar accanto alla stazione e si
guardò attorno in cerca di Roxas. Lo intercettò subito: se ne
stava accovacciato accanto al muro, ad allacciarsi una scarpa, i capelli sugli
occhi. Quando lo vide scostarseli passandosi un braccio sulla fronte, Axel sentì
una dolorosissima stretta allo stomaco. Una sensazione che aveva provato per la
prima volta in terza elementare, quando aveva visto Larxene infilarsi il
costume per la recita scolastica negli spogliatoi delle bambine.
Oddio. Quando, quando era successo
che…?!
Proprio in quel momento Roxas si alzò e
guardò dalla sua parte, costringendolo per la seconda volta in pochi
minuti a tornare bruscamente alla realtà.
Axel sfoderò il suo ghigno più
sornione e gli si avvicinò, senza togliere le mani dalle tasche.
«Ecco fatto. Ti presento…» gli
si parò di fronte ed estrasse platealmente ciò che aveva in mano,
«il gelato al sale marino!»
Da allarmato, lo sguardo di Roxas si fece
incredulo. Le sue sopracciglia sparirono sotto la frangia di capelli biondi.
«Ah. Dunque sarebbe questo il tuo “modo
di farti perdonare”?»
«Più o meno.» Gli fece
oscillare il ghiacciolo davanti al naso, cercando di non crepare dal ridere per
la sua espressione esasperata – stile cartone animato con la gocciolina
in testa. «E dai, coraggio. È solo un gelato. Cosa ci vorrà
mai a mangiare un gelato?»
Roxas sogghignò di rimando. «Tu non
vuoi farti perdonare di nulla. Tu stai cercando di incastrarmi, Carter.»
«Nooo, cosa te lo fa credere?»
«Come pensavo. Avrei dovuto capirlo
subito.» Scuotendo la testa divertito, il biondino osservò il
gelato. «Al sale marino?»
«Un nuovo gusto. Si trova solo qui a
Twilight Town. Noi sì che affrontiamo il problema della fame nel mondo:
ghiaccioli al sale marino, pensa un po’.»
Roxas alzò di nuovo gli occhi, stavolta
sinceramente sorpreso. Era incredibile quanto fossero espressivi, quegli
occhi.
«Vorresti dirmi che Axel Carter si
preoccupa del problema della fame nel mondo?»
Axel si chinò con il viso al suo livello
e strizzò l’occhio. «Ora come ora, mi interessa il problema
della tua fame.»
Il biondino si tirò indietro, arrossendo.
Difficile intuire se per quella vicinanza improvvisa o per l’accusa
velata al suo continuo digiuno. Poi però trasse un sospiro, prese il
gelato, lo scartò e lo morse.
Ci volle qualche secondo perché Axel si
scuotesse dalla contemplazione delle sue labbra.
Quando ne fu in grado, si raddrizzò e si
dedicò al suo gelato, guardandosi intorno con aria fin troppo
indifferente.
«Bene, problema risolto. Dove vuoi che
andiamo?»
Non si era aspettato una risposta precisa, ma
neppure un silenzio simile. Abbassò gli occhi per sincerarsi che Roxas
non si fosse giocato le corde vocali con il gelato… e lo vide con lo
sguardo a terra e l’espressione di chi è sul punto di prendere una
decisione che cambierà le sorti di una nazione.
Come qualche minuto prima aveva parlato al
finestrino, adesso il ragazzo parlò al marciapiede.
«C’è… C’è
un posto.» Deglutì. «Un posto che voglio mostrarti.»
Axel aspettò che sollevasse la testa, ma
lui non lo fece. Si limitò ad afferrarlo piano per una manica,
esortandolo a seguirlo lungo la strada che si allontanava dalla stazione.
«Vieni, non è molto lontano.
Possiamo arrivarci a piedi.»
Non sentì le sue parole. Era ancora
concentrato sulla sua mano esitante… e sulla consapevolezza che, a
dispetto di ogni intenzione e di ogni previsione, Roxas Sullivan gli stava a
poco a poco mostrando tutto il suo mondo.
Twilight Town era un piccolo centro urbano
sperso tra colline verdi e basse, collegato alle città più vicine
unicamente da quella linea ferroviaria quasi fatiscente. I cittadini amavano
definirlo «un ridente paesino dove il tramonto è unico». E
su questo non si poteva non essere d’accordo: lo spettacolo del sole
morente tra le colline era qualcosa che aveva colpito nell’animo i coloni
fondatori – che proprio in nome di quelle straordinarie tonalità
di rosso e violetto l’avevano chiamata Twilight Town, la
“città del crepuscolo” – così come oggi colpiva
chiunque avesse un momento per fermarsi a guardarlo sul serio.
Là dove finivano le case, subito dopo
c’era il verde della campagna. E proprio lì c’era il posto
che Roxas aveva voluto mostrargli.
A prima vista non aveva nulla di unico. Era un
prato come ce ne potevano essere a milioni; un prato costeggiato da alberi in
fiore e interamente coperto di gigli bianchissimi. Ma nel momento stesso in cui
vide Roxas mettere piede tra quei fiori, Axel capì che era più
speciale di quanto si potesse immaginare.
Il ragazzino guardava lontano, dandogli le
spalle. Ad un tratto si sedette e si strinse le gambe al petto: l’erba e
i fiori erano così alti da lambirgli quasi le spalle. La sua voce giunse
da un posto che sembrava infinitamente più lontano di quei tre passi che
li separavano.
«Qui è dove vengo quando…
penso di perdere la speranza.» Scosse la testa. «Voglio dire,
quando sono triste. Questo posto mi fa stare meglio. È qui che loro si sono conosciuti.»
Axel non disse nulla. Non aveva bisogno di
chiedere, per sapere chi fossero “loro”.
Roxas si voltò a guardarlo, e come al
solito lo sorprese, rivolgendogli un sorriso imbarazzato.
«Alla fine ce l’hai fatta, Axel.
Come vedi, alla fine non sei stato l’unico a mettere tutto in
discussione.»
Lo capiva. Capiva perfettamente. Però non
riusciva ancora a capire perché, che cosa avesse fatto per
meritarsi la fiducia – l’amicizia – di Roxas Sullivan. O
anche solo quel suo sorriso.
Lo raggiunse lentamente, si lasciò cadere
al suo fianco e si distese tra i gigli, incrociando le braccia dietro la testa.
In fondo non c’era niente di cui parlare, niente da dire. Sentì
Roxas distendersi al suo fianco, e per un po’ si godette semplicemente la
sua vicinanza.
Fu di nuovo Roxas a rompere il silenzio, ma
questa volta nel suo tono sommesso c’era una nota di delusa tristezza.
«Me l’avevi promesso. Mi avevi
promesso che non saresti diventato mio amico.»
Axel voltò il capo. Attraverso i gigli
che li circondavano come un abbraccio profumato, guardò le sue braccia
abbandonate ed aperte, il petto esile sollevato a metà di un respiro, il
cielo che si specchiava nelle sue iridi. E allora si sollevò di scatto
su un gomito e ritrovò le parole – quelle sbagliate.
«Chi ti dice che io voglia essere tuo
amico, Roxas?»
Lui lo fissò, capì e
arrossì.
Axel si sarebbe tagliato la lingua a morsi, se
solo fosse servito a qualcosa. Ma ormai si era spinto troppo oltre, parole o
non parole; in un modo o nell’altro, sapeva che quella che lo legava al
ragazzino disteso sotto di lui non era solo comprensione, solo fiducia, solo
amicizia. In quello stesso momento, trovandosi insieme in quel prato, stavano
condividendo qualcosa che andava al di là di ciascuna di quelle parole.
E questo pensiero lenì l’imbarazzo
e il rimorso; e adesso, a quel punto, l’idea di mettere tutto in
discussione non lo spaventava più.
Si chinò ancora su di lui, lentamente,
aspettandosi quasi di vederlo sgusciar via sotto il suo gomito, veloce come un
fulmine. Invece – per quanto le sue guance fossero rosse e i suoi occhi
spaventati – Roxas rimase immobile.
«No, Axel.» Scuoteva la testa con
impeto. «Non puoi. Non possiamo. Non devi neanche pensare a quello
che stai pensando.»
Nonostante tutto, Axel non riuscì a
nascondere un sorrisetto. «Sentiamo. Cos’è che starei
pensando?»
Roxas prese fiato, come per urlare… Invece
gli sfuggì un sussurro spezzato.
«Non devi innamorarti di me.»
Axel si bloccò.
Rimase sospeso a poca distanza dal suo viso, a
guardare il suo rossore e ad ascoltare il suo respiro improvvisamente
affannato, a chiedersi come diavolo fosse possibile che Roxas Sullivan lo
capisse in quel modo, che capisse sempre tutto un secondo prima di chi
gli stava davanti, anche quando il “tutto” riguardava
l’altro.
Ma non gli importava di conoscere le risposte.
Ci aveva rinunciato da un pezzo.
«Allora avresti dovuto inserire anche
questa clausola nel contratto. Ma immagino che non sarebbe cambiato
nulla.»
Una lacrima corse giù dalla guancia di
Roxas e morì da qualche parte tra i gigli. Forse, tra molti anni, in
quel punto sarebbe cresciuto un fiore che sarebbe stato tutto suo. Axel
seguì con il dito il percorso della lacrima in senso inverso, risalendo
fino alle sue ciglia umide; il ragazzino smise di opporre resistenza, e chiuse
gli occhi, con un sospiro che lo scosse tutto.
Quando scese sulle sue labbra e si sentì
la sua piccola mano sul cuore, capì che quella eventuale clausola non
sarebbe valsa neppure per Roxas.
* * *
All’inizio di maggio, il principale
argomento di pettegolezzo nei corridoi e nelle aule della Twilight Town High
School era lo strano affiatamento, col tempo diventato sempre più
palese, tra Axel Carter e Roxas Sullivan. Solo alcuni avevano notato
l’inusuale inattività del cospiratore di scherzi più o meno
pericolosi dell’ultimo anno, da quando si era avvicinato al ragazzino
dell’orfanotrofio – ma tutti, in linea di massima, sapevano che
quell’amicizia improvvisa quanto inaspettata celava molto più di
quanto si intravedesse in superficie.
Axel non aveva occhi né orecchie per
tutto questo. Tutto ciò che era il suo mondo, adesso, era racchiuso
negli occhi di Roxas.
A poco a poco lo vedeva aprirsi, ridere, a volte
anche arrabbiarsi per una delle sue battute cretine. Lo sentiva sempre
più vicino a sé, ed era così bello far parte della sua
vita e sapere che adesso anche la musica aveva un altro significato.
Faceva in modo di incontrarlo a scuola di
continuo, ad ogni incastro tra una lezione e l’altra. Sedeva al suo
solito tavolo vuoto in mensa e – dal momento che tutto il resto non
funzionava – lo tentava con il cioccolato del distributore. Poco
importava che quella macchina stesse seriamente minando i suoi risparmi.
Ma soprattutto, ormai entrambi avevano smesso di
nascondersi dietro la scusa delle ripetizioni. Si vedevano fuori dalla scuola
perché volevano, non per altro. E quegli incontri erano la cosa
più importante.
Sempre più spesso, infatti, capitava che
Axel accompagnasse Roxas all’orfanotrofio, a ridere insieme per
l’ultimo pasticcio combinato da Sora o a complimentarsi con la piccola
Naminè per il suo ultimo disegno; o che si distendesse al suo fianco nel
prato dei gigli e lo ascoltasse leggere a bassa voce il diario di sua madre.
Erano questi i momenti in cui gli sembrava di conoscerlo nel profondo, o almeno
di poterlo sperare.
Perché nonostante tutto – e con suo
grande tormento – in realtà ancora non conosceva tutto di Roxas
Sullivan.
Non sapeva, ad esempio, perché
continuasse ad ostinarsi a non mangiare al refettorio come tutti gli studenti
della Twilight High. Non sapeva dove fosse andato quando era sparito da scuola
in quel modo. Non sapeva di cosa parlasse all’orfanotrofio quando lui non
c’era, a cosa pensasse quando per lunghissimi minuti alzava gli occhi dal
suo libro e li lasciava scorrere lontano tra le nuvole o i gigli, che cosa
sognasse di notte e se qualche volta in quei sogni ci fosse un posto anche per
lui.
E non sapeva perché, a volte, quando lo
sorprendeva a guardarlo, il suo sorriso assumesse quella sfumatura triste.
* * *
Neanche si ricordava più l’ultima
volta che aveva parlato con Demyx o gli altri. Non c’era stato un vero e
proprio litigio, dopo quell’unico confronto con il suo migliore amico di
vecchia data; era andata così e basta. Il giorno in cui andò a
cercare Roxas nell’aula del Progetto Tutor fu anche il giorno in cui li
rincontrò faccia a faccia.
Roxas era seduto al grande tavolo centrale,
coperto di fotocopie di quelli che sembravano esercizi di matematica, che stava
disponendo ordinatamente in due grandi scatole. Dava le spalle alla porta, ma
quando Axel entrò, era certo che lo avesse sentito.
Arrivò dietro la sua sedia e si
chinò a posargli il mento sulla spalla.
«Che stai facendo?»
Lui non ebbe il minimo sussulto di sorpresa,
prova che in effetti si era già accorto della sua presenza. Poteva
intravedere il sorriso sul suo volto, mentre gli mostrava ciò che aveva
in mano.
«Oggi il professor Vexen non
c’è…»
«Ma dai, ecco perché
c’è un sole del genere!»
«… E così me ne occupo io.
Bisogna dividere per argomenti gli esercizi per i ragazzi del progetto.»
«Mmm.» Axel sollevò le
braccia, circondando le spalle di Roxas e stringendolo piano contro di
sé. «E non c’è speranza per questo povero
pseudo-chitarrista di distrarti per cinque minuti?»
La guancia di Roxas divenne bollente contro il
suo collo; sorrideva ancora. «No. Non c’è.»
«Neanche se cito il cioccolato?»
«Non ci contare.»
«Gelato al sale marino?»
«Vuoi tirarlo fuori da un cilindro?»
«Ho capito. Mi arrendo.»
«Ottima idea.»
«Uffa.» Axel gli
strofinò il naso tra i capelli, come un gattino in cerca di attenzioni.
«Non fare così, Roxas. Non lo sai che giorno è oggi?»
«Uh…» Roxas depositò
due fogli nella scatola di destra e altri due in quella di sinistra.
«Giovedì?»
«Antipatico.» Sostituì il
naso alla bocca, abbassando la voce. «Fai uno sforzo.»
Le mani del ragazzo rallentarono sensibilmente i
movimenti, fino a fermarsi del tutto.
«Lo so» sussurrò, e nella sua
voce non c’era più quel sorriso divertito. «Non posso
dimenticarmelo.»
Era passato un mese esatto da quel ventuno di
aprile in cui Roxas aveva mostrato per la prima volta a qualcuno il prato dei
gigli. Un mese durante il quale Axel non aveva mai smesso di chiedersi che cosa
avesse visto quel ragazzo in lui, che cosa avesse fatto per meritare di essere
quel qualcuno, e soprattutto come ricambiare tanta fiducia e tanta
disinteressata condivisione. Senza mai trovare le risposte.
Roxas posò pian piano le mani sulle
braccia di Axel.
«Forse… cinque minuti te li posso
concedere.» Gli sfuggì e si alzò, nascondendo il viso al
suo sguardo. «Perché ti devo dire una cosa.»
Axel si raddrizzò, sorpreso dal suo tono
serio. «Dimmi.»
Lui sospirò profondamente; alla fine
sollevò le spalle, si voltò a fronteggiarlo e alzò gli
occhi.
«Dovrò essere di nuovo assente da
scuola per un po’.»
Axel lo fissò. Per qualche istante
assimilò in silenzio l’informazione.
«Ah» disse infine. «E dove
vai?»
Speranza vana: sapeva già che non
gliel’avrebbe detto.
Roxas recuperò il sorriso, che
però non si estese ai suoi occhi. «Questo te lo dirò
un’altra volta. Promesso.»
Imbronciato, Axel incrociò le braccia.
«Le promesse non hanno mai avuto un grande significato per te e per me,
mi sembra.»
«Per me e per te?» lo
punzecchiò lui, sollevando un sopracciglio.
«… E poi» continuò
imperterrito, «non mi piacciono i segreti.»
«Axel.» Roxas salì in piedi
sulla seggiola, per portarsi al livello dei suoi occhi; anche così, non
lo superava poi di molto. «Ti fidi di me?»
Fu dura sostenere quello sguardo; lo era sempre.
Ad Axel piaceva, lo lusingava, sapere di metterlo in imbarazzo ogni
volta che lo baciava o abbracciava o sfiorava – ma la verità era
che bastava una semplice occhiata di Roxas Sullivan perché lui si
sentisse nudo, impacciato ed inerme.
Il sì che avrebbe voluto dirgli gli
rimase da qualche parte nello stomaco, mentre il biondino sorrideva con la
solita dolcezza.
Soffiando un’imprecazione tra i denti,
Axel annullò la distanza che lo divideva dalla sua bocca. Lo slancio e
la sorpresa per Roxas furono tali da fargli perdere l’equilibrio e
ricadere a sedere – prontamente sorretto da Axel – tra i fogli
sparsi sul tavolo. Le sue labbra si schiusero per riprendere fiato, e
l’adolescente raccolse senza esitazioni quell’invito involontario, allontanando
l’ostacolo della sedia con un calcio.
Dopo un attimo Roxas ricambiò, timido
come sempre, aggrappandosi alla sua felpa e ai suoi capelli. Axel lo
sentì a poco a poco farsi più sicuro, e allora dimenticò
parole e promesse e segreti e tutto il resto, augurandosi soltanto che i cinque
minuti si protraessero fino a diventare eternità.
Ma di nuovo fu una speranza vana.
Uno strillo smorzato –
un’esclamazione di sorpresa, disappunto, o forse di orrore? – da
qualche parte alle sue spalle ristabilì lo scorrere del tempo.
Sentì Roxas sussultare; a malincuore, interruppe il bacio e si
allontanò dalla sua bocca per voltarsi a cercare la fonte del grido.
Sulla soglia della classe vuota, Larxene puntava
un dito tremante e gli occhi sgranati da lui a Roxas e viceversa. Da sopra la
sua spalla, l’espressione di Demyx non era meno sconcertata; il viso
impassibile di Zexion restava invece nascosto dal solito ciuffo di capelli.
«Non ci volevo credere!» strillava
la ragazza. «Quell’oca in miniatura di Xion ha messo in giro questa
voce settimane fa, ma io non ci volevo credere! E adesso… Adesso…
entro qui e trovo… E vedo… questo!»
Axel alzò gli occhi al cielo. Negli
ultimi tre anni, Larxene aveva fatto una scena simile ogni volta che
l’aveva visto insieme ad una ragazza. Beh… Certo, questa era una
situazione completamente diversa. Tanto per cominciare, Roxas era un ragazzo.
A dirla tutta non era neppure “un ragazzo”. Ma non sarebbe
mai riuscito a spiegare ad una come Larxene ciò che lui per primo non
era in grado di esprimere a parole; e in fondo non gli interessava nemmeno che
lei – che chiunque – capisse.
Si voltò di nuovo per controllare la
reazione di Roxas: non sembrava imbarazzato, come lui aveva creduto… Solo
un po’ triste.
Il silenzio rotto solo dai respiri affannosi di
Larxene si protrasse. Roxas abbassò lo sguardo, con un sospiro
silenzioso. Axel gli strinse una spalla, quasi in gesto di protezione; quindi
si rivolse ai suoi amici distanti qualche metro o forse molto di più.
«Va bene. Siete entrati e avete visto
“questo”. Qualche problema?»
Larxene impallidì. «Problema? Me lo
chiami un problema?!»
Axel scoccò un’altra occhiata a
Roxas, ma l’ironia non era rivolta a lui. «Immagino che voglia dire
sì.»
Roxas continuò a studiarsi attentamente
le ginocchia, mentre Larxene riprendeva a starnazzare. Axel cercò di
nuovo Demyx con lo sguardo, ma l’amico distolse il suo; non ricordava che
fosse mai successo prima di allora.
Alla fine, sorprendentemente, fu Zexion a
interrompere quella fastidiosa impasse. Si portò alle spalle dei due
compagni e afferrò entrambi per la collottola.
«Andiamo, gente. Non credo ci sia altro da
dire.»
Benché più piccolo e minuto,
riuscì a trascinare Demyx e Larxene lontano dalla porta. Larxene
finì col voltare freddamente le spalle ad Axel; Demyx si lasciò
guidare da Zexion senza opporre resistenza, come se non avesse più la
forza di muoversi autonomamente. Appena prima che si allontanassero dalla sua
vista, Axel poté vedere l’occhiata fugace di Zexion, e
all’improvviso seppe che quel “Non credo ci sia altro da dire”
valeva come un “Non occorre che tu dica altro” – in un
senso positivo, però. Magari era solo un’impressione, però
gli sembrava che Zexion capisse. E gli fu grato di quelle poche parole mille
volte di più che di tutti i compiti che gli aveva lasciato copiare negli
ultimi mesi.
La porta rimase aperta su un corridoio vuoto, e
Axel guardò ancora Roxas.
Non sapeva cosa aspettarsi dal suo silenzio. Di
certo non la lontananza improvvisa che gli trasmise, né quel modo di
rifuggire dalla sua mano ancora stretta sulla sua spalla.
«Non sarebbe dovuto succedere»
mormorò il ragazzino, posando il viso tra le mani e affondando le dita
tra i capelli biondi che gli scendevano sulla fronte. «Lo sapevo che i
tuoi amici avrebbero reagito così. Non volevo che succedesse.»
Axel si chinò, cercando di incontrare di
nuovo il suo sguardo, ma vide solo i suoi occhi chiusi.
«Non me ne importa niente, Roxas. Non
pretendo che nessuno accetti tutto quello che faccio o non faccio. Loro
non contano nulla, adesso.» Angosciato, nel disperato bisogno che lui
capisse quanto fosse sincero, lo costrinse dolcemente a sollevare il capo, che
tenne fermo al livello dei suoi occhi. «Dio… Non può essere
che tu sia così buono da preoccuparti tanto dei miei cosiddetti amici.
Non è umano.» Sorrise. «D’altro canto, ho sempre
sospettato che tu fossi speciale.»
Roxas arrossì, aprì gli occhi, ma
non ricambiò il sorriso. «Parlo sul serio, Axel. È stato un
errore fin dall’inizio. Non avresti mai dovuto rompere quella promessa, e
soprattutto…» Il rossore si fece ancora più intenso.
«Soprattutto, non avresti dovuto convincermi a fare la stessa
cosa.»
Axel continuò a sorridere, le mani ancora
ferme sulle sue guance bollenti. «Forse non è tutta colpa mia, se
mi hai fatto leggere quel diario e se mi hai portato in quel prato.»
Lui sospirò. Si decise a sorridere, ma
ancora una volta era un sorriso triste.
Quando Axel si ricordò che i cinque
minuti erano passati da un pezzo e che tutti e due avrebbero dovuto sbrigarsi
per arrivare in tempo alla lezione successiva, non poté impedirsi di
pensare che il saluto di Roxas fuori dall’aula fosse intriso di cose non
dette.
* * *
Quel venerdì, Roxas non c’era.
Axel lo cercò in lungo e in largo.
Sì, avrebbe dovuto aspettarselo; gliel’aveva detto che
sarebbe stato di nuovo assente. Magari non avrebbe dovuto preoccuparsi, magari
sarebbe bastato sedersi tranquillo ad aspettarlo. Magari un altro – per
qualcun altro – lo avrebbe fatto. Ma non Axel, e di certo non per Roxas.
Lo aspettò nei soliti corridoi per delle
ore. Si presentò in ritardo a letteratura dopo essere andato a cercarlo
in biblioteca. Quasi si mangiò una ragazzina incosciente che in
refettorio aveva timidamente chiesto di occupare il posto vuoto al suo tavolo.
Tentò persino di interrogare il professor Vexen nell’aula dei
tutor, ma la naturale scontrosità dell’insegnante si tradusse in
un ennesimo nulla di fatto.
Soltanto quando, poco convinto, si
ritrovò a passeggiare dalle parti del solito distributore automatico,
colse il suo nome in uno stralcio di conversazione.
«Qualcuno di voi sa dove va Roxas Sullivan
quando manca da scuola?»
Axel si immobilizzò. La voce proveniva da
un punto oltre l’angolo del corridoio, come se un gruppetto di persone
fosse lì fermo a chiacchierare prima della lezione successiva. Trattenne
il fiato e ascoltò la risposta di una seconda voce, femminile e
più familiare della prima.
«Non lo so proprio, Pence. Comunque non
è detto che questa sia una delle sue solite assenze
prolungate…»
La riconobbe quasi subito: era Olette, la
ragazzina che aveva aiutato in chimica più o meno quattro mesi prima.
«Sì, forse» intervenne un
terzo ragazzo. «Ma tu non eri in questa scuola l’anno scorso,
Olette; non sai quante assenze ha sempre fatto…»
Axel rimuginò a lungo su quelle parole,
che volevano dire almeno due cose. Primo: l’abitudine assenteistica
– e, a quanto pareva, ingiustificata – di Roxas perdurava da tempo.
Secondo: qualcuno lo aveva notato prima di lui.
Il primo tizio, Pence, parlò di nuovo.
«Non hai mai avuto modo di parlargli?
Voglio dire, l’avrai visto qualche volta al Progetto Tutor.»
«Certo che l’ho visto» rispose
Olette, «ma anche se gli avessi parlato, non potevo certo chiedergli
niente di così… personale!»
Alcune studentesse attraversarono
l’estremità opposta del corridoio. Axel si accosciò e finse
di allacciarsi una scarpa, le orecchie tesissime.
«E poi» proseguì la ragazza,
«beh, è così: non gli ho mai rivolto la parola. Non ne sono
stata capace. Aveva… Ha sempre quello sguardo sognante. Non so,
come se non appartenesse neanche a questo mondo. Non è che ignora gli altri,
intendiamoci; al progetto l’ho sempre visto sorridere e rispondere
gentilmente a tutti. Però l’unico cui rivolgesse spontaneamente la
parola – l’unico che guardasse – era sempre e soltanto
Axel Carter.»
Gli occhi fissi sul laccio della scarpa, Axel sorrise
trionfante.
«Olette ha una cotta! Olette ha una
cotta!» canticchiò ridacchiando il terzo ragazzo.
«Chiudi il becco, Hayner!»
sbottò lei di rimando.
Il suo piccolo rubacuori. Cosa non faceva alla
gente.
«Andiamo» sentì che diceva
Pence, in soccorso dell’amica, «dobbiamo tornare in classe.»
Un suono di passi segnalò che i tre si
stavano allontanando. Anche alle sue spalle il corridoio era tornato deserto.
Axel si alzò e si avvicinò cauto all’angolo, per poter
cogliere le ultime frasi dei tre ragazzi.
«Ma allora, che cosa pensate che nasconda?
Perché è evidente che nasconde qualcosa.»
«Non ne ho idea. Ma se c’è
qualcuno che può capirci qualcosa, quello è Carter.»
I passi si spensero in lontananza.
* * *
Alla domenica mattina, dopo una notte di riflessioni
e decisioni, Axel suonò alla porta dell’orfanotrofio di Twilight
Town.
Quando venne ad aprirgli, Aerith lo accolse con
lo sguardo di chi vede esattamente ciò che non vorrebbe vedere
– confermando buona parte dei suoi sospetti. Però si riprese in fretta.
«Axel.» Gli sorrise, accostando come
involontariamente la porta. «Che sorpresa. Sei mattiniero.»
«Buongiorno, Aerith.» Axel sorrideva
sicuro, per non mostrare il nervosismo che gli percorreva i pugni, facendoli
tremare. Li tenne ben nascosti nelle tasche della felpa.
«C’è Roxas?»
Il sorriso della giovane donna svanì, a
poco a poco. «Beh… No, al momento no.»
Axel affondò le unghie nei palmi. Si
impose di mantenere un tono allegro e circostanziale.
«È uscito?»
«In un certo senso. È fuori
città.»
Dal modo in cui si ritraeva impercettibilmente
dalla soglia e si aggrappava alla maniglia interna della porta, era evidente
che Aerith non vedeva l’ora che se ne andasse. Dal canto suo Axel rimase
fermo e impettito al suo posto. Voleva vederci chiaro, in quella storia.
«E immagino che tu non possa dirmi
dov’è andato di preciso e per quale motivo.»
A quel punto, sorprendendolo, Aerith
sospirò di sconforto e si portò le mani alla fronte.
«Axel, credimi, vorrei poterlo
fare. Ma non è una cosa che spetta a me.» Lo guardò con una
tristezza che non le aveva mai visto sul volto, in quell’ultimo mese in
cui aveva frequentato l’orfanotrofio. «Lo so che adesso non puoi
capire, ma arriverà il momento in cui saprai tutto. E allora…
spero… che non ci odierai.»
Spiazzato, Axel la vide fare un passo indietro e
prepararsi a chiudere la porta.
«Arrivederci» la sentì
mormorare in fretta, come se avesse già detto troppo.
In realtà, se non gli avesse detto niente
non sarebbe cambiato un granché.
Poi l’uscio si chiuse di botto.
Rimase là ancora a lungo, a fissare quel
portone che lo divideva da un altro mondo – da un segreto – senza
riuscire a spiegarsi le parole di Aerith né quella sua improvvisa
tristezza. Alla fine, proprio quando si risolse a voltare le spalle
all’istituto, una vocina sottile lo sorprese.
«Psst!»
Si voltò di nuovo e alzò gli
occhi.
Da una finestra aperta al primo piano, una
figuretta vestita di bianco lo salutava con la manina.
Axel si incamminò verso la finestra,
costeggiando la facciata dell’edificio, e si fermò sotto di lei.
«Che fai sveglia a quest’ora?»
La bimba gli mostrò qualcosa che aveva in
mano. «Ho fatto questo per Roxas. Puoi darglielo, quando lo vedi?»
Le sorrise, lieto del fatto che ci fosse almeno
una personcina che non lo ostacolasse in quel proposito. «Sì,
certo.»
Lei ricambiò il sorriso e lasciò
cadere il disegno. Il foglio volteggiò come una piuma, due, tre volte;
Axel fece un passo indietro e lo afferrò al volo, per poi portarselo
agli occhi con curiosità.
In una distesa di fiori appassiti, un solo giglio
bianco come la neve spiccava su tutti gli altri. In un angolo una grafia
infantile ma ordinata aveva scritto le parole: Le cose belle sono anche
quelle che non ci dimenticheremo mai.
Quando Axel tornò a guardare la finestra,
Naminè era già sparita.
Ma cos’aveva sperato che fosse? Un segno?
Che stupidaggine. Credere di trovare la risposta
nel disegno di una bambina di sette anni.
Eppure gli era sembrato così ovvio
tornare al prato dei gigli.
Era la prima volta che ci andava da solo –
senza Roxas. E quella mancanza pesava; si avvertiva nel silenzio, che non era
più simbolo di riflessione ma di vuoto assoluto, e nella sensazione di
incompletezza che in un modo o nell’altro sembrava permeare l’aria
insieme al profumo dei fiori. Quel posto non era lo stesso senza Roxas.
Diventava un prato come tanti, senza alcun significato, senza un’anima.
Axel ci era andato quasi automaticamente,
stringendo il disegno di Naminè come una speranza. Non si era davvero
aspettato di trovare lì Roxas; sarebbe stato impossibile, lo sapeva. Ma
gli era sembrato giusto così.
Peccato che non ci fosse niente di giusto senza
di lui.
Con un sospiro, Axel si risollevò e
voltò le spalle al prato dei gigli, rassegnato all’idea di dover
aspettare almeno fino al venerdì successivo, prima di poter capire.
* * *
Ma il venerdì arrivò e
passò, e Roxas non si fece vivo.
Axel non sapeva più dove sbattere la
testa, letteralmente. Aveva l’impressione che le pareti della sua stanza
fossero sul punto di invocare pietà per via dei colpi ricevuti. E le sue
nocche non erano in condizioni migliori.
Era diventato apatico, taciturno. Da tempi forse
immemorabili non sparava una battuta o non si faceva una risata; a lezione
sedeva in silenzio, senza guardare nessuno, e in refettorio se ne stava in
disparte, gli occhi fissi sul solito tavolo vuoto – non gli sembrava
giusto sedersi là se Roxas non c’era – e una barretta di
cioccolato sempre pronta in tasca.
Evitava il contatto di tutti, di Demyx e degli
altri più che mai. Ciò non impediva ai sussurri di seguirlo come
una scia: fin dal giorno in cui Larxene si era “lasciata sfuggire”
un’allusione ambigua sul «rapporto tra Carter e Sullivan»,
sembrava che nessuno si facesse più problemi a parlarne, anche in
presenza dello stesso Axel.
L’unica nota positiva, si diceva il
giovane passando tra le varie ali di studenti curiosi, era che a quel punto lui
non era più l’unico a chiedersi apertamente dove fosse finito
Roxas.
* * *
Barricato in casa per tutto il fine settimana,
al lunedì Axel si trascinò indolente fino a scuola. Ci
andò in macchina, troppo svogliato per attraversare quei pochi isolati a
piedi, e per una volta guidò senza alcuna fretta.
Quando arrivò davanti al liceo e spense
il motore, per qualche minuto stette immobile al posto di guida. Dio, doveva darsi
una scrollata. In tasca aveva ancora il disegno di Naminè, ne sentiva il
contatto sulla pelle. Incrociò le braccia sopra il volante e vi
affondò il viso. Respirò a fondo. Sotto le palpebre, come in un
fermo immagine, vedeva sempre e soltanto il visetto di quello stupido adorabile
biondino. Aveva bisogno di lui, dannazione, aveva bisogno di capirlo.
Gli mancava terribilmente…
Di colpo sentì aprirsi la portiera dalla
parte del passeggero. Qualcuno entrò sedendosi accanto a lui, si chiuse
lo sportello alle spalle e si schiarì la voce.
«Scusa.»
Fu solo dopo quel sussurro che Axel si decise ad
alzare la testa.
Roxas se ne stava là ad occhi bassi,
nella sua uniforme ordinata, il mento sullo zaino che teneva tra le braccia. Da
quel poco che si intravedeva della sua espressione, sembrava imbarazzato e
triste.
Axel avvertì qualcosa di molto doloroso
dritto allo stomaco, ma era un dolore piacevole, come se avesse ingoiato un
palloncino gonfio di gas esilarante. Era bellissimo: lui, e il fatto che fosse
di nuovo lì al suo fianco.
Roxas tenne il capo chino e continuò a
parlare a mezza voce.
«Mi dispiace. Ci ho messo…
più tempo del previsto. Aerith mi ha detto che sei venuto a cercarmi
all’orfanotrofio. Non volevo farti preoccupare… Non
volevo…» Sollevò gli occhi, e quelle iridi azzurre
scintillarono di lacrime. «Avevo pensato di allontanarti in tutti i modi,
sai? Non avresti mai dovuto curarti di me. Sarebbe stato più facile per
tutti e due. Ma non posso evitarti, Axel, non… Non ce la faccio. E non
posso evitare nemmeno di voler stare con te.»
Arrossì; era la prima volta che esprimeva
in modo tanto diretto i suoi sentimenti, e quella fu l’unica cosa, in
quel discorso confuso ed enigmatico, che per Axel contò.
Con una decisione improvvisa,
l’adolescente riavviò il motore, innestò la retromarcia e
allontanò in fretta l’auto dal marciapiede. Il contraccolpo
sbalzò Roxas in avanti sul sedile, facendogli cadere lo zaino dalle
ginocchia.
«Ehi, che fai? Dobbiamo andare a
scuola!» si spaventò.
Axel si fermò bruscamente all’imbocco
del viale d’ingresso dell’edificio; quindi, incurante degli sguardi
sconcertati dei ragazzi già diretti a lezione, agguantò il cambio
e fece schizzare la macchina nella direzione opposta, verso il centro della
città, lasciandosi la Twilight High alle spalle.
Roxas era ancora a bocca aperta.
«Axel…»
«Agganciati la cintura.»
«Axel, vuoi spiegarmi dove cavolo mi stai
portando?»
Axel premette un po’ di più il
piede sull’acceleratore. «Non mi interessa sapere cosa ti è
successo e dove sei stato. Non più» disse, pur non del tutto
sincero. «Ma ora che sei qui, non intendo più lasciarti andar via,
mai e per nessun motivo.» E questo lo pensava davvero.
Roxas continuò a fissarlo. Poi
abbassò gli occhi e si aggrappò alla cintura di sicurezza.
Axel sorrise. «Hai capito bene. Oggi
niente scuola.»
Il prato dei gigli aveva ritrovato la sua anima.
Un’anima piccola e bionda, che il vento accarezzava come si fa con un
cucciolo smarrito e finalmente ritrovato sulla porta di casa.
Disteso tra i fiori bianchi, Axel lo guardava
con il terrore di vederlo sparire da un momento all’altro. Ma Roxas era
sempre seduto lì, presente per quanto silenzioso e distante.
Non parlarono per un tempo praticamente
infinito. Alla fine, come era accaduto spesso, fu Axel a rompere il silenzio.
«A che pensi?»
Roxas non cambiò posizione, non si mosse.
Però sorrise.
«Alle cose belle.»
Axel si sollevò su un gomito, posando la
guancia sulla mano. «Che cosa vuoi dire?»
Finalmente il ragazzino lo guardò di
nuovo in viso. Non l’aveva più fatto, dopo quelle poche parole che
si erano scambiati in macchina.
«È… confortante»
mormorò, «sapere che le cose belle sono anche quelle che non ci
dimenticheremo mai.»
La frase risvegliò qualcosa nella memoria
di Axel. Si tirò su, affondò la mano nella tasca della giacca e
recuperò il disegno.
«Quasi dimenticavo» disse,
porgendolo a Roxas. «Naminè mi ha chiesto di darti questo.»
Roxas guardò con sorpresa il foglio
stropicciato. Pian piano lo prese, lo dispiegò e studiò in
silenzio il giglio vivo tra quelli morti.
Axel osservò il cambiamento della sua
espressione. Da stupita si fece intenerita, poi triste, poi ancora sorridente.
Lo vide far scorrere le dita sulla carta, su ogni singolo dettaglio del
disegno.
«Le cose belle sono anche quelle che non
ci dimenticheremo mai» lo sentì ripetere. «Le cose
belle… sono anche…»
Gli si spense la voce. All’improvviso
strinse il foglio con forza, e un piccolo specchio d’acqua salata
macchiò il biancore del giglio.
Turbato dal cambiamento repentino, Axel gli pose
subito una mano sulla spalla. «Roxas… Cosa c’è?»
Lui non si ritrasse, ma neppure diede segno di
accettare quel contatto. Ancora una volta sembrava infinitamente lontano.
«Le ho detto spesso questa frase»
sussurrò, come a se stesso. «Quando è arrivata da noi, non
faceva altro che disegnare i suoi genitori. In una bara. A volte in fondo al
mare. Sono annegati» spiegò, dandogli finalmente
l’impressione di ricordarsi della sua presenza. «Una notte
l’ho trovata davanti ad una finestra aperta, a disegnare una scena di
quel tipo. Le ho parlato, le ho detto che la capivo, che anch’io avevo
perso i miei. E le ho detto che lei era fortunata perché poteva
ricordarli, e perché tra quei ricordi moltissimi dovevano essere belli.
Da allora ha cominciato a disegnare altre cose: se stessa in braccio a sua
madre, suo padre che la spingeva sulla bici. Le cose belle non ce le
dimenticheremo mai.»
Axel non disse nulla. Non capiva perché
quella storia, per quanto commovente, avesse scosso Roxas fino a farlo
piangere. Forse era lui ad essere un insensibile?
Dopo una breve pausa, Roxas accarezzò di
nuovo il disegno e sospirò, ricacciando indietro le lacrime.
«È stata meravigliosa a fare questo per me.» Sorrise.
«Lei ha capito tutto.»
Axel non riuscì più a trattenersi.
«Tutto cosa?»
Lui sospirò ancora. Poi lo guardò,
negli occhi qualcosa di sfuggente e indefinibile.
«Sto male, Axel. E sto per morire.»
* * *
Quel che provai subito dopo, onestamente,
non riesco a ricordarlo.
Ricordo soltanto un gran senso di nulla,
bianco, lancinante, che andava ad uccidere tutto il resto di me.
Ricordo un silenzio, che si protrasse per
molto tempo, per tutta l’eternità che mi ci volle per accettare
ciò che stava succedendo.
Niente di più.
A poco a poco ne uscii, come un naufrago
che riguadagnasse la superficie. E trovai la sua mano ad aspettarmi.
Quella fu soltanto la prima volta che mi
chiesi come avrei mai potuto vivere senza di lui.
* * *
«No. Non può essere vero.»
Axel lottò con tutto se stesso per
pronunciare quelle poche parole. Gli costarono tutte le sue forze; dopodichè
rimase lì inerte, vuoto, a guardare Roxas senza vederlo, attonito di
fronte al suo sguardo pulito.
«Lo è. Ho un male incurabile. Lo so
da quasi dieci anni.» Era sereno e pacato, come se non stesse parlando di
sé, ma di qualcuno che conosceva appena. «È lo stesso male
di mia madre. Non si circoscrive ad una parte del corpo; è… un
po’ difficile da spiegare. Ad esempio, non ho mai pranzato alla mensa
della scuola perché non posso sapere come reagirebbe il mio organismo.
L’unica cosa di cui mi sia fidato è stato il cioccolato…
Prima del gelato al sale marino.» Gli sfuggì un sorrisetto amaro,
ma durò un secondo soltanto. «Quando mi assento da scuola è
per seguire delle terapie in una clinica di Traverse Town. Mi aiutano a stare
meglio, ma non possono cambiare le cose. Non c’è cura. Questa
sarà la mia ultima primavera, Axel.»
I pezzi andavano infine al loro posto. I suoi sorrisi
tristi, le sue frasi sibilline…
Con fatica, Axel emerse
dall’incapacità di connettere. «No… Non è
così… Non è vero.» Strinse le sue mani, ancora
aggrappate al disegno. «Non puoi pensarlo sul serio. Deve esserci…
una cura…» Dirlo fece sembrare tutto ancor più reale,
più definitivo, e gli fece malissimo. Ma proseguì imperterrito,
rafforzando la stretta. «Io non ci credo, Roxas. Tu non… Non
morirai. Non puoi morire. Hai quindici anni, cazzo. Non puoi,
capisci?»
Roxas scosse lentamente la testa, senza parlare.
Aveva ancora l’ombra di quel sorriso sulle labbra.
Axel gemette. Qualcosa di caldo e pungente gli
trafiggeva gli angoli degli occhi; la gola stava per scoppiargli.
«Non puoi farmi questo…»
A quel punto anche gli occhi di Roxas tornarono
a riempirsi di lacrime.
«Perché pensi che ti abbia chiesto
di farmi quella promessa?»
Spiazzato, stravolto, Axel non poté fare
nulla. Si sentì impotente ed inutile, e furioso con il mondo e con se
stesso. Si odiò, odiò lui per tutto quanto, e più che mai
lo amò e sentì di aver bisogno di lui nella sua vita.
Alla fine fece l’unica cosa che ritenne
giusta: lo attirò a sé, gli strinse il capo tra le mani e lo
baciò con la rabbia della disperazione.
Roxas ricambiò, ma la sua era la dolcezza
dell’accettazione. Soltanto il gusto delle sue lacrime nella bocca di
Axel lo tradiva.
A terra giaceva il disegno di un fiore bianco
circondato dai suoi compagni appassiti.
Rimasero al prato per il resto della giornata.
Non parlarono molto. Mangiarono le barrette di
cioccolato che Axel aveva accumulato nei giorni di assenza di Roxas, e che ora
gli riempivano il cruscotto dell’automobile. Per il resto, rimasero
semplicemente vicini a sentire l’uno il contatto dell’altro.
Axel aveva l’impressione che
l’ossigeno nell’aria fosse finito e che fosse rimasto da respirare
soltanto un veleno dagli effetti prolungati nel tempo.
Roxas era tranquillo. Ora che finalmente si
erano chiarite tutte le cose in sospeso, sembrava quasi liberato, ed era come
se stesse semplicemente dandogli il tempo di assimilare, accettare e reagire.
Non lo forzava a parlare, non diceva nulla; se Axel gli sfiorava una mano, lui
gli tracciava sulla pelle piccoli segni con la punta di un dito, e se lo
guardava gli sorrideva. Come poteva sorridere? Quanta forza c’era
in quel ragazzino con gli occhi adulti e bambini?
Alla sera fu lo stesso silenzio ad accompagnarli
nel breve tratto in macchina fino all’orfanotrofio. Un silenzio sereno da
parte di Roxas, frustrato da parte di Axel.
L’adolescente accostò lentamente
davanti all’edificio, rivivendo nella memoria le parole e lo sguardo
affranto di Aerith.
«… Arriverà il momento in
cui saprai tutto. E allora… spero… che non ci odierai.»
Aveva tutte le ragioni di sperarlo. Lui aveva
tutto il diritto di odiare tutto e tutti…
«Axel?»
Si voltò. La luce della luna attraversava
il parabrezza e andava a posarsi sulle guance già chiare di Roxas.
«Ti va di entrare?»
Era evidente che lui per primo non si aspettava
un consenso. Axel sfuggì al suo sguardo, concentrandosi sui
tergicristalli di fronte a sé, e scosse piano la testa.
«Scusami. Non… Meglio di no.»
Si sentì la voce roca. Erano le prime
parole che pronunciava da ore.
Intuì, più che vederlo, che Roxas
annuiva; poi il ragazzo si sporse verso di lui.
«Allora… buonanotte.»
Gli posò un bacio leggerissimo, in punta
di labbra, sulla guancia. D’impulso Axel si voltò con un movimento
improvviso, chiudendogli di nuovo la bocca nella sua. Non poteva, non
poteva lasciarlo andare, non poteva neppure immaginare che…
Roxas si distaccò da lui, il respiro
ansante. Anche in quella debole penombra argentata si poteva vedere con quanta
intensità fosse arrossito, ma non fu quel particolare a colpire Axel: i
suoi occhi scintillavano di nuovo, e quell’azzurro bagnato ora faceva
impallidire qualsiasi stella.
«Credo…» Roxas sospirò,
sorrise, e una lacrima tutta nuova gli percorse la guancia. «Credo che
questa sarà una delle cose che mi mancheranno di più.»
Non poté reagire in alcun modo. Un
istante dopo, il ragazzo aveva aperto la portiera e si era allontanato nel
buio, sparendo nel rifugio dell’orfanotrofio.
Axel rimase seduto lì, impotente, a
lungo, a guardare il punto in cui il sedile si era inumidito di una piccola
goccia identica a quella caduta sul disegno di Naminè.
L’orologio della torre batté due
rintocchi. La notte si bagnò di una pioggia fine e insistente.
Erano ore che vagava a piedi, da solo, e quelle
gocce d’acqua giunsero come una benedizione, perché ora le sue
lacrime avevano compagnia.
Non sapeva come gli fosse venuta l’idea di
andare a cercare conforto da lui. Lo fece e basta, sicuro dell’assenza
dei suoi genitori – sempre assenti per via del loro lavoro – ma
incerto sulla sua reazione.
«Ma chi accidenti è a
quest’ora?!»
Quando Demyx aprì la porta, in pigiama,
assonnato e impegnato in uno sbadiglio, e se lo trovò davanti, la bocca
gli si paralizzò in quella posizione e la mascella quasi gli cadde a
terra. Stile cartone animato, che buffo. Già.
«E tu che ci fai qui?»
Axel non disse nulla. Si limitò a
guardarlo, spento, senza emozione.
Demyx non capì. Sbuffò, poi sul
suo volto gonfio di sonno si fece strada un sogghigno. «Aspetta, non me
lo dire. Hai litigato con il tuo tesoruccio, vero? Cosa c’è, il bimbo ha
fatto i capricci stasera?»
Non aveva neanche più la forza di
risentirsi. Mosse automaticamente un passo verso la soglia, abbandonando la
penombra del portico finché la luce dell’ingresso gli
illuminò il volto.
Allora Demyx vide i solchi di pioggia e di
pianto, e dovette intuire qualcosa. Cambiò espressione.
«Cazzo, Axel, che succede?»
Axel chiuse gli occhi, tremò, infine si
accasciò su se stesso. Si ritrovò in ginocchio e batté i
pugni sul pavimento, forte, ma nessun dolore poteva eguagliare quello che si
portava dentro fin da quella mattina.
«Axel!» Demyx si chinò di
fronte a lui. «Dio, mi stai spaventando a morte. Mi vuoi dire che
hai?»
Aprì gli occhi, e distinse appena i
lineamenti dell’amico oltre il velo bagnato.
«Sta per morire» mormorò.
«E con lui morirò anch’io.»
Demyx lo fissò ad occhi sgranati. Poi
aprì le braccia, e per la prima volta da molti anni, Axel
abbracciò con forza il suo migliore amico, là sulla soglia, con
il rumore della pioggia ad un solo passo di distanza.
Vuotò d’un fiato il bicchiere che
il compagno gli aveva offerto. Un fiotto di calore lottò con il suo
corpo freddo per qualche secondo, prima di essere vinto dal gelo.
«Tuo padre sa che sei qui?»
Axel scosse la testa.
«Si preoccuperà, non vedendoti
rientrare.»
«E tu pensi davvero che mi importi
qualcosa di questo?»
Demyx sospirò. Si sedette alla scrivania,
voltando la sedia verso di lui, chino su se stesso sul letto sfatto. «Non
gli hai mai detto di lui, eh?»
Lo guardò con un sorriso amaro, finto.
«Prova ad immaginare. Il figlio del sindaco ha una relazione con un
ragazzino. Non con una bella ragazza di una famiglia perbene, ma con un ragazzino.
Decisamente un vanto per i nostri cari compaesani tanto dediti alla tradizione
e ai paraocchi…»
«L’avrebbe saputo comunque, Axel. Lo
saprà. Il paese è piccolo, la gente chiacchiera.»
Sospirò, posò il bicchiere vuoto
sul comodino e si passò le mani sul viso. «Che cosa stai cercando
di dirmi?»
«Soltanto che forse tuo padre potrebbe
aiutarti.» Una pausa. «Magari potrebbe aiutare Roxas.»
Axel lo guardò. E per un istante ci
credette davvero.
Alla fine scosse semplicemente la testa,
posandola di nuovo tra i palmi aperti. «L’unica persona che sia mai
riuscita ad aiutarmi davvero se ne sta andando, Demyx. Sta per lasciarmi. Senza
di lui, io non sono niente. Non lo sono mai stato e non lo sarò
mai.»
Demyx scattò in piedi. La sedia cadde
rumorosamente a terra.
«Vaffanculo!»
Axel non si mosse. Lo scroscio della pioggia non
riusciva a coprire il respiro affannoso dell’amico.
«Sei un idiota, Axel. Se dopo tutto quel
che dici di aver provato – se è vero che lui ti ha dato tanto
– è questo l’unico tuo modo di reagire, allora sei veramente
un idiota.»
Axel rimase ancora immobile. Parlò alle
proprie ginocchia, monocorde, scandendo ogni parola. «Che cosa cazzo
dovrei fare, secondo te?»
«Non sarò certo io a dirtelo»
ribatté Demyx con rabbia. «Dovresti esserci arrivato da solo. Sei
innamorato di Roxas Sullivan o no?»
Ebbe un sussulto involontario. Alzò gli
occhi. L’altro lo fissava dal centro della stanza, seriamente; non gli
aveva mai visto quell’espressione.
Axel capì a poco a poco le sue parole.
Era vero; se Roxas gli aveva insegnato qualcosa, coi suoi occhi buoni e il suo
sorriso gentile, quel qualcosa comprendeva anche il fatto che lui non poteva
reagire così. Non era giusto. Avrebbe dovuto essere forte per entrambi,
per lui. Essere il suo appiglio, la sua ancora. Essere ciò che Roxas era
stato per lui in ogni suo più piccolo e insignificante gesto.
Eppure sembrava così difficile esserlo senza
di lui.
Rimase a lungo lì seduto a guardare
attraverso Demyx, ascoltando l’eco della pioggia che si allontanava.
Il sonno fu tardivo ma salvatore.
Alla mattina, Axel fu svegliato da una mano
insonnolita che lo scosse piano. Si alzò dal tappeto dove era crollato
addormentato all’alba, accettò con un tacito ringraziamento la
doccia e i vestiti di Demyx e si preparò alla prima giornata vissuta con
una consapevolezza nuova – strappando ad uno ad uno i fili
dell’illusione di aver fatto solo un lungo e brutto sogno.
Lo vide da lontano. Si fermò a guardarlo.
Roxas era seduto sui gradini d’ingresso
della scuola, lo zaino ai suoi piedi e il diario dalla copertina rigida davanti
agli occhi. Gli sembrò sereno, come al solito. Era come tutte le altre
mattine. Come se nulla fosse mai accaduto o cambiato.
Una fitta dolorosa gli mozzò il respiro a
quel pensiero, ma durò un solo istante.
Aveva preso una decisione.
Marciò spedito sul viale tra i compagni,
fino alla breve scalinata; si lasciò cadere a sedere accanto a Roxas e
gli gettò un braccio sulle spalle.
«‘Giorno, scricciolo.»
Il ragazzo sussultò e alzò gli
occhi. «Buo… Buongiorno, Axel.» Dopo la sorpresa iniziale,
gli sorrise.
Come se nulla fosse mai accaduto o cambiato.
Ed era così che doveva essere.
Roxas guardò confuso l’armadietto
accanto a quello di Axel. «Ma sei sicuro che sia libero?»
«Certo.» Ne era sicuro. Demyx si era
mostrato disponibile allo scambio. «Avanti, mica ti morde.»
Convinto, Roxas lasciò che Axel gli
mostrasse come aprire l’armadietto e poi vi ripose i libri di cui non
aveva bisogno. Axel fece lo stesso con la sua roba, sbirciandolo per tutto il
tempo.
Come se nulla fosse mai accaduto o cambiato.
«Cos’hai alla prima ora?»
«Scienze.»
«Aaah, Vexen. Ho capito, ti faccio da
scorta.»
«Se ben ricordo» sorrise Roxas,
«la prima volta sono stato io a “farti da scorta” con
lui.»
Axel sorrise. Come poteva dimenticarlo?
«Vorrà dire che per una volta sarò io a fare qualcosa per
te.»
Chiusero gli armadietti e s’incamminarono
vicini. Gli studenti restavano come sempre a guardare il loro passaggio,
nascondendo di tanto in tanto un commento a mezza voce dietro le mani o i
quaderni. Axel mise di nuovo il braccio sulle spalle di Roxas. Lui
arrossì.
«Senti, Axel…»
«Sì?»
«Non devi… per forza…»
«Che cosa?»
Prese fiato. «Fingere.»
Axel si fermò a metà del
corridoio, e Roxas con lui. Si guardarono.
«Non sto fingendo.» Sorrise ancora.
«Va tutto bene. Davvero. Tu sei qui, è questo che conta.»
Spostò la mano sotto il suo mento, glielo
sollevò, chiuse gli occhi e si chinò a baciarlo.
Un bacio. Nel corridoio della scuola. Davanti a
tutti.
Axel non sentì quel che si scatenò
di fronte a quel gesto, non percepì neppure lo sconcerto di Roxas. Era
troppo concentrato nel riversare in quel bacio tutta la forza interiore
necessaria a crederci, a credere in ciò che gli aveva detto. Doveva
convincere lui, ma anche se stesso.
Quando si ritrasse, rimase a guardare gli occhi
blu di Roxas per qualche istante. Il ragazzo gli sorrise. Come sempre, aveva
capito.
Si rincamminarono senza imbarazzo, tra ali di
mormorii più forti che mai.
«Non vai a casa?»
Axel camminava sul marciapiede al suo fianco. La
notte precedente aveva lasciato la macchina alla villa Carter prima di andare
da Demyx; non gli dispiaceva andare a piedi, se accanto a lui c’era
Roxas.
«No, preferisco venire con te.» Gli
strizzò l’occhio. «Sempre che non mi cacci via.»
Lui rise. «E perché dovrei?»
Con una mano si aggrappò alla tasca dei suoi pantaloni, come un bambino
può stringersi alla mano di un adulto in mezzo alla folla. «Non mi
piace quando sei lontano.»
Axel gli prese la mano nella sua. «Neanche
a me, scricciolo.» Neanche a me.
Si allontanarono dal liceo in silenzio. Poche
strade, pochi isolati, e arrivarono all’orfanotrofio.
I bambini erano tutti in giardino. Quando Roxas
si avvicinò, il piccolo Sora lo vide e gli corse incontro strillando.
«Roxas! Axel!»
«Ehi!» Axel fece appena in tempo ad
alzare le mani; il bambino gli saltò alla vita e gli si arrampicò
addosso. «Sei sempre così di buon umore, tu?»
Sora alzò il visetto acceso e
sfoderò il suo sorriso migliore. «Sono contento di rivederti! Ci
sei mancato!»
Oltre i suoi capelli impossibili, Axel
guardò Roxas. Sorrideva allegro.
Come se nulla fosse mai accaduto o cambiato.
Gli altri bimbi si avvicinarono vociando. Axel
abbracciò forte Naminè; provava una tenerezza infinita per quella
bambola di porcellana che sembrava aver capito tutto di lui. Roxas si sedette
nell’erba del giardino e si lasciò circondare dai suoi piccoli
compagni.
Così sereno, così a suo agio.
«Lo so da quasi dieci anni» gli aveva detto. Possibile che
potesse essere tanto forte?
Ripensò alle lacrime che aveva visto
brillare nei suoi occhi.
«Questa sarà la mia ultima
primavera…»
Fu in quel momento, mentre assisteva al miracolo
di un ragazzo che mille volte era caduto e mille volte si era rialzato, che
Axel vide le gambe di una giovane donna avvicinarsi. Alzò lo sguardo.
Qualche passo dietro Roxas e i bambini, Aerith lo guardava, ferma, senza
espressione.
«E allora… spero… che non
ci odierai.»
Non trovò altro da fare che rivolgerle un
breve sorriso. Un po’ triste, un po’ rassegnato, ma vero.
Aerith si voltò a guardare altrove, e
sulla sua guancia scivolò silenziosa una lacrima.
Erano tornati al prato dei gigli a piedi. Dopo
la pioggia caduta durante la notte, l’aria sembrava purificata; il veleno
che Axel aveva percepito il giorno prima si era, se non dissolto, almeno
rarefatto.
Roxas si sollevò su un gomito e lo
guardò. «A cosa pensi?»
Senza togliersi di bocca lo stecco del gelato al
sale marino, Axel voltò il capo. «Mi chiedevo…»
Lasciò cadere la frase nel vuoto.
«Che cosa?»
Sollevò una mano e scostò i
capelli biondi da quegli occhi incredibili. «Cos’ho fatto per
meritare di conoscere una persona come te.» Lo vide arrossire per
l’ennesima volta, ma non si lasciò intenerire troppo:
continuò fino in fondo, esprimendo finalmente con le parole una domanda
che lo tormentava. «Perché io? Sul serio, che cosa ho mai fatto io
per te?»
Roxas rimase in silenzio per qualche istante. A
sua volta alzò una mano, stringendo il polso della sua camicia, piano,
come per sentire di più il suo contatto. Alla fine gli rispose con
un’altra domanda.
«Axel… Qual è la cosa che per
te conta di più al mondo?»
Axel sorrise. «Dopo di te, vuoi
dire?»
Il ragazzo arrossì ancora di più,
ma ricambiò il sorriso. «Ok, dopo di me.»
Ci pensò su. «La musica,
credo.»
«E perché la musica?»
Sfilando le dita dai suoi capelli, Axel
guardò in su verso il cielo terso, sfuggendo ad un azzurro soltanto per
tuffarsi in uno un po’ più pallido.
«Perché la musica… mi fa
dimenticare il mondo esterno. Quando suono non c’è più
ragione di essere quello che appare sempre agli occhi degli altri. La musica mi
fa essere me stesso, incondizionatamente.» S’interruppe, poi
riprese con un mezzo sogghigno. «Uao, che paroloni ho usato. Sembro quasi
una persona sensibile.»
Roxas non commentò a quel sarcasmo.
L’unico suo movimento fu sfiorare con la punta di un dito la guancia di
Axel.
«Ti sei appena risposto.»
L’adolescente abbassò lo sguardo,
interrogativo. Lui gli sorrise.
«È questo che provo quando sono con
te.»
La sera, Roxas volle accompagnare Axel alla
villa. Disse che non gli importava di rientrare tardi; in realtà, Axel
sapeva che non voleva lasciarlo solo, e gliene fu incommensurabilmente grato.
Camminavano vicini quando giunsero in vista del
viale. La macchina del sindaco Lea Carter, che Axel aveva abbandonato in
giardino, era di nuovo al suo posto nella rimessa ancora aperta. Segno che suo
padre l’aveva recuperata, era in casa e probabilmente si stava pure
chiedendo dove fosse finito quel teppista di suo figlio, che non vedeva da
circa due giorni. Si fermò.
Roxas si accorse che qualcosa non andava.
«Che cosa c’è?»
«Niente.» Axel riprese a camminare.
«Solo che… Non ho molta voglia di rientrare subito.»
Il ragazzo gli tenne dietro. Abbassò la
voce. «Problemi con tuo padre?»
Axel gli lanciò un’occhiata
esageratamente stupita. «Problemi? No, assolutamente no. Ci ignoriamo
come al solito.»
Roxas sospirò, scosse la testa, ma
sembrò desistere.
Percorsero il viale fino al portico. Là
Axel si fermò, andò a sedersi sul vecchio dondolo e tirò
Roxas a sé. Quando cadde tra le sue gambe, lo attirò più
vicino e lo circondò con le braccia, posando la guancia contro la sua
tempia.
Per un po’ rimasero così seduti,
nella luce smorzata delle stelle.
«Sei pensieroso.»
Roxas restò in silenzio per un attimo.
«Non dovreste farlo» mormorò poi.
Axel non capì. «Di che stai
parlando?»
«Di te e tuo padre.» Si voltò
a guardarlo, senza sfuggire alla stretta delle sue braccia, con la solita
espressione pulita. «Non dovreste ignorarvi. Da che ci conosciamo non mi
hai mai parlato di lui, di qualcosa che avete fatto insieme, neppure di un
ricordo di quando eri bambino… Non dovresti lasciare che il tuo orgoglio
di adolescente ti allontani dalla tua famiglia. Io non lo farei.»
Axel lo guardò. Comprese. Si sentì
morire dentro.
Roxas che una vera famiglia non l’aveva,
Roxas che era affetto da un male incurabile, trovava comunque il modo di
pensare agli altri. A lui, che mai, mai avrebbe meritato tanto in vita
sua.
Dopo qualche secondo, l’espressione seria
si distese. Il momento era passato. C’erano di nuovo soltanto loro due.
«Sai quella canzone che stavi cantando
quel giorno… quando hai macchiato la verifica?»
Axel annuì.
«Non riesco a ricordarmela.» Roxas
sorrise, timido. «Me la canteresti?»
Ricambiò il sorriso. «Certo.»
Mentre il ragazzo si voltava di nuovo e si
abbandonava contro il suo petto, Axel lo strinse più forte a sé e
gli mormorò all’orecchio quei versi che già dalla prima
volta, pur inconsapevolmente, aveva cantato pensando a lui, al suo fulmine nel
buio, alla colonna sonora della sua vita.
«Sei sicuro di non volere un
passaggio?»
«E farti di nuovo uscire di casa ora che
ci sei tornato?» In piedi di fronte al portico, Roxas sorrideva.
«Sono abbastanza grande per attraversare qualche isolato a piedi, Axel, e
sono ancora abbastanza in forze. Cerca di stare tranquillo.»
Sospirò. Aveva ragione; gli aveva
dimostrato di aver molta più forza di volontà che quella
necessaria per tornare all’orfanotrofio di notte e da solo. Molta, molta
di più.
«Allora a domani.»
Roxas annuì. Poi si sollevò sulle
punte dei piedi.
Era la prima volta che prendeva lui
l’iniziativa.
Axel rispose al bacio senza impeto, rispettando
quel momento come qualcosa che gli veniva donato, letteralmente. Quando lui si
ritrasse, negli occhi e sulle labbra gli rimase un senso di calore
rassicurante. Era sempre così, alla fine; era sempre Roxas a dargli una
mano per risalire, anche quando era lui ad averne più bisogno.
A lungo rimase a guardarlo allontanarsi,
lottando per non far riemergere il dolore che aveva seppellito nella parte
più remota di sé, ma che ad ogni sguardo, ad ogni secondo passato
a riflettere cercava di sprofondarlo di nuovo nel baratro.
Non appena rientrò in casa, com’era
prevedibile, trovò suo padre ad aspettarlo nell’ingresso.
«Axel Carter! In nome del cielo, si
può sapere dov’eri finito?»
Il sindaco di Twilight Town era un uomo sicuro
di sé, fermo e spesso persino impassibile. Soltanto con suo figlio la
corazza cadeva giù ed emergevano i sentimenti, ma ciò non voleva
dire che il politico lasciava il posto all’uomo. Perlomeno Axel, nel suo
rifiuto adolescenziale e nella sua ribellione al sistema, l’aveva sempre
visto così: un blocco di ghiaccio di cui non desiderava trovare
l’approvazione.
Ora che però era lì a
fronteggiarlo – con i consigli di Demyx e le parole di Roxas ancora nelle
orecchie – negli occhi di suo padre, verdi come i suoi, vedeva cose come
la rabbia, la preoccupazione, il sollievo. Cose che mai prima d’ora
avrebbe ammesso di potervi scorgere.
E allora decise che, se ancora non potevano
essere padre e figlio, poteva provare a parlargli da uomo a uomo.
Era notte fonda quando finì di
raccontare.
Lea Carter era rimasto per tutto il tempo
immobile, seduto sull’elegante divano in pelle al suo fianco. Nella sua
espressione era passato di tutto, davvero; sconcerto, disapprovazione
all’inizio, poi una comprensione maggiore, uno sconcerto più
grande, paura, un dolore condiviso. Adesso il suo sguardo era assolutamente
indecifrabile.
Axel posò la fronte tra le mani, come
aveva fatto la notte precedente, nella stanza di Demyx. Non aveva altro da
dire. Non c’erano più parole, però erano tornate le
lacrime. E quelle aveva pudore a mostrargliele.
Alla fine di quel silenzio infinito,
l’uomo si schiarì lievemente la voce. Axel sentì sulla
spalla la sua mano esitante.
«Mi… Mi dispiace, Axel.»
Fu il punto di arrivo. I singhiozzi trovarono la
via, e fu impossibile nascondere ancora il pianto.
«Io sono inutile. Sono così
fottutamente inutile. Non c’è una dannatissima cosa che possa fare
per evitarlo, per tenerlo con me. Non sono in grado nemmeno di rendere migliore
il tempo che gli resta…»
La stretta sulla sua spalla si rafforzò.
«Questo non devi dirlo. Mi hai sentito?
Non devi dirlo. Il semplice fatto che tu abbia continuato a stargli accanto
come sempre dimostra che tu puoi fare molto per lui. Puoi concedergli un
po’ di serenità.»
«A quale scopo?» Lo urlò
quasi, stringendo i pugni sulle tempie fino a farsi male. «Non gli serve
la serenità. Lui dovrebbe sapere di potersi salvare, solo questo, solo
questo!»
Intuì senza vederlo che l’altro si
alzava di scatto dal divano e si accovacciava ai suoi piedi.
«Axel. Lascia che ti dica una cosa, che te
la dica da uomo e da padre. Io non sono stato capace di salvare tua madre, e
non sono stato capace neppure di capire te…» Gli tremò la
voce. «Questo tuttavia non cambia la forza di quel che mi ha legato a lei
e di quel che mi lega a te. C’è sempre qualcosa che si può
fare per gli altri, c’è sempre speranza, finché si
ama.»
Axel alzò gli occhi. Per la prima volta
si riconobbe nei lineamenti di suo padre.
Quando lui lo strinse, non si sottrasse.
* * *
Maggio passò, arrivò giugno con i
suoi primi giorni caldi di anticipo d’estate.
Ogni settimana, ogni giorno, il visetto di Roxas
si faceva un po’ più pallido. I suoi occhi però restavano
quelli di sempre, di un azzurro intenso, limpido e sereno. Totalmente ignari
dei bisbigli contrariati – di recente redarguiti in vari modi da Demyx e
Zexion – di chi spettegolava su quel bacio che tanto aveva fatto parlare
di sé.
Axel lo ammirava sempre di più. Doveva
essere stata dura già convivere con il suo essere orfano, con il suo
essere malato; adesso anche questo. Il modo in cui quel ragazzino fronteggiava
la propria vita lasciava il segno.
Erano sempre insieme, a scuola, in orfanotrofio,
alla villa, al prato. Eppure gli sembrava sempre poco, era convinto di non star
facendo nulla che potesse davvero dimostrare a Roxas il suo bisogno di stargli
vicino, di vederlo sorridere, fino alla fine. E il passare del tempo – di
nascosto, dietro il sorriso che si era dipinto sulle labbra – lo
devastava.
Fu suo padre, inconsapevolmente e
inaspettatamente, a fargli venire quell’idea.
A quel confronto notturno ne erano seguiti molti
altri. Axel aveva capito le parole di Roxas, le aveva risentite per ore, steso
nel letto a guardare il buio e a maledire il ticchettio della sveglia. Lo
avevano aiutato a riconsiderare quella parola, famiglia, per lui e per
sé.
Fu così che seppe cosa doveva fare.
* * *
Non ce l’avrebbe mai fatta senza suo
padre. Essere figli di un uomo importante aveva i suoi vantaggi, si disse Axel,
mentre insieme a Roxas scendeva dal treno. Sorrise: era la prima volta che
pensava una cosa del genere.
Era una domenica della metà di giugno. In
realtà, forse ci sarebbe voluto più di un giorno, ma questo
ancora non l’aveva detto a Roxas.
Lo osservò camminare confuso nella
stazione di Traverse Town, al suo fianco, con l’aria sperduta. La sua
pelle era appena un po’ più chiara del giorno prima. Axel
soffocò sul nascere una fitta di tristezza, e gli prese la mano.
«Vieni, abbiamo un traghetto tra dieci
minuti.»
Roxas alzò lo sguardo su di lui, sempre
più inquieto. «Traghetto? Non mi vuoi proprio dire dove mi stai
portando?»
«Ogni cosa a suo tempo.»
Avrebbe tanto desiderato che quella frase
potesse valere per tutto.
Ci volle quasi un’ora per raggiungere la
costa opposta. Roxas si sporgeva dal parapetto, la preoccupazione sostituita da
una muta curiosità. La luce del sole, più intensa nella mattina
inoltrata, rendeva il suo viso quasi bianco. Axel non riusciva a smettere di
guardarlo, di pensare che era bellissimo, di disperarsi interiormente per quel pallore e
ciò che stava a significare.
Scesero a terra. Il ragazzo continuava a
guardarsi intorno; sorrise alla spiaggia liscia, deserta nonostante la giornata
fosse calda e assolata. «È bello qui.»
Axel annuì, con un sorriso. «Siamo
alle Destiny Islands.»
Roxas alzò gli occhi, sorpreso.
La casa era semplice, e piuttosto piccola. Non
lontana dalla spiaggia, era una comune casetta di mattoni, ben tenuta, eppure
sembrava che le mancasse qualcosa. Axel sapeva bene cosa. Ce l’aveva
accanto, e la guardava a sua volta in silenzio.
Si schiarì la voce.
«Andiamo?»
Roxas teneva il viso chino. Gli occhi erano
nascosti dalla frangia bionda.
«Come hai fatto?» chiese, ma il suo
fu poco più che un bisbiglio.
Aveva capito. Sì, era decisamente un
ragazzo sveglio.
«Segreto di famiglia.» Axel
tornò serio e gli strinse una spalla. «Va tutto bene?»
Finalmente Roxas alzò lo sguardo. Era
spaventato, impressionato, ma anche felice. Non disse nulla, ma il piccolo
sorriso luminoso che gli regalò fu più esauriente di mille
parole. Axel ricambiò.
Mentre ancora indugiavano lì, fuori dal
giardino della casetta, a guardarsi, la porta si aprì e un uomo
uscì sulla soglia. Lo fissarono entrambi.
Alto, sulla trentina. Biondo e con occhi
incredibilmente azzurri. Axel sorrise di nuovo. Proprio come nella foto
procuratagli da suo padre. Era da quella che l’aveva riconosciuto: era
identico a Roxas.
L’uomo si passò una mano sul viso,
velato da una tristezza che sembrava animarlo da dentro. Quando abbassò
la mano tremante e li vide, restò là immobile, pietrificato in
quella posizione.
Niente può prepararti al momento in cui trovi
un figlio che non avevi mai sperato di conoscere.
Axel ritrasse la mano dalla spalla di Roxas e lo
guardò. Se ne stava lì con gli occhi pieni di cose, di sentimenti
e di lacrime, a guardare un passato perduto. Le sue labbra si schiusero, ne
uscì una parola appena sussurrata.
Sulla soglia, l’uomo piangeva.
Axel rimase al suo posto mentre Roxas e Ventus
Sullivan si ritrovavano.
Non era stato difficile. Era semplicemente
ciò che andava fatto; e se anche fosse stato difficile, lui non si
sarebbe fermato di fronte a niente.
Aveva dato a suo padre un nome ed un luogo, e
lui lo aveva trovato.
La sera prima, Axel stesso aveva rintracciato
Ventus Sullivan e aveva fatto rivivere il passato per lui.
Il padre di Roxas aveva parlato in quel telefono
come se il peso dei ricordi fosse troppo, troppo da sopportare, e non vedesse
l’ora di raccontare la sua storia.
«Ero disperato. Lei era morta, solo questo
sapevo. Morta, la donna che amavo, morta. E mio figlio smarrito,
affidato ad un qualche istituto.» Aveva sospirato, un sospiro tremante.
«L’ho cercato, Dio solo sa quanto l’ho cercato, Axel. Non
riuscii a trovarlo, non c’era nulla a testimoniare che io fossi suo
padre. Ora mi odio per essermi arreso. Se solo avessi saputo prima… Se
solo…» Aveva inghiottito le lacrime, quindi aveva ripreso con
più forza, con più convinzione. «Devo vederlo. Adesso,
prima che sia troppo tardi. Devo vedere mio figlio e chiedergli scusa.»
Lo sguardo di Axel si perse nel crepuscolo delle
Destiny Islands. Niente a che vedere con Twilight Town, certo; però
l’aria del mare era speciale.
Aveva fatto bene a portarlo lì.
Finalmente aveva potuto fare qualcosa per
lui…
Il vento cambiò, gli portò un
odore di gigli che conosceva bene. Sorrise.
Roxas si sedette al suo fianco, sulla sabbia,
abbracciandosi le ginocchia.
Axel non seppe trattenersi.
«Com’è andata?»
Il ragazzo tenne gli occhi fissi
sull’orizzonte. «Abbiamo parlato. Di tante cose. È
proprio… proprio come lo immaginavo, Axel. È l’uomo che ho
intravisto nel diario di mia madre.» Si voltò a guardarlo.
«Grazie…»
In quella sola parola, Axel poté
percepire tutto quello che provava. Gli sfiorò il viso con una mano.
«Non piangere…»
Lui sorrise tra le lacrime, appoggiò la
guancia al suo palmo aperto. Non disse altro.
Axel lo attirò più vicino e si
distese con lui sulla sabbia fine. A lungo sentì il suo pianto sul
cuore.
* * *
Axel
si diplomò. Non l’avrebbe mai creduto possibile, considerando che
negli ultimi tempi la scuola per lui era finita all’ultimo posto; invece
andò tutto bene. Per quest’anno la bocciatura era scampata.
Fu una cerimonia noiosa, come soltanto le
consegne del diploma sanno essere.
Quando finalmente finì, Axel scese dal
palco e cercò subito di sottrarsi ai compagni. Non fu un’impresa
facile. Soltanto grazie all’aiuto di Demyx riuscì a farsi strada
tra le pacche e i festeggiamenti degli studenti dell’ultimo anno.
«Levati dai piedi, Larx. Fallo
passare.»
«Oh, certo» commentò Larxene
ad alta voce, sprezzante, «va dal suo ragazzo.»
Solito coretto di mormorii e sghignazzi. Come
sempre, Axel non ci badò.
Roxas lo aspettava al fianco di Lea; entrambi
sorridevano.
«Bravo, Axel» si complimentò
solennemente il sindaco Carter. «Ti ho sempre detto che con un po’
di sacrificio avresti ottenuto degli ottimi risultati.»
«Già, così tante volte che alla
fine mi hai evidentemente plagiato» ribatté Axel ironico.
Suo padre rise.
Roxas scuoteva la testa, un sorriso allegro
sulle labbra. «Se uno come te ha preso il diploma, c’è
davvero speranza per tutti.»
Axel si tolse di testa quello stupido berretto
che gli avevano affibbiato e lo fulminò con gli occhi. «Attento,
scricciolo. Potrei reagire male.»
«Ah, davvero? Cosa c’è, hai
intenzione di ferirmi?»
Lea Carter si era appena allontanato, salutando
un vecchio compagno di studi. Axel ne approfittò per tirare Roxas a
sé.
«No, ma sai che adoro farti
arrossire» gli soffiò sul naso, ghignando.
Come previsto, Roxas avvampò, ma non si
ritrasse. Continuò addirittura a sorridere. Axel si chinò
lentamente a baciarlo.
Da molto tempo non parlavano della sua malattia.
Fin da quando gli aveva fatto ritrovare suo padre, con lui era sempre stato
naturale, e questo non gli era costato nessuno sforzo. Non poteva evitarsi di
stare bene in sua compagnia, anche se il suo viso si faceva sempre più
smunto e il suo respiro qualche volta affaticato.
«Ah…»
Axel aprì gli occhi. Roxas ansimava,
tenendosi una mano stretta al petto. Il suo gemito di dolore aveva spezzato
l’incanto di quei pensieri; la realtà sembrò cadergli di
nuovo addosso in tutta la sua forza.
Il ragazzo si accasciò su se stesso, e
non cadde soltanto perché era ancora tra le braccia di Axel, che subito
lo sorresse.
«Roxas… Roxas, che succede?»
Nessuna risposta.
Qualcuno dovette accorgersi che qualcosa non
andava, perché l’istante successivo Axel si sentì
circondato dalla calca.
«Cos’ha?»
«Che gli è successo?»
«State lontani! State lontani, lasciatelo
respirare!»
Era la voce di suo padre. Come da molto lontano,
Axel lo vide entrare nel suo campo visivo ed aiutarlo a sostenere Roxas.
«Facciamolo stendere» gli disse poi.
Scioccato, lui obbedì.
Solo quando Roxas fu semidisteso nell’erba
del cortile della Twilight High, le mani ancora strette a lui, Axel poté
vedergli il viso. Era bianco come un lenzuolo. Respirava ancora affannosamente.
Quella vista fu un colpo al cuore.
«No» gemette, «no…»
Roxas lo guardò, cercò di
sorridergli, ma era evidente che ogni movimento gli costava una fatica immensa.
Sembrava sempre più debole.
«Un’ambulanza, presto,
un’ambulanza» ordinò Lea Carter agli astanti.
«La chiamo subito!»
Demyx. Da qualche parte nel vuoto che stava
calando su di lui, Axel trovò la forza di essergli grato.
Lo
ricoverarono. Il medico che si stava occupando di lui era giovane, e appariva
disponibile e sinceramente coinvolto da quel quindicenne in lotta con la sua
malattia. Axel vide la tristezza nei suoi lineamenti, quando uscì dalla
stanzetta in cui avevano sistemato Roxas, e si sentì sprofondare.
«Dottor Leonhart» lo chiamò
il sindaco Carter, che per tutto il tempo aveva atteso al fianco del figlio.
«Può dirci qualcosa?»
Il medico sospirò profondamente.
«Un mese. Due al massimo. È quanto gli resta.»
Axel serrò le palpebre.
«Questa sarà la mia ultima
primavera…»
Gli
permisero di entrare nella sua stanza soltanto nel pomeriggio.
Suo padre se n’era andato, dopo averlo
stretto un’ultima volta, con forza.
«Devi stare con lui» erano state le
ultime parole che gli aveva rivolto.
Quando entrò e lo vide – sembrava
così piccolo, così indifeso
– nel bianco del letto e delle pareti, tutto il dolore che aveva saputo
sopire dentro di sé rischiò di sopraffarlo, come già era
successo quel giorno, al prato dei gigli. Era stato forte, si era promesso che
non avrebbe mai più ceduto alla paura o alla disperazione; ma forse era
scritto che così non poteva essere.
Roxas aprì gli occhi. Non dormiva.
«Ti aspettavo» mormorò
debolmente, sorridendo.
Axel si sedette accanto al suo letto, o
piuttosto si lasciò cadere. «Perché mi fai questo?
Perché sorridi? Hai idea di quanto sto male?»
Non avrebbe voluto darlo a vedere, ma ormai
tremava, e la sua voce era incrinata dalla frustrazione.
Roxas sollevò una mano. Il filo della
flebo si mosse con lui. Gli sfiorò il viso con le punte delle dita:
erano sorprendentemente calde.
«Mi dispiace» sussurrò. Il
suo sorriso era sparito.
Axel strinse la sua mano, se la portò
alle labbra, la baciò. Si stupì nel sentirla più esile di
come se la ricordasse.
«Scusami.» Chiuse gli occhi.
«Non avrei dovuto dirlo. Non devi sentirti in colpa per me, Roxas.»
«Non posso evitarlo.»
Tornò a guardarlo. Ancora una volta, un
sorriso triste illuminava il suo volto pallido.
«Non posso evitarlo» ripeté,
«perché non avrei mai voluto farti soffrire.»
Axel non disse niente, non reagì. Roxas
sfuggì alla sua stretta e fissò il soffitto.
«Tra quanto tempo?» chiese, e
stavolta la sua voce suonò stranamente sicura, chiara.
Si morse il labbro. «Un mese o due»
si costrinse a rispondergli.
Lui annuì, piano. L’aveva sempre
saputo. Aveva sempre avuto la forza di sopportarlo.
Era lui, Axel, che si sentiva sconfitto.
Scivolò con il viso sulla spalla di
Roxas, perché non vedesse le sue lacrime. Come prima, il ragazzo
sollevò la mano e la passò lentamente tra i suoi capelli.
* * *
Così, la voce si diffuse, e tutti seppero
il motivo per cui il piccolo Roxas Sullivan, il ragazzino
dell’orfanotrofio, il ragazzo di Axel Carter, era finito in
quell’ospedale, da cui probabilmente non sarebbe uscito.
D’improvviso Twilight
Town divenne un paese pieno di comprensione e carità.
Axel odiava, odiava
quella situazione.
Gente che fino a una
settimana prima non degnava Roxas di uno sguardo. Gente che poi però
bisbigliava al suo passaggio, sul suo passato, sul posto in cui viveva, e sul
fatto che da quando era comparso lui «Axel Carter era cambiato».
Gente che lo guardava strano, lo additava persino, dietro le spalle. Gente che
ora si presentava nella sua stanza con parole di conforto e stupide frasi di
circostanza.
Li odiava.
«Come fai a
sopportarlo?» aveva chiesto una volta a Roxas, dopo che il ragazzo aveva
ricevuto la visita di Xion – quella piccola vipera del terzo anno sempre
in combutta con Larxene – che si era praticamente sciolta in lacrime,
informandosi sulla sua salute. E dire che lei era stata la prima a far
circolare la voce del suo rapporto con Axel, a mettere quel che c’era tra
loro in una luce squallida e volgare.
Roxas aveva alzato gli
occhi, sorpreso. Aveva le spalle al cuscino, non molto più bianco della
sua pelle.
«A sopportare
cosa?»
«Lo sai.» Axel
aveva inghiottito la rabbia. «Non sono mai stati tuoi amici, non gli
è mai importato niente di te. Ora vengono qui e fanno i buoni
samaritani. Possibile che non ti dia fastidio?»
Ma già mentre finiva
la frase si rendeva conto che quella era una domanda retorica. No, a lui non
dava fastidio. Roxas era un essere troppo buono per portare rancore.
Lo fissò col suo
sguardo di bimbo saggio, quello che lo aveva fatto innamorare e che non era mai
cambiato. «No, Axel. Non ho motivo di provare fastidio. Sono convinto che
molte di queste persone siano sincere; e se anche sbaglio, beh, mi piace
pensare che sia così.»
Per l’ennesima volta,
non aveva saputo cosa rispondere. Era praticamente impossibile fronteggiarsi
con la sua forza d’animo.
Però aveva
cominciato a capirlo. Forse aveva ragione; forse era stupido odiare la gente di
Twilight Town, ed era meglio sperare che avessero capito davvero che, pur con i
loro pregiudizi, non avevano in nessun modo intaccato la vitalità di
Roxas – che anche in questa situazione restava più forte di loro
– e che ora si sentissero semplicemente in colpa, in dovere di andare a
scusarsi, di andare a parlargli.
Il giorno in cui Demyx,
Zexion e Larxene si presentarono da lui, i due ragazzi silenziosi e la ragazza
con gli occhi pieni di lacrime, Axel guardò il sorriso di Roxas, e solo
allora capì finalmente perché tutti i ragazzi della Twilight High
avessero deciso di andare a trovarlo.
Fu quel giorno che si
convinse a seppellire di nuovo il dolore per ricominciare a sorridere con lui.
* *
*
Passò anche luglio. L’estate
stendeva i suoi raggi nella stanza d’ospedale piena di gigli bianchi. La
luce, ingannatrice, sembrava dare nuovo colore alle guance di Roxas, che
l’accoglieva sempre col solito sorriso.
Alla fine non era cambiato
niente. Per quanto debole fosse in apparenza, per quanto stanchi e lenti
diventassero i movimenti con cui si sollevava a sedere su quel letto, era
sempre la persona forte che abbracciava i bimbi dell’orfanotrofio, che
leggeva il diario di sua madre senza piangere, che aveva sorriso
all’indifferenza altrui e che aveva pianto soltanto per Axel, ma il
più delle volte di gioia.
Aerith e Yuffie venivano
spesso a trovarlo. A volte portavano con loro qualcuno dei bambini. Ora la
stanza era colorata da molti disegni, cartoncini, biglietti pieni di frasi
speranzose ed allegre. Su tutte svettavano le parole di Naminè, che poi
erano le parole di Roxas: Le cose belle sono anche quelle che non ci
dimenticheremo mai.
Ventus era partito dalle
Destiny Islands il giorno dopo che Axel lo aveva informato del ricovero. Aveva
preso una stanza in un albergo vicino all’ospedale, e il più del
tempo lo passava a cercare di conoscere suo figlio, per quel poco che gli era
rimasto, sempre con il viso rigato di lacrime e sempre con gli occhi pieni di
rimpianti.
Nessuno, però,
passava tanto tempo in quella stanza quanto Axel.
Non lo aveva abbandonato un
attimo. Dormiva lì, mangiava lì, non ne voleva sapere di
lasciarlo solo. Qualche volta Roxas cercava di cacciarlo via, ridendo,
ricordandogli che poteva fargli bene qualche ora fuori; lui fingeva sempre di
partecipare allo scherzo, ma non gli ubbidiva. Mai.
Le uniche volte in cui si
era allontanato dal suo letto era stato per andare a prendere i gigli al prato
e le sue cose in orfanotrofio. Voleva che le avesse intorno, che si sentisse a
casa.
«Non ce
n’è bisogno» gli aveva mormorato una volta Roxas, timido.
«Mi basti tu.»
* *
*
La mattina del 31, Axel tornò dal
distributore automatico – fonte delle sue recenti colazioni – e
rientrò nella stanzetta bianca, trovando Roxas seduto contro la
testiera. Era sempre più esangue. Negli ultimi giorni, nonostante le insistenze
dei medici, aveva smesso di mangiare; tuttavia c’era troppo colore,
troppa vita nel suo sguardo, per credere che stesse davvero per arrivare al
limite.
Axel gli sorrise, ma lui,
per la prima volta, non ricambiò.
«Ehi.»
L’adolescente andò a sedersi alla solita seggiola. «Tutto
bene?»
Roxas lo fissò.
«Perché non me l’hai detto?»
Lui ricambiò
l’occhiata, senza capire. «Non ti seguo» ammise alla fine.
L’espressione del
ragazzo si addolcì un po’.
«Tuo padre è
stato qui, due minuti fa, prima di andare in municipio» disse. «Mi
ha detto che oggi è il tuo compleanno.»
Axel continuò a
guardarlo. Fece mente locale: sì, era la fine di luglio. Se n’era
completamente dimenticato.
«Non ci ho
pensato» tagliò corto, con una scrollata di spalle. «Intendi
forse denunciarmi per questo?»
Finalmente Roxas sorrise.
Scosse piano la testa. «No. È solo che… Non mi hai dato modo
di incartare il mio regalo.»
Axel gli scostò i
capelli dalla fronte bianca. «Non devi pensare a questo. Non mi serve
nessun regalo da te, niente è più che averti qui.»
L’unica cosa che
vorrei, purtroppo, non posso averla…
Si morse il labbro,
sperando che la tristezza non stesse trasparendo dal suo sguardo; per fortuna
Roxas sembrò non accorgersene. Si era voltato a prendere qualcosa sul
comodino al suo fianco. Quando si voltò di nuovo, gli tese un oggetto
nero e inconfondibile.
«Voglio che lo tenga
tu.»
Guardò il diario che
gli porgeva, poi di nuovo lui. Sentì che non avrebbe retto ancora per
molto.
«Perché?»
bisbigliò.
Roxas sorrideva ancora.
«Perché è giusto così. Perché sei
l’unico a cui sento di volerlo dare. E perché non so
cos’altro fare per ringraziarti di tutto.»
Insieme all’ultima
parola cadde una lacrima.
Era la prima volta, da
quando era in quell’ospedale, che si concedeva di lasciarsene sfuggire
una.
Axel abbassò lo
sguardo. Non si sentiva neppure degno di sostenere quegli occhi che
ringraziavano lui, quando loro erano tutto il suo mondo. Prese
lentamente il diario; poi si chinò finché il suo viso non
poté nascondersi sulle lenzuola tese sulle gambe magre di Roxas. Lo
strinse in vita, con delicatezza, perché aveva paura di fargli male.
Sentì il suo
abbraccio lieve, e pianse.
* *
*
La notte del 12 agosto, Axel si svegliò
di soprassalto. Si ritrovò al suo solito posto, sulla sua solita
seggiola, accucciato con le braccia e il capo sul solito letto
d’ospedale; la luce della luna filtrava dalla finestra aperta al caldo
estivo, unendosi ai neon che illuminavano il corridoio oltre la porta chiusa.
Tutto come al solito. Eppure, un terribile senso di oppressione gli stringeva
le viscere.
Alzò subito gli
occhi.
Roxas era sveglio. Lo
guardava nella penombra, intensamente, più che mai.
Axel si rilassò un
po’. «Non dormi?»
«Aspettavo che ti
svegliassi…» mormorò lui. «C’è una cosa
che voglio chiederti.»
Si tirò su.
«Dimmi.»
Roxas lo imitò,
sollevandosi lentamente a sedere. Axel gli venne in aiuto. Si rese conto di
quanto fosse debole il suo respiro, sfuggente la sua presa. Non volle credere
al presentimento di poco prima, e si costrinse a continuare a sorridere.
Quando fu seduto, Roxas
alzò lo sguardo su di lui e ricambiò il sorriso.
«Quella
promessa…» La sua voce era poco più che un sussurro
affaticato. «L’unica promessa che mi hai fatto, non l’hai
mantenuta. Ora posso chiederti di farmene un’altra?»
Axel si sentì
stringere il cuore. Con un braccio lo sosteneva ancora; gli restò
vicino, senza lasciarlo andare. «Certo che puoi.»
Roxas chiuse gli occhi.
Appoggiò il capo al muro alle sue spalle. Il sorriso non accennava a
sparire.
«Promettimi
che… prima o poi… tornerai al prato dei gigli. So che per un
po’ non vorrai, ma… promettimi che lo farai… non importa
quando.» Gli sfiorò una mano, se la portò al viso.
«Io sarò lì… in qualche modo… ad aspettarti.»
Parlare evidentemente lo
sfiniva. Le sue parole si persero in un mormorio confuso.
Lottando contro le lacrime
che sentiva premere contro l’argine della sua determinazione, Axel
portò anche l’altra mano al suo viso. Lo vide aprire gli occhi, e
si specchiò in quell’azzurro che nella penombra sembrava appena un
po’ più cupo.
«Te lo
prometto» gli soffiò sulle labbra. «E questa la
mantengo.»
Roxas sorrise.
«Sì… So che lo farai.»
La stretta sulle sue dita
si allentava sempre di più. Il suo corpo stava diventando freddo.
Il momento doveva essere
arrivato, ma non riusciva, non riusciva a dirgli addio…
Axel appoggiò la
fronte alla sua e si fece forza. Non l’avrebbe lasciato andar via senza
quelle parole che ancora non gli aveva detto.
«Ti amo,
Roxas.»
Lui riuscì ad
arrossire ancora una volta. L’ultima. E Axel seppe in quel momento che
l’avrebbe sempre ricordato così, con le guance rosse e il sorriso
mai spento sulle labbra.
«Anch’io ti
amo, Axel…»
Lo baciò,
sfiorandolo appena. Sentì le sue labbra ancora tiepide schiudersi
lentamente alle sue e ricordò le parole che gli aveva detto quella sera,
in macchina, la prima dopo avergli svelato il suo segreto.
«Credo che questa
sarà una delle cose che mi mancheranno di più.»
Roxas si ritrasse e riprese
a respirare debolmente, nascondendo il viso sul suo petto.
«Mi canti quella
canzone?» mormorò alla sua camicia.
Axel lo strinse a
sé. I versi che cantò sapevano di pianto.
Your voice was the soundtrack of my summer
Do you know you’re unlike any other?
You’ll always be my thunder, and I said
Your eyes are the brightest of all the colours
I don’t wanna ever love another
You’ll always be my
thunder
Il respiro di Roxas sul suo
petto si affievolì a poco a poco, mentre lontano, da qualche parte fuori
da quella finestra, la campana di Twilight Town batteva la mezzanotte.
13 agosto. Il suo sedicesimo
compleanno. L’ultimo.
Axel continuò a
stringerlo, e chiuse gli occhi per non vedere le proprie lacrime cadere tra i
suoi capelli biondi.
So bring on the rain, and bring on the thunder
* *
*
Roxas se ne andò dalla mia vita con
lo stesso sorriso che aveva quando vi era entrato.
Del giorno
seguente ricordo solo il senso di vuoto che già mi aveva accompagnato
quel pomeriggio, quando mi aveva detto la verità.
Ricordo le
grida di Ventus Sullivan, i suoi pugni sulle pareti, il modo in cui si
accasciò a terra il giorno del funerale. Stroncato dal dolore. Fu
così che tornò alle Destiny Islands. Da allora non ho più
saputo nulla di lui; ma so che qualche mese fa è stato trovato un corpo
alla deriva delle isole. Un uomo sui trent’anni, biondo, uno che aveva deciso
di farla finita.
Ricordo le
lacrime di Aerith, la sua mano sulla mia, il suo tentativo di starmi vicina.
Non poteva. Nessuno in quei giorni riuscì a permeare il mio vuoto;
né lei, né Demyx, né mio padre.
Ricordo i
bambini dell’orfanotrofio, i loro sguardi smarriti. Come me, come tutti
noi, avevano perso un amico, un fratello, una persona che li amava tutti
incondizionatamente, semplicemente perché non poteva fare a meno di
amare. E ricordo Naminè che veniva ad abbracciarmi. L’unico
contatto di cui abbia serbato un qualche calore.
Ricordo il
vuoto. Il vuoto lasciato da lui.
Non dirò che dopo quel momento ho
continuato a vivere come Roxas mi aveva insegnato – sperando;
perché non è così.
Ci ho messo del
tempo a rialzarmi, e mi ci sono voluti due anni per tornare a Twilight Town.
Sono fuggito da
me stesso, dal dolore, a lungo, prima di capire che ad ogni modo quel dolore
l’avrei sempre portato dentro di me.
Allora ho
cercato di rimediare. Sono tornato sui miei passi. Ho riabbracciato mio padre.
Ho rivisto l’orfanotrofio. Ho preso con me Naminè.
L’ho
fatto per lui,
perché sentivo che a lui avrebbe fatto piacere così, ma
l’ho fatto anche per me. Mi sono rialzato. Sono cresciuto.
Ed ora sento di
aver trovato la forza per mantenere quell’ultima promessa.
Il prato dei gigli è come lo
ricordavo. Come l’ho visto in quei giorni in cui lui
non c’era e io non sapevo dove andare a cercarlo.
Vuoto. Senza la
sua anima.
Cammino
lentamente tra i fiori, cerco il punto esatto in cui ci distendevamo a guardare
le nuvole ed io lo ascoltavo leggere la storia di sua madre. Quella storia che
adesso porto sempre con me, che è tutto quel che mi resta di lui.
Insieme ai cambiamenti che ha lasciato nella mia anima.
Il vento si
alza. È un giorno d’estate, è il 13 agosto. Oggi Roxas
avrebbe diciotto anni.
E io sono qui.
L’ho
mantenuta, scricciolo. Sono tornato.
Ma tu non ci
sei.
«Grazie…»
Mi volto: nessuno.
Non sono certo
di averlo sentito davvero, forse era soltanto il ricordo della tua voce…
Poi però
sorrido.
Tu le tue
promesse le hai sempre mantenute.
Il vento sa di
qualcosa di nuovo, adesso. Chiudo gli occhi e lascio che mi sfiori il viso. E
mi sembra di risentire il tocco lieve delle tue mani.
E piango
ancora, ma è un pianto diverso.
In questo
istante, so di poter ritrovare la felicità.
Perché
“chiunque avrà modo di incontrare questi suoi occhi, almeno una
volta nella vita, si dirà la stessa cosa”…
Grazie a te,
Roxas.
Grazie per
avermi cambiato la vita.
Grazie per
essere stato la cosa più bella che abbia mai avuto.
Il mio
miracolo.
Nel prato dei gigli, alla periferia di
Twilight Town, un giovane uomo dai capelli rossi si distende e guarda le nuvole,
come un bambino.
Chissà
cosa vede riflesso nel blu di quel cielo estivo.
ç___ç
Perdonami, Roxas...
Un applauso a chi ha resistito fino alla fine! xD
Beh, immagino capirete da voi che una raccolta del genere non verrà aggiornata molto spesso… Voglio dire, già solo per questo ci ho perso mesi e mesi. E non è neppure il meglio che potevo fare. u///ù Però mi farebbe davvero piacere sapere cosa ne pensate; anzi, se avete dei suggerimenti su possibili film da cui trarre ispirazione, sarò lieta e onorata di ascoltarli! =3
Vi ringrazio ancora, e in anticipo.
Di nuovo, un felice 2010 a tutti voi! ^^