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Autore: Akami92    09/01/2010    2 recensioni
Chiuse gli occhi e camminò alla cieca nel bosco, inciampando, cadendo, ferendosi. Non voleva più vedere nulla. Sarebbe stato un Edipo solitario.
Quando comprese di essere giunto al limitare della foresta aprì gli occhi. Così com’era venuto, il rosso scarlatto scomparve.
In quell’istante, scoppiò a piangere: del villaggio dei Kuruta non era rimasto più nulla.
Genere: Triste, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Edipo

 

 

Un ragazzo vestito di un lungo e soffice abito color sabbia correva per l’atrio della sua casa, sorridendo: quel giorno era il compleanno del suo nonno, che compiva ben cento anni, e lui aveva da mostrargli i suoi progressi nell’arte del maneggiare le spade che gli erano state regalate due anni prima, per il suo decimo compleanno.

«Nonno! Nonno!» esclamò felice, rischiando di inciampare nel prezioso tappeto persiano del corridoio nel quale era appena entrato.

Percepì un leggero spostamento alla sua destra e subito si fermò, sfoderando una delle due spade che teneva legate alla cintola dell’abito. Subito, la sottile figura di una katana balenò, colta con la coda dei suoi occhi. Riuscì a stento a parare il fendente.

«Complimenti, cuginetto, ottimi riflessi.» disse calma una voce proveniente da una sagoma avvolta nell’oscurità di una stanza dalla porta aperta.

«Karin! Santo cielo, mi hai spaventato.» mormorò Kurapika, a fiato corto, rinfoderando una delle spade gemelle che gli era servita a contrastare l’attacco della cugina.

La ragazza uscì allo scoperto, vestita di un lussuoso kimono rosa che accentuava il contrasto con i capelli, biondissimi, e gli occhi color acquamarina. Era poco più alta di lui, molto snella e particolarmente attraente.

Karin scoppiò in una risata contenuta. «È incredibile, però. La tua abilità con le spade gemelle è notevolmente aumentata! Ancora un po’ di pratica e sarai in grado di competere con tuo fratello!» commentò, dopo pochi secondi, scompigliando il caschetto ordinato del cugino.

«Ugh!» borbottò il biondo, cercando di riparare alla bell’e meglio al danno. «Comunque, che ci fai qui? Pensavo che fossi già nella sala delle cerimonie a fare gli auguri al nonno!» domandò, riprendendo a camminare insieme alla ragazza.

«Lo ero, infatti,» annuì, sbuffando dalla noia, cercando di reprimere uno sbadiglio. «Ma stava diventando di una noia insostenibile. Ad un tratto, tuo padre ha cominciato a commentare che tu non ci fossi e mi sono offerta volontaria per venirti a cercare! Tutto pur di scappare da quell’inferno! Odio quando la nostra famiglia al completo si riunisce in un’unica stanza! È soffocante!» fu l’esauriente risposta di Karin, avvicinandosi a quello che sembrava essere un portaombrelli e riponendovi la propria katana con accuratezza materna. «A proposito… tu dov’eri finito?»

«, ecco… mi stavo allenando con le spade. Voglio mostrare al nonno i miei progressi. Come hai detto tu: sono sul punto di eguagliare Kazuhiko nii-san.» spiegò Kurapika, leggermente imbarazzato. Suo fratello era il suo modello, il numero uno della famiglia. Aveva quindici anni ed era davvero molto, molto intelligente.

Leggeva spesso – mai quanto Kurapika, però – e maneggiava le spade gemelle come se completassero le sue nude mani. Persino loro padre aveva dovuto arrendersi davanti a tanta bravura.

«Certo, mi sembra logico, piccolo e dolce Kurapika.» miagolò la ragazza, facendo un buffetto sul mento del cugino, che assunse un’aria imbronciata e molto tenera.

«Smettila di trattarmi come un bambolotto!» sbottò, alzando la voce già matura, nonostante l’età.

«Ma che posso farci se sei così terribilmente carino?» si scusò, ridacchiando. «Da grande farai strage di donne, vedrai! Ne sono sicura!»

Il piccolo Kurapika arrossì violentemente sulle gote e sugli zigomi perfetti, fermandosi davanti ad una grande porta di legno pomposamente intarsiato. Si risistemò la veste lungo le gambe e abbassò la maniglia, sorridendo al sentire nuovamente lo sbuffare di Karin.

Una volta entrato nell’enorme sala fu travolto dagli sguardi curiosi di tutti i membri della sua famiglia, e incenerito dallo sguardo furente della madre, che gli rimproverava il ritardo.

«Kurapika! Si può sapere dove ti eri cacciato? Il nonno ha già aperto quasi tutti i regali!» lo ammonì una donna piuttosto giovane, dai lunghissimi capelli castano chiaro raccolti in una coda alta, fulminandolo con i lucenti occhi azzurri.

«Suvvia, cara. Non essere così ipercritica! Sono sicuro che nostro figlio stesse facendo qualcosa di importante a giustificare il suo ritardo.» la gioviale e profonda voce del padre fece sobbalzare il figlio, che gli sorrise, molto grato.

Il padre di Kurapika poteva definirsi con sicurezza un bell’uomo. Aveva un corpo tonico e muscoloso, senza eccedere nel volume, due specchi acquamarina uguali a quelli del figlio e i capelli color paglia tenuti non troppo lunghi. In definitiva, uno di quegli uomini che lasciano le donne senza fiato a qualunque età.

«Ciao, Kurapika!» lo salutò il nonno andandogli incontro e abbracciandolo come se fosse da tempo che non lo vedeva. L’abbraccio scosse le spade gemelle racchiuse nel fodero, mettendosi così in mostra agli occhi cerchiati dell’anziano. «Ma guarda! Fammi un po’ vedere come te la cavi con quelle due signorine!» lo spronò l’uomo, prendendo in mano una delle spade.

Il giovane non aspettava altro che questo. Sfoderò le armi lucenti e si fece spazio tra la folla, sotto gli occhi brillanti d’ammirazione della famiglia.

Eseguì numerosi fendenti, impegnandosi con grazia e perfetta padronanza del proprio corpo. Lui e quelle spade si erano fusi in una sola cosa e ogni movimento era leggiadro e calcolato per essere privo di sbagli.

Quando si fermò, fu travolto da uno scroscio di applausi. Con gli occhi cercò il proprio fratello e lo vide sorridergli fiero.

«Bravissimo!» lo elogiò Karin. La voce degli altri suoi cugini le fece eco, assolutamente d’accordo con lei. Il giovane Kuruta si sentì confidente nelle sue capacità e, rinfoderando le spade, guardò il nonno, attendendo di essere lodato anche da lui.

Ma l’anziano dava l’idea di non aver nemmeno guardato l’esibizione del nipote, perso in chissà quali pensieri. La fronte corrugata e una strana luce negli occhi misero tutti gli adulti all’erta. La sua presenza si percepiva incredibilmente pesante. Un brivido corse lungo la schiena del ragazzo, colpito da una forza invisibile.

Non sembrava essere l’unico ad essersi accorto del comportamento insolito dell’uomo, anzi, vide presto il padre imitarlo.

La folla ammutolì, abbassando lo sguardo. Kurapika osservò tutti gli adulti presenti in quella stanza e li vide con un’espressione truce stampata sul volto. Qualcosa stava per accadere: qualcosa di brutto. Malvagio. Qualcosa che tutti sembravano temere.

Nel momento in cui il nonno si alzò in piedi, la madre di Kurapika richiamò a sé figli, nipoti e ragazzi che si trovavano lì.

«Ascoltatemi con attenzione: andate a nascondervi immediatamente.» li avvertì. La voce era calma, ma tradiva un tono di terrore. Gli occhi azzurrissimi erano come vuoti. «Qualunque cosa succeda, qualunque suono sentiate, non uscite dal nascondiglio. Soprattutto tu, Kazuhiko, obbedisci.» si rivolse al figlio maggiore con severità, impartendogli un ordine ben preciso, che non ammetteva repliche o discussioni di alcun genere.

I bambini più piccoli, i due cuginetti di Kurapika, corsero subito nella sala da pranzo, accanto alla sala delle cerimonie, nascondendosi nelle ante dei mobili che contenevano le stoviglie, rovesciando i piatti pregiati in ceramica per terra.

Kazuhiko, invece, prese per mano il fratellino e Karin, scappando lungo il corridoio, verso la camera dei suoi genitori, correndo a perdifiato.

«Kazuhiko, che succede?» gridò Karin, con le lacrime agli occhi, afferrando la propria katana nel momento esatto in cui passarono davanti al portaombrelli.

«Non lo so, ma non avete visto l’orrore negli occhi della mamma? Sicuramente qualcosa di pericoloso.» rispose Kazuhiko, facendosi pensieroso ed entrando nella stanza. In quell’istante sentirono un forte rumore di vetri rotti: qualcuno doveva aver sfondato le finestre. Karin emise un urlo spaventato e si nascose nell’armadio.

«Zitta, Karin!» la sgridò Kurapika, schiacciandosi contro il muro. Vide una mano candida lanciare fuori dall’armadio il kimono: evidentemente Karin doveva essersi spogliata degli scomodi vestiti.

Un forte boato di urla risvegliò i sensi dei tre ragazzi, mentre dalla finestra coperta dalle tende filtrava una sinistra luce rossa e il crepitio del fuoco raggiungeva le loro orecchie.

«Dobbiamo fare qualcosa!» esclamò d’un tratto Kazuhiko prendendo la katana di Karin, caduta in terra, e muovendosi verso la porta. Fu trattenuto per la manica dal fratello.

«No, fermo! La mamma ha detto che non dobbiamo muoverci dal nascondiglio!» sussurrò Kurapika, cercando di fermare quella pazzia con tutto il senno che aveva.

«Ma non capisci? È solo una questione di tempo prima che ci trovino!» rispose il giovane, alzando di un’ottava il tono della voce. Gli occhi, prima celesti, lampeggiavano di scarlatto.

«No, se non ci facciamo sentire!» lo rimbeccò il fratello, anch’egli sull’orlo di perdere la ragione dalla paura e dalla rabbia.

L’urlo di una donna li destò. Quella voce era così orrendamente familiare.

«Mamma! Mamma!» urlò Kazuhiko, liberandosi dalla morsa del fratellino e correndo verso la porta, spalancandola senza pensare alle conseguenze. Brandiva la katana.

«Fermo, nii-san!»

Quando la porta si aprì si trovarono davanti una figura di un uomo con una lunga katana. Rimasero tutti e tre pietrificati dall’orrore, incapaci di muoversi anche a causa di una stretta invisibile che li bloccava. Cominciarono a vedere tutto rosso.

«Bingo.» grugnì l’uomo e, con un movimento fluido dell’arma, trapassò il corpo di Kazuhiko da parte a parte. Questo schizzò sangue contro il muro e ne aggiunse al viso del mostro, già sudicio di macchie purpuree.

Il corpo di Kazuhiko crollò a terra, con il colore scarlatto impresso negli occhi vuoti e spalancati dalla paura.

«Accidenti, voi siete molto più deboli. Combattere contro quell’adulto di prima è stato certamente più dura.» rise il mostro, con scherno, deridendoli senza troppi complimenti.

Karin lanciò un urlo disperato, aggrappandosi al braccio del cugino e cominciando a piangere. Le lacrime che le rigavano il volto riflettevano il rosso dei suoi occhi.

Kurapika rimase fermo immobile, guardava il corpo inerme di Kazuhiko senza realmente vederlo, incapace di dire o fare qualsiasi cosa. La malvagia risata del nemico lo svegliò dal dolore forte che gli aveva preso il cuore ed i polmoni, impedendogli di respirare.

Il suo corpo stava reclamando la salvezza con tutto se stesso, ordinando alle gambe di muoversi in direzione della finestra; ma la mente lo bloccava, additandolo come un codardo che non ha il coraggio di vendicare il fratello.

Karin strepitò, vedendo l’uomo avvicinarsi, e tutto successe in un secondo: Kurapika prese in braccio la cugina ed insieme saltarono fuori dalla finestra, rompendo i vetri.

Il ragazzo percepì i frammenti conficcarsi nella pelle, stracciargli l’abito elegante e macchiarlo di sangue. La ragazza svenne a causa dell’impatto.

Cominciò a correre verso la foresta che si trovava dietro il villaggio. Sentì uno sparo alla sua sinistra ed ovunque vide le fiamme lambire, bruciando le case, le staccionate, la terra che lui stesso stava calpestando.

Una volta rintanato in una radura, posò il corpo di Karin a terra e rimase seduto contro un tronco ad aspettare che si svegliasse. Da lontano poteva udire le grida della sua gente, le esplosioni. L’odore del sangue si stava propagando anche nel bosco. Kurapika si sentì morire.

Udì un forte rumore di passi che si avvicinavano e, con le forze che gli rimanevano, salì sull’albero, chiudendosi nelle proprie ginocchia e sperando che non lo trovassero. Non voleva sapere che fine avrebbe fatto se l’avessero trovato; non voleva sapere che fine avevano fatto i suoi genitori – cominciò a piangere – non voleva sapere se il nonno era riuscito a cavarsela proprio il giorno del suo compleanno. Voleva soltanto che quegli uomini se ne andassero.

Si zittì quando il suo stomaco si rivoltò: Karin era rimasta ai piedi dell’albero. Con l’intenzione di tornare a prenderla, scese di un ramo, ma ormai era troppo tardi. Due uomini l’avevano raggiunta: uno era alto e anonimo; l’altro era il tipo con la katana. Quello anonimo stava illuminando il corpo della ragazza con una luce flebile, probabilmente un cellulare, mentre il compagno la toccava con la katana come se fosse una carcassa di un qualche animale morto da tempo.

«Che ne facciamo, Shal? È inutilizzabile.» udì distintamente il ragazzo sull’albero.

«Controllale gli occhi.» rispose il compagno del tizio con la katana; questi s’inginocchiò davanti a Karin e le aprì gli occhi. Il bagliore delle pupille scarlatte era sparito.

«Niente.» esclamò.

«Peccato.» aggiunse l’uomo con il cellulare, schioccando le dita. «Gli occhi delle donne sono più pregiati perché sono di una sfumatura più intensa. Oh, bè… penso che possiamo porre fine alle sue sofferenze, Nobu.»

Kurapika vide il tipo con la katana annuire, e in pochi secondi affondò l’arma nel costato di Karin, che emise l’ultimo, flebile sussurro di vita, per poi spirare. I due uomini se ne andarono.

Quando Kurapika fu certo che fossero abbastanza lontani, scese dall’albero. Si avvicinò alla cugina e la guardò intensamente, come se pensasse di poterla risorgere. Distolse lo sguardo e vomitò.

Si accasciò tra le radici di un albero, stringendo la mano di Karin, e chiuse gli occhi. Si addormentò, cullato dal crepitio del fuoco, e sognò di essere davanti al caminetto della sua casa, accanto al nonno che elogiava le sue tecniche con le spade gemelle.

Karin, di fianco a lui, sorrideva, tenendogli amorevolmente la mano.

Non seppe per quanto tempo era rimasto addormentato abbracciato alla cugina, ma fu presto svegliato da alcuni raggi solari che filtravano dalle fronde degli alberi.

Spalancò gli occhi e vide rosso. Si sentiva profondamente debole, ma allo stesso tempo carico di energie: voleva distruggere, uccidere, vendicare.

Le immagini della notte precedente – ma era passato davvero un solo giorno? – gli balenarono in mente. Com’era riuscito a mantenere gli occhi scarlatti per così tanto tempo? Possibile che la rabbia che aveva in corpo fosse esplosa in tal modo?

Percepì il suo cuore stretto in una morsa. Era la morsa più soffocante che avesse mai provato. Si alzò dal giaciglio di radici sul quale si era addormentato e guardò il corpo, il cadavere, di Karin. La sua cuginetta preferita era pallidissima. Aveva un occhio spalancato e una mosca, posatasi sopra il bulbo oculare, stava perlustrando il territorio, forse alla ricerca di qualcosa da mangiare.

Il ragazzo si accorse che di fronte a quella visione non poteva che rimanere impassibile. Non riusciva a reagire.

Nel momento in cui distolse lo sguardo da Karin, gli occhi tornarono del loro colore originale.

Tutto il mondo gli crollò addosso.

Era come se la stretta che lo opprimeva gli avesse perforato il cuore. Tornò a guardare la macabra scena e il dolore si sollevò, come per magia. Ma i suoi occhi si tinsero nuovamente di scarlatto.

Subito capì: l’ira gli permetteva di dimenticare le sofferenze; l’ira fermava le lacrime che volevano uscire a tutti i costi; l’ira lo stava divorando tanto da renderlo privo di qualsiasi sensazione se non odio.

Si sentiva in egual misura confortato e distrutto.

Chiuse gli occhi e camminò alla cieca nel bosco, inciampando, cadendo, ferendosi. Non voleva più vedere nulla. Sarebbe stato un Edipo solitario.

Quando comprese di essere giunto al limitare della foresta aprì gli occhi. Così com’era venuto, il rosso scarlatto scomparve.

In quell’istante, scoppiò a piangere: del villaggio dei Kuruta non era rimasto più nulla. Travi bruciacchiate saltavano fuori dal terreno deserto come erbaccia in un prato, mentre l’odore acre di fumo s’insinuò prepotentemente nelle sue narici. Una leggera nebbiolina aleggiava sulla landa, quasi ad evidenziare che il luogo era maledetto.

Kurapika si strinse nelle spalle e crollò in ginocchio. Baciò la terra sulla quale era nato e rimase qualche secondo a singhiozzare per i suoi defunti compagni, che ora giacevano sottoterra o erano stati trafugati.

Quando si rialzò da terra, il sole stava già sparendo dietro le montagne. Si asciugò gli occhi, rossi di pianto, salvo mettersi subito all’erta: aveva udito un rumore.

Si nascose dietro un albero e attese.

Giunsero in quel deserto un uomo e una donna di mezz’età che Kurapika non aveva mai visto. La donna si portò una mano alla bocca e si piegò in due, piangendo; l’uomo le batté una mano sulla spalla, solidale.

Il ragazzo si avvicinò di più alla coppia, per ascoltare i loro discorsi, facendo molta attenzione a non mostrarsi.

«È stato il Genei Ryodan.» stava dicendo l’uomo alla donna. «Ne sono sicuro.»

La donna seguitava a gemere. «S-sono sempre stati c-così g-gentili con n-noi…» riusciva a dire tra un singhiozzo e l’altro.

«E lo sarebbero stati anche questa volta, te l’assicuro.»

Kurapika li riconobbe: erano due viandanti che la sua famiglia aveva ospitato più volte. Dichiaravano di essere Blacklist Hunter e di essere a caccia di un certo Ragno per ricevere in cambio la taglia di miliardi di Jeni.

Hunter. Suo padre gli aveva più volte spiegato di che cosa si trattasse. Gli Hunter erano cercatori. Ciò che ricercavano erano beni, tesori, malviventi ancora in libertà… ma anche razze d’animali non ancora scoperte o persino nuovi sapori per pietanze prelibate.

Il pensiero di suo padre lo colpì come una spada affilata.

Kurapika si voltò e corse via, per non essere scoperto. Tornò alla radura nella quale aveva lasciato Karin e, a mani nude, scavò una fossa per sotterrarne il corpo.

Ogni unghia che si rompeva, ogni goccia di sangue che sgorgava dai graffi e i tagli, andava a depositarsi sul terriccio umido e sporco: era il suo tributo ai morti.

Quando la buca ebbe raggiunto la grandezza che desiderava, Kurapika tornò dalla cugina, le chiuse gli occhi evitando di sporcarla e la prese in braccio. Nel momento in cui vide l’espressione rilassata che aveva, nuove lacrime presero a scorrergli lungo le gote.

Vide, scintillante di un rosso vivo come il tramonto, due orecchini pendere dalle orecchie di Karin. Depose la cugina nella fossa e, prima di interrarla, strappò da un lobo dell’orecchio il gioiello. Rimase a contemplarlo per qualche secondo: era un diamante di una purezza sbalorditiva.

Si perforò con forza il lobo dell’orecchio sinistro, in modo da poter indossare l’orecchino. Gemette dal dolore, mentre ritraeva le mani sporche di sangue e terra.

Terminato il lavoro, cominciò a camminare dalla parte opposta della landa deserta che era ora il suo villaggio.

Sarebbe diventato un Hunter. Avrebbe catturato il Genei Ryodan. Li avrebbe uccisi, torturati, e si sarebbe vendicato.

Alla sera, quando la foresta si era fatta fredda e umida e gli insetti non gli davano pace, si inginocchiò e pregò.

Ripensare ai suoi cari provocò in lui una tale fitta che gli occhi si tinsero di scarlatto per l’ennesima volta. Era così, dunque: quando provava rabbia e dolore, l’ira lo corrodeva dentro, mutando ogni cosa in sangue. Non sarebbe mai successo: non sarebbe mai stato divorato dall’ira.

E mentre pregava, solo e sconsolato, fu certo di essere accerchiato dai suoi familiari che si univano alle sue preghiere.

E tutto tornò rosso.

 

 

 

 

 

 

Dedicata a Federica, che mi ha fatto tornare la voglia di scrivere.

 

 

A/N

A volte ritornano… XD devo essere impazzita se torno a navigare a vele spiegate sul fandom di HxH con una fic del genere! Ce l’avevo in cantiere, ma non ho mai avuto la voglia di continuarla…

Che dire, bentornata a me! XD

 

Uh, ci tengo a precisare che tutta la famiglia di Kurapika, da Karin a Kazuhiko, è puramente di mia invenzione, perciò ogni personaggio appartiene a me. Kurapika appartiene a Yoshihiro Togashi, purtroppo. XD

 

Il titolo è chiaramente riferito al personaggio di Edipo, protagonista della tragedia sofoclea Edipo Re. Edipo, avendo visto troppe cose nel suo mondo, decide di accecarsi. Parallelamente, Kurapika vaga al buio nella foresta, poiché solo la cecità è in grado di alleviare il suo dolore.

 

Ja ne,

Akami/AtegeV

   
 
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