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Autore: SaltVinegar    31/01/2010    6 recensioni
E la mia vita era diventata una caccia continua.
Non sembravo in grado di provare sentimenti positivi: nessun amore, nessuna pietà, non avevo amici.
Solo dolore e rabbia.
Rabbia e dolore.
Genere: Triste, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“In Cammino…”

~ Colui che colpisce un uomo causandone la morte,

sarà messo a morte.

(Esodo 21:12)

«Si svegli, signora»
Sorrisi, al buio.
Come se poi ci fosse bisogno di svegliarmi. Non avevo chiuso occhio durante la notte, nonostante fossi stanca, nonostante le braccia e le gambe sembrassero due macigni. I capelli erano sporchi, luridi. Un tempo erano stati belli, biondi, lucidi. Tutti mi dicevano che sembravo un angelo, con quegli occhi azzurri, quei capelli dorati, quella carnagione di porcellana, le labbra sottili, il naso francese.
Ora avevo la pelle raggrinzita, i capelli erano nodosi ed unti, gli occhi erano spenti.
Come una bambina, mi venne da piangere pensando che quel giorno avrei voluto essere bella come non mai, fiera, camminare a testa alta, orgogliosa…
Mi asciugai le lacrime, soffocando un singhiozzo, al buio. Mi riscossi all’ennesimo bussare alla porta metallica, aggiustandomi il vestito di lana grezza. Anche se era metà luglio lì, nelle viscere della terra, sembrava pieno inverno. Rabbrividii, stringendomi nelle braccia magre.
«Sono sveglia» risposi con voce roca.
La porta fu aperta da un ragazzo. La pistola al fianco, il viso contratto in una smorfia. Forse lui provava pietà, forse, se avesse potuto, mi avrebbe fatta scappare, mi avrebbe salvata. L’idea che qualcuno provasse pietà per me mi disgustava, perciò la scaccia dalla mente, per lasciarmi prendere le mani da quel ragazzo e legarmele dietro ala schiena, scrollando le spalle. Aveva capito che non avevo la minima intenzione di scappare. Avrei affrontato quello che il destino aveva deciso per me.
Semplicemente quello era il mio destino.
E io non potevo far nulla per cambiarlo.
Avevo avuto la mia vendetta, mesi prima, avevo ucciso l’uomo che mi aveva strappato il cuore, l’anima, che mi aveva condotta alla pazzia, che mi aveva fatta godere, mentre lo uccidevo puntandogli la pistola dritta al cuore. Avevo sperato, in quel momento, che la pallottola gli facesse male come il male che mi aveva fatto lui, lacerandomi il cuore, riducendolo a brandelli, come quello di Thomas.

Del mio piccolo Thomas.
Stavo per rivederlo, mio figlio, non mancava molto ormai; era questione di minuti, al massimo ore.
Le pareti così tristemente famigliari scorrevano ai miei lati, mentre camminavo lentamente, le mai costrette dietro alla schiena, il ragazzo al mio fianco. Magari sarei potuta fuggire da sola, non aveva un’aria molto sveglia, ma perché mai avrei dovuto continuare a vivere?! Ricordavo gli ultimi quattro anni della mia vita. Ero stata accecata dalla rabbia, dal dolore. Una mano sembrava stringermi dolorosamente lo stomaco, in continuazione.
Di quei quattro anni ricordavo tutto.
Soprattutto ricordavo quel 5 Marzo.


Faceva freddo, troppo freddo per essere agli inizi di Marzo. Stringevo Thomas, mio figlio che proprio quel giorno avrebbe compiuto cinque anni, contro il mio fianco, proteggendolo dall’aria gelata.
«Tu aspettami in macchina, torno subito»
Aveva annuito, scompigliandosi i capelli biondi. Era uguale a me e me lo ripetevano sempre. Dopotutto, nessuno aveva mai saputo chi era il padre.
Un vigliacco.
Mi aveva abbandonata un mese dopo l’inizio della gravidanza, un giorno dopo aver saputo che avrebbe avuto un bambino. Mi ero ritrovata sola, dei genitori non disposti al perdono, figlia unica.
Ero stata troppo sciocca, avevo creduto troppo nelle favole quando ero andata a vivere con il primo ragazzo che mi aveva detto una bugia, che mi aveva ingannata. Ma in quel periodo così buio, mi bastava un nome per far ritornare la luca negli occhi, un sorriso per stringermi il cuore, due manine paffute per ricordarmi che mi bastava Thomas, che mi sarebbe bastato sempre. Mi interessava solo proteggerlo, con l’amore con cui solo una madre può voler proteggere il figlio.
Mi sarebbe bastato questo.
Ma non ero riuscita a proteggerlo.
Avevo fallito, per l’ennesima volta nella mia vita. Ero rimasta al supermercato troppo, troppo tempo.
«THOMAS! NO, TORNA SUBITO INDIETRO!»
Avevo urlato come una disperata, correndo in avanti, e lui si era fermato a guardarmi. Fermo, nel bel mezzo della strada.
E poi, tutto avvenne come a rallentatore. Una macchina, una berlina, lo prese in pieno. Non avevo realizzato subito, aveva guardato l’autista, incrociando i suoi occhi, quegli occhi che non avrei mai dimenticato, nell’attimo in cui sfrecciava via, a 200 Km/h.


E la mia vita era diventata una caccia continua. Non sembravo in grado di provare sentimenti positivi: nessun amore, nessuna pietà, non avevo amici.
Solo dolore e rabbia.
Rabbia e dolore.
L’amore infinito che avevo provato per l’unico uomo della mia vita era stato sostituito dall’odio, un odio cieco che non avevo mai provato, che mi spinse alla vendetta più brutale.

Per anni l’avevo cercato, aiutando la polizia e ritrovandomi da sola quando il processo era stato accantonato. Io invece ero mossa dalla disperazione. L’avevo cercato per tutti gli USA, sapevo che non avrei mai perso la speranza.
«Muori, figlio di puttana.»
Harry McAdams morì il 15 Settembre del 2005, colpito da una pallottola sparata da una Beretta 92 da Ellen McFair. Ero stata catturata subito, il processo mi aveva considerata colpevole, condanna: pena di morte.
In compenso tutto si era svolto abbastanza velocemente, in pochi mesi il processo si era concluso, il 15 Luglio sarei stata giustiziata. E quella notte, la notte del 14 Luglio, non avevo dormito, il ragazzo mi aveva legato le mani con le manette dietro la schiena ed ora guardavo, con sguardo atipico e indifferente, una sedia di metallo.
Per un momento, gli occhi mi divennero lucidi, lo sentivo. Avevo paura di chiudere le palpebre, di mostrarmi debole davanti a quegli uomini che stavano per giustiziarmi in uno squallido carcere su di una squallida sedia elettrica.
Da piccola avevo immaginato un futuro diverso, un futuro come famosa attrice di Hollywood, invece la mia vita era stata un totale fallimento.
Ed ero una codarda, avevo paura.
Avevo paura che una scossa elettrica di 2.000 volt mi facesse male.
Mi slegarono le mani, solo per legarle alla sedia, ricoprendomi di elettrodi umidi sulla braccia, sulla testa, sui polpacci.
Ero accusata di omicidio volontario.
La sentenza fu veloce, più di quanto avrei sperato.
Il cuore mi martellava contro il petto, forse sentiva che stava per emettere l’ultimo battito, e cercava una via di fuga dalla morte.
Il cammino verso la fine, verso la mia morte, era infine giunto, ed io mi sentivo soddisfatta.
Mi ero vendicata.
Un sorriso mi increspò le labbra, prima che una scossa di 2.000 volt mi fu sparata in corpo.
Non aveva neanche fatto tanto male.

  
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