Nota: Questa storia è presente anche su altri siti, sotto nick diversi (Alex il più frequente). Sono sempre io. Nonostante non sia una storia recente, ho pensato di ripubblicarla per raccogliere opinioni, consigli e così via!
CAPITOLO 1
Un affare da discutere
Pioveva da giorni. Nei brevi momenti di quiete della bufera, il viscido
manto stradale era invaso da una cortina di nebbia ghiacciata. La
natura faceva il suo corso. Non esisteva giorno di fine estate che non
fosse accolto dalla pioggia. Non a Londra. La gente era così
abituata
che girava per le strade anche con quel tempo. La scapestrata
gioventù
dei quartieri meno eleganti della città non rinunciava alla
sua vita
notturna per qualche lacrima d’acqua.
Soho era il luogo di ritrovo
ideale, una zona da cui la stessa polizia avrebbe gradito girare al
largo. Le macchine della guardia notturna la attraversavano solo per
onorare il loro forte senso del dovere, ma si limitavano a pattugliare
le vie principali e si convincevano che, tutto sommato, era un
quartiere a posto. Escludendo i locali di spogliarello che permettevano
l’uso della merce esposta oltre alla sua visione; escludendo
gli
innocui banchetti di spacciatori che si sistemavano negli angoli bui
dei crocicchi minori e i covi in cui gente di ogni età ed
etnia sedeva
a piccoli tavoli rotondi, trattando di omicidi e ricettazioni fra un
bicchiere di whisky e una partita a poker.
In uno di questi circoli, dall’innocente nome di Alter
Ego,
gruppetti di uomini che non avevano nulla da fare e nulla da perdere si
erano ritrovati quella sera dannatamente piovosa e umida. Due di questi
uomini erano ancora in attesa della persona con cui avrebbero dovuto
discutere il loro piccolo affare. Un’attesa che si stava
prolungando
più del dovuto.
«Non verrà» sentenziò uno dei
due, mescolando un mazzo di carte.
Le mani gli tremavano così tanto che le carte gli caddero
ben due volte
durante l’operazione. Teneva la testa china e gli occhi fissi
sulle sue
mani in concitata attività. Il sudore gli imperlava la
fronte alta e
gli colava fino alla punta del lungo naso.
«Lo hai già detto dieci minuti fa, Jeff»
replicò l’uomo di fronte a lui.
Si raddrizzò sulla sedia, sprofondando le spalle larghe
contro il suo
schienale. Si sforzava in tutti i modi di mantenere
un’apparenza di
calma, sebbene i suoi occhi di un azzurro molto scuro lanciassero
frequenti occhiate alla porta di ingresso.
«Avevano detto che era preciso» insisté
Jeff, senza sollevare lo sguardo dalle carte sparse sul tavolo.
«Avrà avuto un contrattempo. Ora asciugati quella
faccia, sembri un maiale sudato.»
Jeff lasciò le carte e si frugò nella tasca dei
pantaloni, in cerca del
suo fazzoletto. Se lo passò frettolosamente sul viso.
«Sei certo che accetterà, Steve?»
«Come faccio ad esserne sicuro, pezzo di idiota!»
sbottò Steve.
«Qualcuno ha riferito al capo che è un
professionista, non fa domande e
scompare a lavoro fatto. Mi è sembrato che valesse la pena
provare.»
Raccolse le carte e se le rigirò fra le mani, disgustato.
«A volte sei davvero schifoso. Tieni, distribuiscile
tu.» Mollò le carte umide di sudore nelle mani
malferme dell’altro.
L’orologio dietro il bancone batté le undici, ma
l’Alter Ego
non accennava a svuotarsi. A differenza di altri, non era un locale
particolarmente osceno. I tavoli erano occupati per la maggior parte da
elementi maschili solo perché la sera era solitamente
consacrata ai
giochi di carte e agli “affari”. Le poche signore
presenti erano
accompagnatrici o cameriere. L’arredamento era essenziale, ma
le luci
soffuse attaccate alle pareti e la sua reputazione conferivano a quel
posto l’aria di un vecchio Saloon.
«E se l’avessero preso?»
domandò ancora Jeff in un soffio agitato.
Steve parve ignorarlo. Prese due delle cinque carte che aveva in mano e
le sbatté sul tavolo. Barba e baffi gli fremettero di
collera.
«Chiudi il becco e dammi due carte.»
Jeff obbedì, stropicciando un po’ le carte in cima
al mazzo per riuscire a staccarle.
«Credo che prenderò dell’altro
gin.»
«Io credo di no» lo ammonì Steve.
«Dobbiamo essere entrambi sobri, quando
arriverà.»
Jeff aprì la bocca per protestare, ma la richiuse subito.
Avrebbe
voluto dire “se arriverà” o
“ormai non verrà più”, ma le
rughe di
irritazione che avevano iniziato a solcare la fronte del compare lo
convinsero a desistere.
Kevin, il barista, tornava in quel momento
dal retrobottega. Raggiunse il suo posto dietro il bancone e depose a
terra una cassa di birre, sbuffando. Qualche minuto dopo alcune note
leggere risuonarono nel locale e molte teste si girarono di scatto in
contemporanea verso l’angolo dove era situato il piccolo
palco. Alcuni
infilarono meccanicamente una mano all’interno della giacca.
Jeff saltò
sulla sedia, facendo cadere a terra il suo tris di dieci.
Nessuno
si era accorto che una figura era salita silenziosamente sul palco e
aveva imbracciato la chitarra appoggiata contro il muro. Tutti gli
sguardi erano ora puntati su quell’uomo, che in
verità non aveva nulla
di eccezionale. Aveva abbandonato il suo cappotto
all’estremità del
bancone, da cui aveva presto in prestito uno sgabello per trascinarlo
fin sul palco. Rimasto in jeans e maniche di camicia,
appoggiò una
scarpa sullo sgabello e iniziò a pizzicare con indolenza le
corde dello
strumento. Un ciuffo di capelli neri gli copriva gli occhi, le sue
spalle massicce erano piegate in avanti. Dopo i primi accordi, scosse
la testa e raddrizzò la schiena. Ora che i suoi occhi erano
liberi
dalla chioma, si poteva notare che li teneva chiusi. Le sue mani
dall’aspetto duro si muovevano con sicurezza. Una melodia
malinconica
prese a vibrare nell’aria. Strideva veramente tanto con quel
posto, ma
i presenti la accolsero con un misto di indifferenza e
curiosità.
Steve sollevò un sopracciglio e fissò la sua
attenzione altrove. Molti
degli astanti fecero altrettanto, ripiombando nelle loro precedenti
attività. Fu solo quando lo sconosciuto iniziò a
cantare che
l’attenzione di tutti fu nuovamente e definitivamente
calamitata su di
lui.
Una voce bassa e profonda quanto le viscere della terra, rassicurante e
terribile.
Death doesn’t cry.
Get rid of trouble and ignore pain.
Unexpected come and strike,
unpitifully,
unremorsefully.
Take your life and turn back
into shadows,
his Realm.*
Al ritornello si susseguirono lunghe strofe che cantavano
l’azione
liberatrice e crudele della Morte. Di tanto in tanto una nota
improvvisa rompeva il ritmo dimesso della canzone e colpiva i presenti
come un colpo di frusta, come il soffio stesso della morte. Molti
rabbrividirono senza riuscire a distogliere le orecchie da quella voce.
Le mani di Jeff tremavano più che mai e persino Steve teneva
gli occhi
chiusi con forza. I volti delle poche donne presenti guardavano
adoranti verso il palco.
Il sedicente cantante non volse lo sguardo
alla sua platea nemmeno una volta. Sembrava quasi che si crogiolasse
nell’atmosfera rapita e terrorizzata che causavano le sue
note. La sua
voce si spense su un’ultima nota e la musica tacque.
Nell’istante
in cui le parole cessarono, Kevin camuffò un sospiro con un
colpo di
tosse e riempì un bicchiere con del liquido trasparente, dal
quale si
sprigionò subito una densa nuvola di vapore. Lo
lasciò sul bancone,
accanto al cappotto, e tornò alle sue faccende, aprendo la
cassa di
birra il più rumorosamente possibile. Il cozzare del vetro
delle
bottiglie riscosse i gentiluomini presenti, che voltarono le spalle al
palco con una serie di borbottii irritati.
«Allora, metti giù le tue carte, sì o
no?» brontolò Steve.
Jeff lasciò cadere le sue carte come se si fosse scottato e
poi si
portò una mano al taschino, estraendo un pacchetto di
sigarette che
aveva tutta l’aria di essere stato compresso da una mano
nervosa.
Mentre lui estraeva a fatica una sigaretta dal pacchetto malmenato,
Steve girò la sua misera coppia di regine e
imprecò ad alta voce. Chinò
la testa ed iniziò a mischiare le carte con gesti talmente
stizziti che
sembrava che ognuna di esse gli avesse fatto un torto personale. Jeff,
invece, si era appoggiato contro lo schienale alto della sedia; era
appena riuscito a portarsi una sigaretta alla bocca, quando i suoi
nervi vennero messi nuovamente alla prova dall’entrata nel
suo campo
visivo di un cappotto, che qualcuno aveva lanciato sulla spalliera
della sedia libera tra lui e Steve.
Un secondo dopo una mano
portava un accendino all’altezza del naso di Jeff e ne faceva
scattare
la pietra focaia. Colto alla sprovvista, il poveretto si ritrasse sulla
sedia, riuscendo a trattenere la sigaretta con i denti.
Steve alzò la testa di colpo e si ritrovò, suo
malgrado, a sgranare gli occhi.
«Sei il tizio della canzone.»
Non aveva notato per niente i suoi spostamenti.
«Sono il tizio della canzone» confermò
il nuovo venuto.
Appoggiò con cautela il suo bicchiere, che teneva dal bordo,
poiché
evidentemente la bevanda, qualsiasi cosa fosse, doveva essere molto
calda. L’altra mano reggeva ancora l’accendino, la
cui fiamma stava
ormai per estinguersi.
Steve sollevò un sopracciglio, scoccando poi
a Jeff un’occhiata severa. Il compare la
intercettò e annuì, come se si
stesse imponendo da solo di darsi una calmata. Dopo aver deglutito a
forza, trattenne la sigaretta con la mano, si avvicinò e
aspettò che lo
sconosciuto facesse scattare nuovamente la pietra focaia. Appena uno
sbuffo di fumo segnalò l’accensione del tabacco,
Jeff si ritirò. La
sorpresa gli aveva attaccato la lingua al palato, cosicché
non poté
neanche ringraziare, se mai avesse avuto intenzione di farlo.
L’uomo non parve offeso. Conservò
l’accendino nella tasca dei jeans e
si accomodò sulla sedia dove giaceva il suo cappotto. Con
tutta la
calma di questo mondo prese il suo bicchiere e iniziò a
sorseggiare.
«Questo posto è occupato» lo
avvertì Steve.
«Lo era» rispose l’uomo, riappoggiando il
bicchiere sul tavolo senza produrre il minimo rumore. «Per
me.»
Steve aggrottò la fronte, fissandolo accigliato per diversi
istanti,
prima di capire che quello era l’uomo che lui e Jeff avevano
aspettato
per tutta la sera. Si esibì in un cauto
«Oh» e mise via le carte in un
angolo del tavolo. Jeff iniziò a tossire, ma nessuno dei due
gli prestò
attenzione. Steve era impegnato a studiare il volto dell’uomo
accanto a
lui. Il suo viso, come le sue mani, aveva qualcosa di duro e aggraziato
allo stesso tempo. La sua nuca era nascosta da folti capelli neri, un
ciuffo dei quali gli ricadeva sulla fronte. I suoi occhi erano
d’un
castano molto chiaro, ma né il suo sguardo né
l’espressione ferma del
suo volto emanavano calore. Le guance erano ruvide di barba non rasata.
Steve gli poté dare tra i trenta e i quarant’anni,
senza tuttavia
riuscire a decidere se fosse più vicino agli uni o agli
altri.
Guardandolo intensamente, si aveva la vivida ed inquietante impressione
di trovarsi faccia a faccia con una tigre che scruta da lontano la sua
preda.
«Ho saputo che volevate parlarmi.»
Solo allora Steve
si rese conto che lo stava fissando come un idiota. Emise un lieve
colpo di tosse per darsi un contegno. Durante l’attesa aveva
pensato a
qualche commento stizzito da riservare al loro ritardatario ospite, ma
in quel momento tutte le frasi che gli si formavano nelle mente
scivolavano via un attimo dopo. Deglutì a vuoto, decidendo
di andare
subito al sodo.
«Abbiamo un affare da affidarti.»
Scoccò
una nuova occhiata a Jeff, che appoggiò la sigaretta quasi
integra sul
posacenere al centro del tavolo e annuì un paio di volte.
«C-ci hanno detto che sei un professionista.»
Il loro interlocutore non sembrò aver niente da ribattere.
«È il genere di lavoro cui sei abituato»
proseguì Steve. «Ecco, questo è
lui.»
Tirò fuori dall’interno della giacca una
fotografia piegata in due, la
appoggiò sul tavolo e la fece strisciare sulla sua
superficie, in
direzione dell’uomo. Questi non la degnò neanche
di uno sguardo,
continuando a tenere i suoi occhi felini fissi su Steve.
«Abita al 312 di Humpty High. Ma la casa è super
protetta. Potresti…»
«Lascia risolvere a me questo problema» lo
interruppe l’uomo.
Aprì pigramente la foto e la osservò per qualche
istante, prima di
richiuderla e rimetterla sul tavolo. Steve e Jeff attesero in silenzio,
quasi trattenendo il respiro.
«Walter J. Coughly» sentenziò infine
l’uomo, sollevando lo sguardo dalla foto per posarlo a turno
sui due,
che annuirono contemporaneamente.
Steve aveva la risposta pronta.
Se l’uomo gli avesse chiesto altre informazioni o, peggio, il
motivo,
lui avrebbe dovuto scartarlo. E scartarlo avrebbe implicato di
conseguenza la sua sparizione. Jeff aveva iniziato a tamburellare con
le dita sul tavolo e ora anche la fronte di Steve luccicava di una
patina di sudore.
Il loro ospite allungò una mano verso il suo
bicchiere e bevve lentamente un altro sorso. Sembrava divertirsi a
creare tensione. Si rigirò il bicchiere fra le mani, con lo
sguardo sul
liquido trasparente all’interno. Dopo un paio di minuti di
riflessione,
inclinò la testa in avanti, in un tacito assenso.
Steve si sentì
spiazzato. Quell’uomo aveva riconosciuto Walter Coughly, non
poteva
ignorare che si trattava di un pezzo grosso. Avrebbe dovuto sapere che
era protetto ventiquattr’ore su ventiquattro e che anche solo
avvicinarlo si sarebbe rivelato molto rischioso. Gli sovvenne
l’improvviso dubbio che quell’uomo fosse pazzo; ma
gli avevano
assicurato che era in gamba nel suo mestiere, perciò
cercò di scacciare
quel pensiero. Si disse che, anche se fosse stato realmente pazzo, per
lui non contava. L’importante era che avesse accettato
l’incarico e lo
portasse a buon fine. La questione era talmente urgente che non poteva
nemmeno permettersi di discutere il prezzo.
«Ottocento sterline» mormorò
l’uomo, con l’aria di chi fa una gran concessione.
Steve deglutì, ignorando Jeff, la cui bocca si era
spalancata in maniera a dir poco comica.
«Quasi tutti i giorni va al White Rose Garden. Mai da solo.
Si
intrattiene a parlare con chiunque incontra»
riferì precipitosamente
Steve, quasi temesse che l’altro potesse cambiare idea.
Al contrario, emise un verso indecifrabile e continuò a
rigirare il bicchiere tra le mani.
«Avrai un anticipo, naturalmente» si
affrettò ad assicurargli Steve,
non sapendo come interpretare il suo apparente disinteresse.
L’uomo
sorseggiò un altro po’ del liquido trasparente che
aveva nel bicchiere
e lo posò sul tavolo. Sembrava talmente immerso nei suoi
pensieri che
Steve temette che non lo avesse udito.
«Trecento sterline» ribatté invece,
alzando lo sguardo.
«È andata» rispose immediatamente Steve,
trattenendo a stento un
sospiro di sollievo. «Li lascerò a Kevin. Lui ci
fa da contatto.»
Il loro ospite si alzò, si infilò il cappotto e
si aggiustò le maniche.
Dopodichè prese la fotografia, la piegò
un’altra volta e se la infilò
in una tasca. Stava per voltare loro le spalle, quando Steve lo
richiamò e Jeff mugolò il suo disappunto.
«Come dobbiamo chiamarti?»
L’uomo si sollevò il colletto del cappotto e
rimise sotto il tavolo la
sedia che aveva usato con una lentezza che Steve trovò
irritante. «La
gente» - replicò in tono atono, con
un’ultima occhiata ai due - «mi
chiama Thanatos.»
Senza aggiungere altro, si infilò le mani in tasca e
puntò verso la porta del locale.
«Thanatos?» ripeté Jeff, dopo essersi
assicurato di averlo visto uscire. «Che razza di nome
è?»
Steve si strinse nelle spalle e si adagiò sulla sedia con un
verso
stanco. Jeff guardò tristemente la sua sigaretta ormai
consumata e poi
afferrò il bicchiere mezzo pieno che Thanatos aveva
lasciato,
portandoselo con avidità alle labbra. Ne aveva bevuto appena
un sorso,
quando iniziò a sputacchiare.
«Questa è acqua calda!»
protestò.
Steve sollevò su di lui uno sguardo vacuo e stupito.
* La Morte non piange. / Elimina le pene e ignora il dolore. / Giunge all’improvviso e colpisce, / senza pietà, / senza rimorso. / Prende la tua vita e torna / nelle ombre, / suo Reame.