Libri > Twilight
Ricorda la storia  |      
Autore: Dragana    17/01/2010    16 recensioni
Le donne passate nella vita di un ragazzo del Tennessee; quelle che facevano commentare ai suoi amici "Emmett, io e te non ci ruberemo mai la fidanzata".
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Emmett Cullen, Nuovo personaggio, Rosalie Hale
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

 

LE PASSANTI

 

 

“Emmett, io e te non ci ruberemo mai la fidanzata”.

Me lo sarò sentito fare almeno un centinaio di volte questo commento. E da tutti i miei amici, per giunta.

Pensare che per il resto ci piacevano le stesse cose. Eravamo ragazzi dai gusti semplici: andavamo nella bettola di Heck giù al fiume a spennarci vicendevolmente a poker, ci ubriacavamo con lo stesso schifoso whiskey di contrabbando, avevamo la stessa passione per i fucili da caccia, la stessa guerra aperta con gli orsi e la stessa insofferenza per le prediche del pastore Bredsen alla funzione della domenica; a loro è capitato anche di volere la stessa donna. Non a me, però.

Non è che la cosa mi dispiacesse, sia chiaro. Io amo le sfide, però le faccende di donne sono sempre brutte cose: rovinano le amicizie, ed a me questo non piaceva. Sta a vedere che è anche per questo che sono sempre stato amico di tutti: le mie donne non le voleva nessuno.

“Troppo strane”, dicevano i ragazzi, “La fatica supera il gusto”. Quelle che piacevano a me non sarebbero mai andate bene a mia mamma e a mia zia, venivano criticate dalle signore del Circolo Missionario e ad immaginartele sedute in veranda col cappello, il busto e il vestito della domenica ti veniva da ridere. Ma non erano neppure le prostitute del bordello, quelle sì che erano piaciute ai ragazzi, una volta si era scatenata una rissa memorabile per quella testa vuota di Dolly… no, le mie viaggiavano in mezzo, erano difficili da prendere sia da un lato che dall’altro.

Ed a me questa sfida eccitava da morire.

 

Cominciò tutto con Frances Connelly. Io avevo a stento quattordici anni; lei se n’era andata a vivere a Memphis qualche anno prima, quando ero un moccioso goffo e cicciottello, e tornò a bordo di un’automobile che guidava lei, con i capelli corti e l’abitudine di fumare sigarette in lunghi bocchini d’avorio. Pensava di dover passare quel mese a casa della madre nella noia più totale e quando trovò il piccolo McCarthy che si era notevolmente allungato ed irrobustito decise di eleggermi a suo personale passatempo. Naturalmente non trovai niente da ridire.

Certo che a ripensarci adesso ero davvero un moccioso: Frances era secca come un palo, aveva le gambe storte e la bocca un po’ troppo grande, ma quando mi guardava con quegli occhi bistrati attraverso il fumo che soffiava piano arricciando le labbra, ragazzi, io perdevo la testa. A quell’epoca neanche sapevo dove mettere le mani, però lei lo sapeva eccome, ed è da morire dal ridere rendermi conto adesso che ad eccitarla erano la mia inesperienza combinata all’irruenza di un ragazzino appena adolescente.

Quando mi disse che sarebbe tornata a Memphis le chiesi di sposarla. Da bravo, piccolo stupido ero convinto di amarla, ed ero anche cavallerescamente pronto a, si diceva, “prendermi le mie responsabilità” dal momento che “me l’ero spassata con lei”. Alla mia proposta reagì nell’unico modo sensato, scoppiando a ridermi in faccia ed intimandomi di non dire sciocchezze, non si sarebbe sposata mai e tantomeno con un ragazzino, in futuro l’avrei ringraziata e pensassi a divertirmi, come faceva lei. –Non sposarti mai, Piccolo Emmy, non ne vale davvero la pena!- mi disse con un buffetto.

Ci rimasi così male che mi presi la prima sbronza, giurai solennemente che mai più in tutta la mia vita avrei chiesto ad una donna di sposarmi e poi ho mantenuto questo proposito.

In tutta la mia vita, ho detto.

 

Da quel giorno pensai a divertirmi.

Oramai ci avevo preso gusto, capite? E così cominciai a fare il fenomeno con qualunque ragazza mi passasse davanti, solo per il gusto della conquista e sì, diciamolo, di una bella scopata. L’esperimento ebbe successo: ero bello e forte, ero simpatico e poi le donne mi piacevano davvero, e si vedeva. Riuscivo a farle sentire uniche anche se ne avevo tre, e lo so perché me l’hanno detto.

Tutte e tre.

Poi cominciai a perdere la testa davvero per qualcuna di loro, tra un flirt e l’altro. Di tutte quelle donne passate nella mia breve vita di zoticone del Tennessee alcune hanno sostato un po’ più a lungo, ed ogni tanto mi fermo a ripensare a loro, e a sperare che siano state felici.

Come Sarah. Sarah barava a poker, tanto per cominciare, bestemmiava come un turco e si sbronzava di brutto. Una volta facemmo una gara di bevute e naturalmente vinsi io, ma di poco. Alla fine ero ubriaco come un prete e innamorato come uno scemo.

Sarah era sempre seguita da una scia di sussurri e di sguardi scandalizzati, tranne quando il pastore Bredsen predicava la carità e la fratellanza, perché allora gli sguardi diventavano di compatimento; di tutto questo chiacchiericcio che la inseguiva Sarah se ne sbatteva allegramente le palle, come si espresse lei stessa un giorno che gliene parlai. La madre era morta e il padre cercava di crescerla al meglio, ma poveretto, aveva altri sei figli e meglio di così non riusciva proprio a fare; secondo il mio punto di vista aveva fatto un capolavoro, perché le donne capaci di fare le cose da uomo sono fantastiche e Sarah era una che se le si rompeva l’automobile se la riparava da sola, per dire; quando riusciva a rubarne una, ovviamente.

“Quella non è una donna, McCarthy. Sei un finocchio, McCarthy”, mi prendevano per il culo i ragazzi. Quella non era una donna, era un fenomeno: faceva battute da uomo e non si tirava indietro mai, che si trattasse di rubare auto, buttarsi dalla roccia alta nel fiume o pagare una scommessa persa. E scommettevamo pesante, io e Sarah.

Fino a che un bel giorno se ne uscì con un complicato discorso che non capii molto bene, il cui senso era più o meno che io non avevo niente che non andasse, ero perfetto, ed ero l’ultimo uomo della sua vita. Lo capii il giorno dopo il discorso, quando lei sparì e Maggy Frist anche, perché se due più due fa quattro e io non sono finocchio rimane solo un’ altra opzione possibile. Un po’ mi dispiacque. Dovetti aspettate un pezzo prima di trovare di nuovo una che ripara le automobili da sola e che mi facesse divertire così tanto.

 

Per quanto riguarda Eliza Jacobs, la bella e giovane moglie del procuratore Jacobs (e per giovane intendo dire che lui avrà avuto almeno quindici anni in più, a voler essere generosi), la questione era molto semplice. Erano i ragazzi che la facevano complicata: è sposata, suo marito è culo e camicia con lo sceriffo, tu poi ti esponi troppo, la gente parla, non ne vale la pena.

Tanto per cominciare ne valeva la pena eccome, perché Eliza era la più brava ballerina della contea, conosceva tutti i balli più moderni ed era l’unica che reggeva il mio passo per delle ore.

E poi la questione era per davvero molto semplice. Tutti sapevano che Eliza adorava ballare e che invece il procuratore non solo era un pessimo ballerino ma si annoiava a morte a vedere ballare gli altri, e non era certo colpa mia se piuttosto che venire alle feste lasciava che la moglie ci andasse da sola. Un’altra cosa che tutti sapevano è che invece io ero un ottimo ballerino e non perdevo occasione per mostrarlo a tutti: aprivo i balli con zia Stephenie e poi facevo ballare giovani e vecchie, vedove e bambine fino a che non si arrivava a balli troppo nuovi o troppo movimentati, ed allora acchiappavo Eliza Jacobs e cominciava il massimo del divertimento.

Eravamo sotto gli occhi di tutti, ed in pubblico io non mi permettevo neppure una mezza parola o un minimo gesto che potesse suggerire che, a parte ballare, tra noi potesse esserci dell’altro. È che in un paese piccolo e noioso del Tennessee le caritatevoli signore timorate di Dio non hanno altra distrazione che il pettegolezzo, di solito rivolto verso chi è ancora giovane, bella e vivace, costringendo così il procuratore Jacobs, la famiglia di Eliza, la mia, i miei amici, Eliza e me a smentire ogni chiacchiera e sostenere ciò che era palese ed evidente ad occhi non fuorviati dal maligno demonio dell’invidia (per parafrasare padre Bredsen): Eliza con me non faceva altro che ballare, e lo faceva sotto gli occhi di tutti, nella pubblica strada. I primi tre della lista sostenevano questa versione perché ne erano profondamente convinti; nel frattempo i ragazzi si prestavano in cambio di favori da parte del sottoscritto a rendere false testimonianze ogni volta che la situazione lo richiedeva, fino ad arrivare a fabbricare false prove, ed io ed Eliza… beh, eravamo molto, molto prudenti. D’altronde nessuno di noi due ci teneva a far sapere che le chiacchiere erano assolutamente vere.

Andò avanti fino a che, un giorno, io dovetti andare a Memphis con mio padre per aiutarlo in certi affari che doveva sbrigare laggiù, e ci restammo un paio di mesi. Tra parentesi rividi Francis Connelly, trovandola ancora single e in forma smagliante; sta di fatto che quando ritornai Eliza mi annunciò che non poteva più ballare per un po’ perché aspettava un bambino. A me non restò che farle le mie più sentite congratulazioni. Ah, per la cronaca, ebbe un maschietto bello e sano che nacque otto mesi esatti dopo il mio ritorno, quindi nonostante le onorevoli signore avessero mormorato, fatto i conti ed anche a me fosse sorto un ragionevole dubbio, il bimbo era un Jacobs del tutto legittimo.

Mi dispiacque tantissimo smettere di ballare con Eliza. Aveva il ritmo nei piedi, nelle anche, nel modo di fare l’amore. Ho ballato con un sacco di donne, e posso dire senza ombra di dubbio che Eliza sia stata in assoluto la seconda migliore ballerina che abbia mai avuto.

 

E come non citare Ruth Davidson, la tenace, la cocciuta, la tremenda Ruth? Era davvero un cesso a pedali, Ruth, gran naso aquilino e capelli biondicci. Però voleva fare il dottore. No, non l’infermiera, guai a nominarle le infermiere: lei voleva davvero fare il dottore. Mi divertiva talmente tanto che andavo da lei ogni volta che mi facevo male, e a forza di fasciarmi dita e disinfettarmi graffi riuscii a convincerla a, perdonate la schiettezza e la pessima battuta, giocarci con me, al dottore. E, gioca gioca, mi intrappolò. Presi ad incoraggiarla, perché aveva una cocciutaggine che spaccava le montagne. Cominciò a piacermi, non guardavo più né il suo naso né il suo seno inesistente, vedevo solo i suoi occhi fiammanti, la sua forza, la sua decisione.

Adoravo il suo modo di cercarsi ogni tipo di lavoro, anche il più faticoso, pur di guadagnare dei soldi e poter proseguire gli studi, le sue spalle dritte sotto i commenti della gente, il suo sprezzante scudo d’indifferenza quando il pastore Bredsen ammoniva nelle sue prediche ad “occupare il posto che Dio ci ha dato e non voler fare cose contrarie alla nostra natura ed alle tradizioni”. Feci presente a suo padre che se vedevo ancora un livido, uno qualunque, sulla pelle di sua figlia avrebbe dovuto vedersela con me; siccome ero grosso, serio e incazzato di lividi non ne vidi più, e vi assicuro che io Ruth la guardavo bene. Adoravo darle torto solo per vederla infiammarsi e difendere le sue posizioni con la forza di un uragano, impavida.

Su di lei i ragazzi erano spietati. “Piuttosto mi chiavo un dito in una porta” fu una delle cose più gentili che mi dissero, almeno faceva ridere; secondo loro ero pazzo, ma erano miei amici e mi appoggiavano, perché il cameratismo era più forte di tutto il resto. Però non capivano perché diavolo Ruth dovesse fare tutta questa confusione, le donne non fanno i dottori, chi l’ha mai sentita una donna dottore? Non capivo neanch’io, ma non importava. L’avrei incoraggiata anche se avesse deciso di andare sulla luna a piedi, perché preferisco chi percorre con forza una strada qualunque a chi se ne sta ferma all’incrocio aspettando che qualche uomo forte decida dove deve andare.

Una sera andò via di casa con i soldi che si era guadagnata, che erano appena sufficienti per arrivare in una grande città in cui potere studiare; non avemmo più notizie di lei, e a lungo temetti il peggio. Poi un giorno di decenni dopo, quando già io vivevo una nuova vita, la sentii nominare in casa quasi di sfuggita: “la dottoressa Ruth Davidson, uno dei migliori cardiochirurghi d’America”. Aveva un cuore forte e una volontà di ferro. Ce l’aveva fatta, lei e la sua antipatica testardaggine.

Dio, quanto amo le donne testarde. Ad una donna testarda perdonerei qualunque cosa.

 

Helen era la cuoca di zia Stephenie, aveva una miriade di trecce lunghissime ed il corpo flessuoso nero come il carbone. Quando calava il buio avvolgeva intorno alle trecce un turbante colorato, leggeva il futuro assaggiando una goccia di sangue della tua mano e non sbagliava mai una previsione. Per questo motivo andavano da lei tutti i negri e di nascosto anche molti bianchi,  nonostante gli anatemi di padre Bredsen. A me di conoscere il futuro non importava niente, non se avevo il fucile carico, il bicchiere pieno ed il gruppo dei ragazzi, ma ci andai lo stesso per conoscere lei e farmi succhiare il dito da quelle labbra meravigliose.

Helen assaggiò il mio sangue e sussultò. Poi però mi sorrise con quel suo volto antico e mi predisse molti figli, una lunga vita e l’incontro con una donna bionda che avrei sposato più volte. Io non l’ascoltavo neppure; le sciolsi il turbante, annusai le sue trecce e ribattei che preferivo le donne brune.

Adoravo il suo odore. Avrei voluto chiuderlo in una bottiglia per ubriacarmici anche quando era lontana. Era un odore che mi portava in luoghi lontanissimi, in età in cui il mondo era giovane e non ancora sbiadito; c’era qualcosa in lei e in quel suo profumo di inafferrabile, di talmente antico e misterioso da non poter essere penetrato, di così primordiale da fare paura. A volte mi sembrava di annusare l’odore di Eva, la prima donna del mondo.

Qualche tempo dopo mi disse che non ci saremmo rivisti mai più se non una sola volta, tra molti anni ed in circostanze spiacevoli, e che quindi mi avrebbe detto la verità sulla mia goccia di sangue.

-Non avrai né figli né lunga vita, Emmett McCarthy. Morirai giovane, e molto presto. La donna bionda invece la sposerai davvero.-

-Ah sì? E quando avrei il tempo di sposare la donna bionda e rivederti in circostanze spiacevoli se morirò presto?- le chiesi con la gola secca.

-La risposta a entrambe le domande è: dopo che sarai morto.-

Ribattei che non significava nulla, lei alzò le spalle e disse che questo era ciò che aveva visto ma poteva anche sbagliare, dopotutto era solo una cuoca negra.

Il giorno dopo andai a caccia e morii. Le circostanze in cui rividi Helen furono molto più che spiacevoli, ed io non ne voglio parlare.

 

E poi, ci fu la donna bionda.

Di lei non ho potuto parlare ai ragazzi, ma sono certo che mi avrebbero detto che una così è da guardare e basta, preferibilmente da lontano, che loro non se la sarebbero presa mai e poi mai.

La donna bionda certe volte è davvero insopportabile; è testarda come un mulo e le vuole sempre tutte vinte. Se si arrabbia, poi, non ne parliamo: non vuole sentire ragioni e per calmarla ci vuole l’intervento divino. Mai attaccarla a viso aperto, mai imporle un punto di vista opposto al suo: bisogna cercare di assecondarla, aggirarla, lavorare con pazienza e poi prenderla alle spalle, è un procedimento che nei casi più gravi ha richiesto mesi interi e solo un buon cacciatore può riuscirci.

È irta come un porcospino e può essere più acida di un frutto acerbo, è contorta come un labirinto e complicata come un nodo.

La donna bionda ad occhi poco attenti può apparire niente più che un’adorabile sciantosa, attenta solo al proprio aspetto e desiderosa di mettersi in mostra, ed invece se ti inoltri in quello che sembra uno specchio d’acqua poco profondo improvvisamente una corrente ti tira al largo e ti ritrovi sospeso su un abisso scuro e terribile di cui non si vede il fondo.

La donna bionda mi ama alla follia, se io fossi in pericolo darebbe la sua vita per salvarmi, eppure il suo più grande sogno non comprende necessariamente anche me.

È dura e lucente come un diamante, è intelligente, forte e passionale e guida l’automobile meglio di un uomo. Starle accanto è una sfida quotidiana, e nessuno più di me ama le sfide.

È una continua caccia in cui non si capisce mai chi è il cacciatore e chi la preda, lei è quella che mi sorprende sempre, che mi tiene all’erta, che sa eccitarmi con un solo gesto, urlo o sorriso.

La donna bionda è quella che non passerà mai. Non ci sarà nessun’altra dopo di lei. È l’ultima cosa che ho visto da vivo, sarà l’ultima cosa che vedrò da morto.

“Emmett, io e te non ci ruberemo mai la fidanzata”. No, infatti. Se qualcuno ci provasse, ci provasse davvero intendo, io lo ucciderei.

Ah, l’avevo detto? La donna bionda si chiama Rosalie, ed è bellissima.

 

 

 

 

 

 

Note: Non so se si capisce, ma mi piace pensare che Helen sia una degli “incidenti di percorso” di Emmett Giovane Vampiro, e che lui ci sia rimasto parecchio male dopo aver realizzato di averla uccisa.

Il titolo, “Le passanti”, è quello dell’omonima canzone di Fabrizio de Andrè.

 

Grazie a tutti coloro che leggono, hanno letto o leggeranno.

Grazie a chi avrà voglia di commentare.

Ma soprattutto, grazie a chi si è divertito leggendo!

 

 

   
 
Leggi le 16 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Twilight / Vai alla pagina dell'autore: Dragana