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Autore: topolinodelburro    13/01/2010    3 recensioni
Dapprima fui scocciata, poi furiosa. E con più rabbia avevo in corpo, con più ostinazione quella bambolina mi seguiva ovunque io andassi, pretendendo di fare tutto quello che io facessi, di mangiare tutto quello ch'io mangiassi, di parlare in modo “sgarbato e irriconoscente” come lei riteneva io parlassi. E più la bile mi saliva lungo la gola più il suo zucchero mi nauseava in modo stomachevole.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shoujo-ai, Yuri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Houdan mi sembrò fin dal principio, una ragazza da proteggere. Con tanta cura,ed in modo costante, portandole rispetto e gratitudine per ciò che riusciva a donare in cambio. Non sono convinta di sapere in modo esauriente com'è nato, l'interesse che nutro nei suoi confronti.
Le ragazze col mio carattere non andavano d'accordo con le tipette come il mio zucchero, solitamente. Tutt'ora utilizzo su di lei dei nomignoli che reputo piuttosto dispregiativi, ma i cui significati a lei sembrano sfuggire.
Se la memoria non m'inganna, ricordo una bambina piccola e paffutella sedere sul prato della scuola elementare attorniata dal suo stuolo di amichette e damigelle di compagnia, come si chiamavano orgogliosamente tra loro. Giocavano a bere il tè e insegnavano la lezione appena appresa dalla maestra ai loro orsetti e coniglietti di peluche.
Io ero troppo impegnata a fare a botte insieme ai maschi per prestare loro qualche attenzione. Cercavo sempre di non pensare a quel piccolo e fiorito mondo di bambine che era così lontano e diverso dal mio. Le evitavo; delle volte mi capitava di tirare loro i capelli per scherzo, insieme agli altri bambini, ma vedendo quelle faccine sconvolte mi dileguavo quasi subito.
Ho sempre pensato provassero pietà per il mio comportamento non da signorina, e temevo quegli sguardi scioccati come dei giudizi pesanti nei miei confronti.
Ma durante l'infanzia, certe tendenze non contavano. A nessuno interessava più di tanto ch'io giocassi con i maschi.
I miei problemi crebbero progressivamente, insieme a quelle che vengono chiamate volgarmente tette. Fu un trauma nel mio caso, scoprire quante differenze c'erano tra me ed i miei compagni di gioco e d'azzuffate. Fu ancora più terribile scoprire di essere molto più simile a zucchero di quanto mai avessi immaginato, sebbene solo dal punto di vista fisico.
Ero come quelle bambine. Mi balenò in mente l'idea che forse avrei dovuto anch'io comportarmi alla loro maniera, data la nostra uguale natura. Ignorai questo consiglio della mia coscienza e seguii il mio istinto, continuando a rotolarmi nel fango e a picchiarmi con gli altri ragazzi, ignorando o non capendo davvero quando loro allungassero troppo le mani.
Ma la parte peggiore, mi venne a far visita con le mestruazioni. Persi tutto, le mie convinzioni, le mie speranze ed i miei amici. Per scelta mia, mi rifiutai categoricamente di passarci il tempo assieme. Mi sentivo diversa.
Ed ero diversa, da tutti e due. Sia dai maschi che dalle femmine. Non avevo più nulla in comune con entrambi. Ed ecco, come mi ritrovai sola.
Fu con stupore che qualcuno, un giorno, sbucò nella mia solitudine e si fece spazio tra le fessure del mio caratteraccio ruvido e insipido. Era zucchero, che mi si avvicinò come una malattia, e come se lo fosse davvero, io feci di tutto per evitarla.
-Senti, non so che vuoi, ma vedi di fare aria, mi stai sulle palle-
-Secondo te la gente vuole sempre qualcosa? Non posso stare qui? Mica c'è il tuo nome sopra- la guardai male, nel modo peggiore che potei e lasciai cadere la borsa dei miei libri sulla panchina in legno fuori da scuola, sedendomici sulla spalliera. Lei attese un mio segnale, ma quando non ne vide si accomodò elegantemente, accavallando le gambe e lisciando le pieghe della sua gonna. Sporse il busto in avanti e scosse la testa facendo fluttuare la sua chioma bionda. Rimase così, tesa ed in attesa di chissà che cosa, incrociando le mani al di sopra delle ginocchia e fissandomi di tanto in tanto. Poi aprì la bocca.
-Sto aspettando il mio ragazzo, si chiama Kinmedaru- tubò. Abbassò gli occhi posandoli sulle sue mani curate e rigirando un anellino mi chiese ancora -Tu ce l'hai il ragazzo?-
Nemmeno la guardai. Per me era solo stupida. Stupida e priva di qualsiasi valore. Non diede peso al fatto che non le avessi risposto, fece finta di nulla, dissimulando il dispiacere per non essere stata calcolata.
Attese in silenzio per il resto del tempo, mentre io giocattolavo con il mio mp3 aspettando di veder sbucare la Porche di mio fratello da dietro il vialetto. La sbirciai di tanto in tanto. Era graziosa, nel complesso. Si era lasciata alle spalle l'aspetto paffuto dell'infanzia, sebbene conservasse quella morbidezza delle ragazze non proprio scheletriche e ossute che di tondo non hanno nemmeno il sedere, come nel mio caso.
Eppure, vedendola, per la sua piccola statura, la si sarebbe detta una bambolina, e tutto in lei, era costruito secondo uno schema logico e studiato con cura; dalle piccole mani, alla pelle del viso ricoperta sapientemente di terra, fino al vestiario, elegante ma non propriamente moderno, fatto di svolazzanti gonne e alti tacchi per dissimulare l'altezza minuta.
Modellata, pensai, ecco cos'era. Pensata, elaborata, frutto di un lungo studio di estetica. Appariva irreale, quasi falsa per come si mostrava. Non seguiva alcuna moda, se non quella che lei stessa aveva elaborato.
Decisi che l'avrei evitata, se possibile.
Quando arrivò il suo ragazzo mi fece un cenno col capo, avvicinandosi.
-Toh, chi non crepa si rivede- sfoggiò un sorriso enorme, lasciando poi un bacio sulla guancia di Houdan.
-A quanto pare...- mormorai, cercando di localizzare gli occhi il più lontano possibile da loro due. Mi stupiva il come, una ragazza tipo Houdan avesse attirato l'attenzione di uno come Kinmedaru, dal carattere terra-terra e la testa immersa nella sua marea di amici. Era simpatico, ma reputava inutili le idee da mondo dei sogni e i pensieri surreali, di cui, ci avrei messo le mani sul fuoco, Houdan viveva.
Conoscevo Kinmedaru, e molto bene. Era tosto, uno giusto infondo. Era uno di quegli amici maschi con cui mi picchiavo ancora alle scuole medie, uno degli ultimi a cui avevo detto “mi sono rotta di giocare con voi, ci vediamo”. Ricordo che faticai a separarmi da lui e da quel suo altro amico con cui stavamo sempre insieme. Tora, si chiamava così.
-Vi conoscete?- domandò ad Houdan, mentre questa si alzava e si lisciava per l'ennesima volta la lunga gonna.
Rispondemmo in contemporanea, ma in modo completamente contrastante. Kinmedaru sbatté gli occhi sorpreso per poi addolcirsi in un sorriso.
-Ti ha puntato Minto, io cambierei paese nei tuoi panni, non si gioca mai con Houdan- le accarezzò la testa, e la portò via accompagnato dalle sue proteste.
Quella frase mi vorticò in testa fino all'arrivo di mio fratello, quindi raccattai la mia roba e montai in macchina.
Scoprii a mie spese, e nei giorni seguenti, quanto quella minaccia si fosse rivelata vera.
Mi si parò davanti, un giorno a pranzo, e si presentò come se mai ci fossimo viste o conosciute in vita nostra.
-Io sono Houdan, piacere, quel posto è libero?- mi chiese, indicando la sedia accanto alla mia, e mentre ancora io cercavo di dare una spiegazione razionale ai suoi gesti, quella si sedette tranquillamente, iniziando a borbottare su quanto il tempo umido le rendesse i capelli stopposi e intrattabili. Da allora non riuscii più a muovere un passo senza quello zucchero intorno.
Fece tutto per conto suo, e tutto seguendo dei progetti a me ignoti e di cui temevo sapere il fine.
Dapprima fui scocciata, poi furiosa. E con più rabbia avevo in corpo, con più ostinazione quella bambolina mi seguiva ovunque io andassi, pretendendo di fare tutto quello che io facessi, di mangiare tutto quello ch'io mangiassi, di parlare in modo “sgarbato e irriconoscente” come lei riteneva io parlassi. E più la bile mi saliva lungo la gola più il suo zucchero mi nauseava in modo stomachevole. Credetti di non resistere a tutto questo, lo ritenni troppo, per i miei limiti. Mi coinvolgeva in tutte le sue attività quotidiane, con o senza la mia approvazione, mi requisiva da casa per interi pomeriggi o si auto invitava a cena in complicità con mio fratello che la riteneva una ragazzina adorabile.
Imparai ad imparare, contro il mio volere, come lei si alzava la mattina, come nutriva il gatto di casa, come sedeva composta sulla sedia dura del banco, come si rivolgeva ingenua alle persone, come trattava, come rideva.
E mentre scoprivo, questo strano meccanismo che metteva in moto tutta zucchero, mi crebbe una necessità impellente dal di dentro di me stessa di vegliare, su ciò che faceva, di osservare e carpire quello che diceva, di camminare sui suoi passi e prendermi cura di quello che dimostrava d'essere. Fu l'averla sempre intorno, forse, e il vederla fare le medesime cose senza render conto a nessuno o senza dar fastidio a nessuno, come un topolino sgusciante nel sottocoperta di un transatlantico, che mi colpì forte di lei.
Era una che non passava inosservata, notai, ma non dava peso, al fatto d'essere al centro dell'attenzione di qualcuno.
Se potessi, la paragonerei ad una bambina, istintiva e gioviale, che cerca quel piacere momentaneo e sfuggente che cercano i bambini, pretendendo le cose tutte subito e tutte colorate, affezionandosi in un batter baleno a chiunque ma a nessuno in particolare. Zucchero, come mi sembrava davvero bambina, con la sua ostinazione per le trecce e quei peluche pieni di pelo di cui sono allergica.
Non ho mai fatto molte amicizie per via della mia scontrosità, ma con Houdan è stato completamente diverso.
Mi ci affezionai, all'inizio di quel tipo di affetto che si riserva ai cani in rispetto alla loro servizievole remissività ed obbedienza. Ne ero convinta.
Houdan mi ascoltava. E mi capiva, come un cagnolino.
Era tutto sprint, mentre mi trascinava da un posto all'altro senza dar peso alla mia aria annoiata, eppure, appena emettevo un suono si zittiva. Ed ascoltava. E mi guardava con degli occhi grandi e azzurri che acchiappavano ogni mia parola. Poi sorrideva, e accontentava ogni mia proposta richiesta a parole. Sembrava assetata della mia voce, e quando la sentiva il tempo le si fermava affianco in attesa ch'io chiudessi la bocca per ricominciare a vorticarle attorno.
Sentivo d'istinto il bisogno di proteggerla, non so per quale motivo, forse per mantenere intatta quell'attenzione nei miei confronti che ricevevo solo da lei.
Ma non sapevo come comportarmi, dove guardare, e come rispondere ai suoi tentativi di smuovermi. In realtà, non ho mai capito il perché del suo atteggiamento verso di me e nemmeno ho molta fretta di scoprirlo, troppo impegnata come sono a viverlo.
Fatto sta che ero diversa. Troppo forte caratterialmente, troppo dura e orgogliosa, per lasciarmi andare o mostrarle gratitudine.
Nascosi le mie incertezze con l'unico modo che conoscevo per mantenere il mio autocontrollo sui sentimenti: ignorarli e calpestarli, convincendomi che zucchero infondo non fosse niente di speciale.
Mi spaventava, l'importanza che Houdan si stava prendendo da quello che doveva essere il mio cuore, sempre che la sua esistenza etica fosse reale. Era tutto quel suo essere smielata e sensibile che mi sgomentava e disorientava, era talmente irreale che delle volte ridevo, vedendola alle prese con la vita vera. Nessuno era così. Nessuno era come Houdan.
La lucina della ragione mi si accese tardi nel cervello, per capirlo. Anche Houdan era sola, nel suo modo d'essere. Nessuno la capiva, nemmeno io.
Da egoista cercai di fingere che la cosa non mi turbasse, finsi indifferenza e la trattai male, per cercare di liberarmi di lei il prima possibile, prima che arrivasse il momento in cui separarsene sarebbe diventato impossibile.
Iniziavo a vedere nel rapporto che stavo creando con lei delle difficoltà che non volevo affrontare. Non la consideravo come un'amica, e questa era la cosa che più mi tormentava. Cos'era tutto quel bisogno di cura che provavo nei suoi confronti se non amicizia?
Prima che riuscissi a separarmi da lei, quello che consideravo un sentimento di protezione crebbe in maniera quasi morbosa e mi spinse fino ai limiti dell'accettabile, fin quasi superare la decenza. -Dove vai?- le domandai, ad esempio, una volta che non fece la strada di casa insieme a me.
-Devo passare per il centro, ci rivediamo domani, Minto- la vidi avviarsi nella strada opposta alla mia, e qualcosa spinse le mie gambe a flettersi per incominciare a seguirla. Quando la raggiunsi, mi scoccò un'occhiata che non seppi decifrare e mi prese una mano.
Sgranai gli occhi, e avvampai, e mi sentii tutta fremere ed in sospeso, mentre il rumore del battito cardiaco mi rimbombava nel cervello. Voltai il viso cercando di far finta di nulla, ma ero tremendamente a disagio.
Non era la prima volta che la vedevo prendere per mano qualcuno. C'era Kinmedaru certo, ma anche il gruppo di ragazze con cui si vedeva di solito oltre me, come Aoi o Umi o ancora Kariya e Dei. Erano normali, per loro ragazze, certe dimostrazioni di affetto.
Contatti corporali che non avevo mai ricevuto prima da nessuno, se non dai miei genitori. Tra ragazzi di sesso maschile è normale toccarsi di continuo, mentre si gioca, ci si spinge, ci si azzuffa, quand'ero bambina non davo peso a quei tocchi.
Potevo immaginare che anche tra bambine le dimostrazioni d'affetto fossero molto frequenti, soprattutto data la natura dei giochi che vedevano protagoniste le femmine, come “mamma casetta” o “la bella veterinaria” e roba così.
Ma io non avevo mai giocato alla “bella veterinaria” e non avevo mai fatto parte di una famiglia di “mamma casetta” e non avevo mai ricevuto carezze dalle altre bambine.
Quando Houdan mi prese per mano, fu la prima volta che entrai in contatto fisico non casuale e momentaneo con una ragazza.
Non avevo ricevuto nulla di simile nemmeno dai maschi.
In poche parole, Houdan fu il primo essere vivente, a parte mia madre, che mi prese per mano e mi fece sentire la sensazione di calore che si prova, quando le mani si toccano e si stringono, e strofinando lentamente la pelle cercano di incastrarsi tra loro.
Cielo infinito, una delle sensazioni più erotiche ch'io abbia mai sentito in vita mia.
Quel pomeriggio, man mano che passava il tempo e il mio cuore si stabilizzava, crebbe in me un senso di sospettosa diffidenza verso qualunque o qualsiasi cosa si avvicinasse a zucchero.
Guardinga, lanciavo occhiate alla strada ed osservavo il terreno dove lei camminava. Ispezionavo con cura vigile tutte le persone che incrociavano la nostra via, assicurandomi del fatto che fossero tutti sconosciuti. Ogni volta che Houdan dava qualche cenno di conoscere una persona, e ne salutava la figura con slancio, era per il mio incipit di protezione una grossa sconfitta, e il riscatto per la mia disattenzione, mi si parava di fronte talmente salato, da costringermi, verso le 15.13 a convincerla a cambiare strada per evitare di inceppare in Kinmedaru, che vedevo da lontano.
Cercavo di manipolare il suo viaggio sconosciuto a mio piacimento, scegliendo spigolosamente le vie meno frequentate, ricevendo piccoli rimproveri quando la strada da me scelta la allontanava troppo dal suo obbiettivo.
Arrivammo con non poca fatica a destinazione, e fu con irritazione che mi lasciai guidare attraverso l'affollato centro storico in una piccola gioielleria all'angolo della piazza cittadina.
Sentii i miei sforzi frantumarsi e avvertii Houdan vicino a me farsi terribilmente calda e lasciva. Ebbi l'assoluta certezza che chiunque in quel luogo, avrebbe potuto sentirla e guardarla ed osservarla come io stessa stavo facendo, e sentire quel calore che partiva dalla sua mano bollente e bagnata che palpitava nella mia. Vidi centinaia di occhi ed espressioni convergere nel punto in cui le nostre mani si univano e si cercavano, stringendosi maggiormente nel tentativo di superare la folla. Rimbombò tra le pareti di marmo degli edifici circostanti il battito del mio cuore e gli ansiti di Houdan si fecero profondi e vibranti. Ebbi la certezza che chiunque potessi udirli, e respirare con essi la sua aria, annusando il suo profumo speziato alla lavanda. Impazzivo e non capivo, sentivo, vedevo, intuivo in un connubio di sensazioni e timori tutta quella gente e tutti quegli occhi e tutto sulla mia zucchero, sulle nostre mani unite; mi vorticavano immagini strane, incomprensibili, sibili di sussurri e parole accennate e ogni cosa si incentrava in lei ed arrivava a lei; il paesaggio diventava grigio e per quanto io cercassi di abbassare gli occhi al terreno, nel nero delle mie palpebre chiuse lampeggiava l'immagine intermittente dei suoi capelli gialli e di quei suoi occhi così celesti. Alzando piano le ciglia, mi inondò un senso di nausea nel constatare che i suoi capelli erano troppo biondi e i suoi occhi troppo azzurri e provocanti e lei era... Kami.
Troppo calda.
Mi risvegliai gelata, come se un cumulo di neve mi fosse piombato addosso, grazie all'improvviso sbalzo di temperatura che ebbi nella piccola gioielleria, a causa dell'aria condizionata.
Ma furono pochi attimi dopo, che il calore iniziò nuovamente a salirmi sulle gote, quando la vidi discutere sull'acquisto di un raffinato anellino in argento.
Valeva molto, e Houdan sorrideva vivacemente mentre lo soppesava nelle sue piccole mani, ed apriva la borsetta a fiori per estrarne il contante.
Immaginai, fosse destinato a Kinmedaru, e mentre un insetto rabbioso mi saliva livido lungo la gola, odiai il mio migliore amico d'infanzia.
Ed odiai Houdan, perchè lei era mia, e Kami, non credetti allora, d'averlo pensato davvero.
Volevo baciarla, e farle male, e riempirla di schiaffi e creare tanta di quella violenza nella sua vita che non mi avrebbe dimenticato mai. Ebbi l'impulso di volere che il mio ricordo la terrorizzasse per sempre.
Furono pochi attimi di odio profondo, intensamente vero, derivanti dalla certezza di non averla mia, che svanirono non appena, dopo aver fatto un cenno al negoziante, si diresse baldanzosa verso di me, con uno dei suoi sorrisi sul viso e pronunciò le parole...
-Credi che a mia mamma piacerà il suo regalo di compleanno?- scuoteva piano il pacchetto al cui interno io sapevo trovarsi quell'anello che avevo creduto destinato a Kinmedaru.
Oh, Houdan.
Aveva la pelle così bianca, e sembrava così morbida.
Volevo toccare quelle guance soffici inarcate in un sorriso, e passare le dita tra le sue fossette ed inarcare quel suo bel mento perfetto per scoprire il collo candido e sensuale.
Dovevo allontanarmi da lei, prima che... prima di... non lo sapevo nemmeno. Non lo sapevo. Non sapevo e non capivo cosa mi spingeva verso di lei. Improvvisamente, il corpo femminile iniziò a provocare in me un certo interesse, come se Houdan mi avesse svegliato con i suoi modi e i suoi vaneggiamenti. Notavo perfezione ed armonia tra quella carne, e poi percepivo l'esistenza di segreti scabrosi e voluttuosi tra le piaghe di quelle sinuose e lunghe gambe, comuni a tutte le donne, anche a me. Mi afferrò una paura inimmaginabile.
La stessa paura che mi era presa quando scoprii di non essere come nessuno, di essere diversa.
E lo ero di nuovo.
Ma non stavolta, questa volta, avrei reagito, ero una donna e mi sarei comportata da donna.
E feci quello che tutte le donne nelle battaglie d'amore non fanno mai, ovvero fuggire.
In ogni modo possibile, mi nascosi a qualsiasi cosa ritenessi sbagliata, immorale, incoerente, inutile o inumana.
Ma fu breve, veramente breve, quel lasso di tempo che trascorse prima che Houdan mi riacciuffasse come un pesciolino rosso nella boccia di vetro. Ripensandoci tuttora, i miei tentativi di disintossicazione da zucchero dovevano sembrare patetici. Doveva essere chiaro non solo a me che ormai lei mi era entrata in circolo.
Io me ne accorsi quando stetti per perderla.
Houdan chiamò il giorno prima.
-Minto, i miei non ci sono, perciò prepara il letto che domani dormo da te, così potremmo stare sveglie tutta notte! Sarà fantastico, finalmente ti stirerò i capelli e poi c'è quel vestito che devi assolutamente...-
Erano alcuni giorni che non la vedevo, né la sentivo parlare, quindi mi intossicò quella chiamata, e completamente avvolta dalle nubi della nebbia non seppi dirle di no. Anzi, a dire il vero nemmeno risposi, mi limitai a dirlo a mia madre quando il telefono riprese a squillare a vuoto dall'altra parte del ricevitore.
Houdan possedeva dei capelli che adoravo, biondi e lunghi che si ostinava a non voler tagliare. Ricordo di averli accarezzati per tutta la notte.
La mattina dopo, il tempo mi salutò con dei grossi nuvoloni di pioggia molto in sintonia con il mio umore. Quando uscimmo da scuola nessuna delle due portava con sé un ombrello. Ci beccammo l'acqua, ma quella a star male fu lei.
Avevamo attraversato la città di corsa, sotto quel temporale. Tremava, quando estrassi le chiavi dal mio portafogli per entrare in casa.
Batteva i denti e si stringeva nel cappottino di feltro.
-Minto fa freddo- mi diceva e si lamentava ed io non gli davo molto peso, ritenendo le sue parole i soliti capricci di una ragazzina petulante. Ero oltremodo tremendamente risentita e corrucciata nei suoi confronti, per avermi incasinato definitivamente la vita.
Fu solo più tardi, che mi resi conto della stupidità del mio atteggiamento, quando i suoi occhi si abbassarono e mi cadde tra le braccia febbricitante ripetendo -Scusa, non volevo sporcare il pavimento- per via delle tracce di fango che avevamo lasciato sul palchè.
Il mio corpo cadde con il suo, e la mia bocca si riempì di stupore cui io non riuscii a dar voce se non boccheggiando alla ricerca di ossigeno, per mandare aria al cervello e far qualcosa, qualsiasi cosa che non fosse stare immobile con zucchero che sembrava dormire come una principessa tra le mie braccia.
Ma io non ero un principe e non sapevo che fare. L'idea di prenderla in braccio mi balenò veloce come fuggì via; sebbene mi ritenessi forte e tenace, erano qualità che appartenevano al mio animo e non alle mie apparenze.
La strinsi e la chiamai, ed iniziai a diventare pallida per la paura, troppo scioccata per alzarmi in piedi. E poi, Kami, se piansi.
A lungo ed in tanti modi differenti, che nemmeno credevo esistessero.
Non ebbi forza per coprirla, o stenderla sul divano, ma la cullai, dolcemente, nel modo che avevo imparato da lei.
Almeno finchè mio fratello non tornò a casa e ci rimise in piedi.
Houdan si sarebbe ripresa, ed io pure, anche se solo molti anni più tardi.
-Che ci fai qui, non ce l'hai una casa?- ricordo che le domandai, appena una ventina di giorni fa.
Ero in biancheria intima, e giravo per casa con una maglietta estiva di Sanne, resa inconfondibile dalle indelebili macchie di colore acrilico che decoravano il petto.
La temperatura all'interno era all'incirca di 25°, come mi piace stare, mentre di solito nevica.
Passeggiavo in giro, aspettando che Misaki tornasse a casa terminata la sua riunione infra-quadrimenstrale, quando nella toppa della porta girò una chiave ed Houdan entrò sbuffando per lo sbalzo di temperatura. Spolverò il cappottino elegante dalla neve e lo adagiò delicatamente sul bracciolo della poltrona accanto all'uscita.
Subito mi identificò dietro il bancone del mio loft a compatirmi e mangiare gelato alla vaniglia, mentre lavoravo al mio pc. Non si offese, dopo la sparata che le feci, non si offendeva mai, in verità.
E' diventata una deliziosa creatura, la piccola Houdan. Non è cresciuta molto d'altezza, ma tutt'ora cerca di enfatizzare quel suo metro e sessantacinque con degli stivali in pelle di daino che ricordano i suoi capelli. Dorati, anche se leggermente scuriti, ma sempre biondi e lunghi, agghindati in boccoli dolci e perfetti, ravvivati dal contrasto con i suoi occhi celesti e vividi.
Sulla bocca quel giorno portava una tonalità lampone che le avevo regalato a Natale, della Dior, che lei adora.
Si avvicinò a falcate guardandosi intorno e lasciandosi sfuggire dei piccoli tic non appena notava degli indumenti abbandonati sul pavimento. Poi studiò la maglietta di Sanne quasi la trovasse ripugnante.
-Non ti sei ancora liberata di quella scocciatura svedese Minto?-
-Olandese-
-Fa lo stesso- aprì il frigorifero, sapevo che cercava una carota -Ha sempre avuto un pessimo gusto per l'abbigliamento-
-Era un'artista-
-Disadattata, che faceva di nome quella modella di Osaka...-
-Rina-
-Quella sì, che ne sapeva di moda- ridacchiò, e pure io.
Dopo prese del latte, un pacco di biscotti nuovi ed una spazzola. Allora seppi che aveva bisogno d'aiuto.
Ci ritrovammo come quando adolescenti, dopo l'incidente, stavamo sul tappeto, inginocchiate a raccontarci i fatti nostri pettinandoci i capelli e bevendo latte a canna dalla bottiglia.
Passavo i capelli già setosi di Houdan mentre raccontava, e le fissavo delle treccine con dei lacci per capelli.
Aveva i soliti problemi con Shouta.
-Quindi ha chiesto alla corte l'affidamento definitivo di Ami. Kami del cielo Minto, se quel bastardo riesce a portarmela via-
-Non ci riuscirà, sarò io il tuo avvocato- sorrise leggermente mentre ancora le districavo quei lunghi fili morbidi.
-Che cosa farei, senza di te? Non farei niente e non sarei niente, tu sei...- sospirò.
-Tu sei, tutto quello di cui le mie giornate hanno bisogno, zucchero, non dire più che non sei niente, non è vero- mi ero quasi dichiarata.
Era sempre così bella Houdan, e sempre così incompresa da tutti. E sempre troppo buona e maledettamente innocente.
Pensavo a quanto il mio affetto per lei non fosse mai mutato nel tempo, sebbene i miei svariati tentativi di sostituirla con altre donne, quando sentii un mugolio provenire dalla sua bocca.
E mi fermai.
-Minto- sussurrò -Hai sempre avuto delle così belle mani- pronunciò, mentre si lasciava sfuggire un ulteriore, profondo sospiro.
Era quel tono di voce, ed il mio cuore galoppò.
Era la mia Houdan, con quel gemito e quel tono di voce, quello inesorabilmente provocante delle donne eccitate che mi fece girare la testa ed osare cose mai immaginate prima.
E fu finalmente con trepidazione che lasciai scivolare le mie mani dai suoi capelli, lungo il suo collo, fino ai suoi seni.
Fu l'inizio, e poi la ebbi, zucchero, sebbene sapessi che Misaki sarebbe tornata da un momento all'altro, che andasse all'inferno pure lei.
Io avevo zucchero, ero finalmente piena di zucchero.
   
 
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