Disclaimer:
i
personaggi sono copyright di Hidecaz Himaruya.
Note:
la vicenda
comprende l’inizio dell’unione Polacco-Lituana (1386), la nascita della
Confederazione omonima (1569) e la sua rottura con la spartizione della Polonia
ad opera di Prussia, Russia e impero Austro-Ungarico (1795). Per questo agli
inizi si fa riferimento alle due nazioni come due bambini.
Io devo piantarla di flasharmi cose assurde come questa, davvero.
Ringraziamenti:
si
ringrazia Yoko891 per aver fatto da beta.
Grazie
anche a Yoko891, ballerinaclassica, makotochan e BeyondBirthday per aver
commentato “Fuori piove” <3
Uno.
La
prima volta che glielo avevano presentato, Polonia non era stato proprio
l’apoteosi della felicità, né
dell’ospitalità: nulla contro Lituania, per carità.
Era più una questione che, tipo, a lui proprio non piacevano gli estranei.
Era
poco meno di un moccioso, poi; quel ragazzino timoroso che stava nascosto
dietro il suo Granducato tutto tremolante, guardandolo come se lui fosse il
brutto e cattivo della situazione non gli era andato molto a genio.
Cioè,
tipo, come se fosse colpa sua se erano lì!
Quasi
per dispetto – e per una vena molto bastarda già in tenera età – per tutto il
tempo in cui il suo Regno e il Granducato di quello lì parlavano, non aveva
fatto altro che guardarlo male. Come se, tipo, dovesse azzannarlo o roba
simile.
E
l’altro chiudeva gli occhi, come se bastasse a smorzare le sue intenzioni –
affatto reali, ma quello Lituania mica lo sapeva.
Feliks lo aveva osservato ridacchiando sotto i baffi,
pensando che non c’era da preoccuparsi; Lituania era, tipo, uno troppo debole e
pauroso per essere una minaccia di qualsiasi genere.
Due.
Polonia si era chiesto, dopo che la loro unione era stata definitivamente decisa, perché nessuno si fosse preso la briga di dirgli che quello era così.
Lituania
gli camminava sempre qualche passo dietro, seguendolo come un cagnolino fedele
e obbediente, e ogni tanto lo sentiva persino attaccarsi alla sua maglietta
nemmeno temesse di perdersi.
Gli
dava la sensazione che il lituano non sapesse nemmeno camminare senza di lui; e
doveva ammettere che era, tipo, una sensazione un sacco figa.
L’unica
pecca di Lituania era che non parlava mai e se lo faceva balbettava e guai,
guai!, farglielo notare: si chiudeva nel silenzio, a pensare e pensare – a cosa
Polonia non lo sapeva – e alla fine doveva preoccuparsi di fargli bere qualcosa
di caldo per il mal di stomaco che puntualmente gli veniva.
Polonia
l’aveva fissato mentre il castano sedeva con l’aria abbacchiata, tenendo fra le piccole mani una tazza di latte e
miele.
«Ma
tu, tipo, ti agiti sempre così, Liet?»
Lo
aveva visto alzare lo sguardo un po’ spaesato e timoroso, annuendo poi pian
piano.
Aveva
sospirato con l’aria rassegnata; Liet era, tipo, un sacco carino ma non parlava
mai. Nemmeno ora che stavano insieme da un po’ già, che facevano insieme un
sacco di cose – per non dire tutto.
«È…
bello.»
«Eh?»
«L-Liet.
È carino.» aveva balbettato.
Quella
era stata la prima volta che Liet gli aveva parlato.
Tre.
Liet per lui era stato un sacco di cose.
Un
moccioso da proteggere quando era un moccioso anche lui, un amico, una Nazione,
una cavia per gli scherzi, un fratello, un amante.
Era
stato la dolcezza di un bambino che piangeva per gli scherzi stupidi, la lealtà della persona più fidata, il calore di
una famiglia e quella sensazione che ti basta al mondo una sola persona.
Era
stato sempre lì, e non si era mai allontanato; a distanza di anni era come se
Toris non avesse mai smesso di stare attaccato alla sua maglia, da cui si staccava solo quando giocavano insieme.
Poi
però era precipitato tutto.
Anche
l’unione in cui non aveva creduto all’inizio e che era stata poi la sua
certezza, che lo era anche ora che faticosamente si ritirava su dopo che quelli
avevano fatto i loro porci comodi con la Polonia.
Non
gli interessava che lo avessero tradito – lui non era uno che contava sugli
altri, tipo che ce la faceva benissimo da solo! Lui e il suo orgoglio polacco.
Non
gli serviva altro.
A
parte… Liet; che gli avessero portato via anche lui, quello lo faceva infuriare
da matti.
Anche
mentre era stato in ginocchio, inutile come la più debole delle nazioni, ed era stato a guardare mentre distruggevano lui,
loro.
Anche
allora gli era venuta voglia di alzarsi, e colpire, colpire fino a che non se
ne fossero andati via.
Invece
aveva chiuso gli occhi; la sua gente si era arresa, i suoi sovrani si erano
arresi.
Liet
forse ora tremava.
Lui
pregava mentre, lentamente, moriva.
È
strana la sensazione che ha addosso.
È,
tipo, come dormire: solo che sente i rumori, sa cosa succede intorno; è come
essere fermi al letto malati.
Come
quando vuoi muoverti ma è il tuo corpo che si rifiuta.
Sì,
la sensazione era quella; anche se c’era qualcosa in fondo che si smuoveva
piano, poi sempre più impaziente.
Polonia
era sicuro che sarebbe tornato.
Anche
se ora non vede bene, non distingue, ed è ancora stanco e sta fermo. Ma che
quelli, lì fuori, non pensino nemmeno per un attimo che lo fa per paura.
Devono,
tipo, pregare che lui non si svegli mai più; perché se invece tornerà – e
Polonia non lo prega più, lui lo sa, se lo sente dentro, addosso, ovunque –
andrà lì a prendere a calci in culo Russia e romperà a pedate gli occhiali di
Austria e gli spaccherà anche il pianoforte così, perché gli gira di farlo.
E a
quel punto tornerà da Liet.
Se
non apre gli occhi adesso, è solo perché non gli piace quello che ci sarebbe da
guardare.
Uno, due, tre: stella!
Apre gli occhi,
si volta,
ma Lituania lì non c’è.
Non c’è da nessuna parte.